L’economicità delle Onlus
Introduzione
Un problema su cui oggi stanno riflettendo politici ed operatori del settore è quello dell’economicità delle organizzazioni senza scopo di lucro, e di conseguenza la loro autonomia da fonti esterne.
Le imprese di produzione trovano, generalmente, la loro condizione di esistenza nel soddisfacimento del principio di economicità; questo significa che l’azienda deve, innanzitutto, essere gestita in modo da potere autonomamente permanere sul mercato.
Il principio dell’autonomia, per cui l’azienda deve creare al suo interno le risorse che le permettono di perdurare, implica, non una sorta di impensabile “autarchia finanziaria” tale per cui l’impresa debba coprire con il proprio capitale tutto il suo fabbisogno finanziario, ma quantomeno un’attitudine della stessa a coprire, nel tempo, i propri costi con i propri ricavi. Il fine dell’impresa è, infatti, certo legato alla funzione d’uso dei suoi prodotti, ma tanto in quanto essa è in grado di creare ricchezza che possa remunerare i fattori produttivi apportati dagli stakeholders. Per l’effetto della creazione di questa ricchezza, l’impresa assume una funzione sociale che va ben al di là dell’interesse dei singoli e soddisfa invece l’interesse dell’intera collettività.
É invece interessante, capire se possano esistere delle aziende che possono perseguire i propri obiettivi senza soddisfare la condizione di autonomia per cui i costi sono coperti attraverso i ricavi che derivano dallo svolgimento dell’attività aziendale. Lo scopo di questo articolo è di riflettere, anche attraverso delle interviste a coloro che operano nel mondo del “no profit”, sulla funzione sociale che queste organizzazioni hanno per la collettività, a prescindere dalla creazione di ricchezza e, anzi, a costo di consumare risorse della comunità nello svolgimento della propria attività.
L’inquadramento giuridico e dottrinale
Le più importanti leggi nazionali, in materia di regolamento delle organizzazioni “no profit”, sono: la legge 381/1991 e il DLG. 460/97. Esse regolano rispettivamente le “cooperative sociali” e le “organizzazioni non lucrative aventi utilità sociale” in genere[1]. La legge 381/1991 aveva introdotto nel nostro ordinamento, e regolato, la figura della cooperativa sociale e conseguentemente la cosiddetta “mutualità esterna” per cui l’attività, mutualistica non è rivolta solo alla propria base sociale, ma anche a soggetti terzi.
L’art.45 della costituzione, che prevede la tutela e i controlli delle società cooperative, limitava il suo ambito di applicazione e di intervento alla mutualità definita dalla relazione accompagnatoria del codice civile del guardasigilli Grandi, ossia: “la creazione di occasioni di lavoro e di servizi a condizioni migliori rispetto a quelle di mercato”. Si tratta di una forma di mutualità esclusivamente “interna” riferita cioè all’aiuto che i soci si danno, reciprocamente, in modo solidale, e quindi appunto mutualistico. Il D.Lgs. 460/1997 introduce nel nostro ordinamento la figura delle Onlus[2], estendendo, per lo meno nella lettera della legge, il concetto di utilità sociale a tutti quegli istituti che, anche senza adottare la forma della cooperativa, operano a favore delle persone svantaggiate.
In questo modo, si va nella direzione di una forma di privatizzazione del settore dell’assistenza: si cerca cioè di fare entrare il privato in un settore che tradizionalmente era gestito dal “pubblico” a fronte di alti costi per la collettività. La condivisibile convinzione che è alla base di un passaggio normativo di questo tipo è quella che il privato sia in grado di operare in modo più efficace ed efficiente anche nel settore dell’assistenza.
Nasce in questo modo una figura nuova di azienda. Tradizionalmente[3], l’economia aziendale ha studiato le tipologie di azienda e le loro condizioni di economicità con riferimento a:
1. “aziende di produzione per il mercato: è l’impresa; essa soddisfa indirettamente i bisogni e i desideri del proprio soggetto di istituto attraverso la remunerazione di quanto questi ha apportato nell’azienda; ”
2. “aziende di produzione non per il mercato: sono le aziende che soddisfano direttamente i bisogni del soggetto di istituto attraverso la propria produzione”: in questa categoria rientrano prima di tutto, per quanto attiene il fine istituzionale, le cooperative caratterizzate dalla mutualità interna;
3. “aziende di consumo del tipo famiglia (o assimilabile) con attività di produzione di servizi interni familiari e impiego dei redditi sia di lavoro sia derivanti dall’amministrazione di risparmi.”
4. “aziende di consumo del tipo famiglia con attività di produzione di nuova ricchezza mediante l’impiego di capitale e lavoro, senza scambio sul mercato e caratterizzate dal consumo diretto dei risultati della produzione;” in realtà è difficile pensare, nell’economia moderna, a delle forme di produzione e consumo autarchiche di questo tipo, ciononostante seguendo l’impostazione della dottrina economico – aziendale ho deciso di riportare anche questo caso possibile;
5. “aziende di consumo del tipo famiglia con attività di produzione di nuova ricchezza mediante l’impiego di capitale e lavoro, caratterizzate dallo scambio totale o parziale sul mercato per i risultati della produzione”;
6. “aziende di consumo pertinenti a enti pubblici territoriali o non con l’attività di produzione di servizi pubblici sociali indivisibili (difesa, giustizia ecc.) ”;
7. “aziende di consumo pertinenti a enti pubblici territoriali o non, con attività di produzione di beni e servizi svolta in via diretta in economia”;
8. “aziende pubbliche di produzione di beni e servizi svolte mediante enti giuridici autonomi di diritto pubblico o privato attraverso l’incasso di prezzi e l’eventuale ripianamento del risultato economico di gestione mediante quote di entrate pubbliche.”
Organizzazioni Non Lucrative d’Utilità Sociale
Si pongono in una posizioneparticolare; non sono inquadrabili in nessuna delle tradizionali classi sopra individuate: sono sicuramente delle aziende a capitale privato, di diritto privato, la cui produzione di beni non è però diretta al naturale soggetto economico, bensì a terzi. Se la Onlus è gestita secondo i principi ispiratori della legge 460/1997, il soggetto d’istituto è una parte della collettività che si trova in condizioni di svantaggio e che, almeno in via di prima approssimazione, poco o nulla ha a che fare con i portatori di lavoro e di capitale; si tratta di:
a. persone svantaggiate in ragione di condizioni fisiche, psichiche, economiche, sociali o familiari;
b. componenti collettività estere, limitatamente agli aiuti umanitari.
Non ci occuperemo di questo secondo tipo di Onlus, la cui attività è rivolta alle comunità estere perché il discorso ci porterebbe inutilmente lontano.
Se, come detto, le aziende di produzione trovano la loro condizione di esistenza nel soddisfacimento del principio di economicità; l’azienda deve essere gestita in modo da potere autonomamente permanere sul mercato. Occorre chiedersi se si possa pretendere la stessa cosa da un’organizzazione non lucrativa avente utilità sociale oppure se, proprio in ragione di tale utilità sociale e delle peculiarità di questo tipo di azienda, si possa ritenere che il principio dell’autonomia perda la sua essenzialità.
I rapporti con la pubblica amministrazione
Una Onlus che, in senso stretto, non è in grado di soddisfare il principio dell’autonomia, ma che si accolla una parte dei costi generalmente sostenuti dalla pubblica amministrazione, può essere aiutata dalla pubblica amministrazione con tre diverse tipologie di intervento nel rispetto del principio di sussidiarietà:
· ricerche, che vengono messe a disposizioni delle organizzazioni non lucrative aventi utilità sociali, o partecipazione finanziaria dello stato alle ricerche di queste organizzazioni;
· sgravi fiscali, che permettano alla cooperativa di raggiungere nel tempo condizioni di economicità;
· contributi in conto capitale e in conto esercizio.
Occorre studiare forme di sussidio che favoriscano il formarsi di queste organizzazioni; lo stato deve porsi come riferimento, nel rispetto del principio di sussidiarietà, per le organizzazioni che abbiano bisogno del suo aiuto perché gestire in proprio i servizi che queste organizzazioni forniscono ai cittadini sarebbe comunque molto più oneroso; il “pubblico” deve aiutare e naturalmente controllare lo sviluppo delle Onlus; deve stimolare lo studio sulle problematiche inerenti il volontariato deve farsi intermediario tra le università, i centri di ricerca e quelle fondazioni che investono in ricerca in proprio.In definitiva: sicuramente lo stato deve finanziare la ricerca nel campo dell’assistenza: tale ricerca, per sua caratteristica, diventa fruibile da tutti i soggetti e costituisce, pertanto, un aiuto per tutte le organizzazioni private che rendono servizi alle persone svantaggiate.
Probabilmente è giusto che lo stato favorisca il raggiungimento delle condizioni di economicità di questo tipo di organizzazioni attraverso forti sconti sulle imposte vigilando, poi attentamente che alcune Onlus non assumano carattere elusivo.
Qualche problema in più pone, invece, il fatto di finanziare direttamente le Onlus; la prima domanda che ci dobbiamo porre in tal senso è se, e in quali termini, un’organizzazione possa agire a vantaggio dell’intera collettività. Questo dovrebbe essere il fine di istituto di una azienda pubblica.
Si pensi alla statalizzazione delle ferrovie: attraverso l’acquisizione delle linee ferroviarie lo stato aveva fornito un servizio, giudicato di alto valore per la collettività, ad un prezzo inferiore rispetto a quello che poteva essere applicato da un privato. I costi aggiuntivi rispetto agli introiti venivano poi pagati con dei trasferimenti di denaro che lo stato aveva ricevuto dall’imposizione fiscale.
L’azienda pubblica ha quale peculiarità quella di essere fruibile da tutti i cittadini che abbiano un certo bisogno (nel caso delle ferrovie quello di viaggiare, nel caso degli ospedali quello di essere ricoverati), in cambio tutti i cittadini pagano una parte del loro reddito. Il prezzo pagato a tal fine come parte delle imposte è, in una certa qual misura, simile a quello pagato per un’assicurazione o per un diritto di opzione: pago il sistema sanitario, nazionale perché in questo modo potrò avere un trattamento sanitario a prezzo irrisorio, se dovessi avere una malattia (come avviene per un assicurazione); pago una certa quantità di tasse, perché questi soldi siano versati alle ferrovie affinché io possa acquistare un biglietto ad un prezzo inferiore al suo “naturale” costo di mercato, nel momento in cui ne avrò bisogno (come se fosse un diritto di opzione che io posso esercitare nel momento in cui decido di viaggiare in treno).
Meccanismi questo tipo non sono però certamente pensabili per molte Onlus. è sicuramente pensabile che un’organizzazione non lucrativa avente utilità sociale, che opera nel settore della promozione dell’arte, possa organizzare una mostra che sia fruibile da tutte le persone che abbiano interesse a visitarla. Difficilmente si potrà, però, pensare, che la singola organizzazione possa mettere in essere una rete sufficientemente vasta di servizi assistenziali da poter essere usufruita da tutti i cittadini che si trovino in una certa condizione di necessità. Questo significa che il soggetto di istituto della Onlus difficilmente sarà l’intera collettività o, comunque, quella parte della collettività che ha bisogno del servizio: esso sarà, in genere solo una parte della comunità che, per varie ragioni, ha modo di usufruire della azione di detta organizzazione.
Dal punto di vista del singolo cittadino, questo significa che egli potrà trovarsi nella situazione di avere bisogno dell’opera di una certa Onlus, per esempio l’assistenza domiciliare alla nonna anziana, di pagare, attraverso il versamento delle imposte, una parte dei trasferimenti alle Onlus e di non poter utilizzare l’opera dell’organizzazione per almeno due ordini di motivi:
· impossibilità di accesso: per esempio perché nessuna Onlus nelle vicinanze, ha capienza per accettare nuovi assistiti;
· eccessiva onerosità dell’accesso: questo è sicuramente il caso più grave. Nessuna norma agisce nel senso di costringere le organizzazioni non lucrative aventi utilità sociali a prestare i propri servizi a prezzi in qualche modo calmierati.
Per evitare, almeno nei limiti di quanto questo non sia strettamente fisiologico, questo tipo di problemi, è necessario agire sui meccanismi della regolamentazione e del controllo[4]. Quando la Onlus opera in regime di agevolazione, dovrà accettare un intervento del “pubblico” sulle proprie politiche aziendali e sulla propria organizzazione.
Consideriamo il caso delle comunità per tossicodipendenti in Lombardia: ho intervistato[5] l’assessore alle politiche sociali Maurizio Bernardo, secondo il quale la regione “ha provveduto all’approvazione dei requisiti per ottenere l’autorizzazione, a1 funzionamento e accreditamento di comunità di recupero, o di reinserimento di tossicodipendenti, già esistenti sul territorio regionale o di nuova costituzione.
Due sono i fronti sui quali la Regione Lombardia ha espresso precise richieste: da un lato la professionalità del personale e dall’altro la funzionalità delle strutture. Nel primo caso, nella determinazione dei requisiti funzionali, viene operata una distinzione tra comunità pedagogico – riabilitative e terapeutico – riabilitative. Laddove la riabilitazione va di pari passo con la rieducazione, l’organico, per quanto riguarda le strutture residenziali, deve essere costituito da almeno due operatori a tempo pieno per trentasei ore settimanali per ogni gruppo di 20 ospiti; per ogni gruppo di 25 ospiti se si tratta di strutture semi – residenziali. Uno degli operatori deve essere in possesso di diploma di educatore professionale o di assistente sociale o laurea in pedagogia, sociologia, medicina o altra laurea in materia umanistiche. Il secondo operatore deve invece essere in possesso di diploma di scuola media inferiore associato ad esperienza lavorativa nel settore. Nel caso in cui sia prevista anche l’assistenza a minori, figli di tossicodipendenti, viene richiesta la presenza di un educatore professionale o assistente sociale.
Diverso è poi il rapporto numerico tra operatori ed ospiti richiesto nelle comunità terapeutico – riabilitativo: due operatori sono impegnati nell’assistenza di un gruppo di 15 ospiti nelle comunità residenziali; 20 ospiti se si tratta di comunità semi – residenziali”. Ho voluto riportare pressoché per intero la dichiarazione dell’assessore perché pone in evidenza la tendenza della pubblica amministrazione a favorire lo sviluppo delle organizzazioni non lucrative aventi utilità sociale, ponendo però precisi paletti ed indicando chiaramente come esse debbano essere organizzate. La gestione passa all’imprenditore privato, che deve amministrare il servizio in modo efficiente ed efficace seguendo però delle linee guida generali stabilite dagli amministratori pubblici eletti dai cittadini.
Il concetto di economicità, in questo tipo di istituti, a mio avviso, cambia sensibilmente rispetto al concetto di economicità in un’impresa di produzione. Spesso questo tipo di istituto può essere gestito nel rispetto dell’economicità, solo considerando i contributi che esso riceve dall’amministrazione pubblica come proventi tipici.
Analogamente, gli sgravi fiscali, associati al divieto per questo tipo di imprese di distribuire gli avanzi di gestione, hanno lo scopo di diminuire i costi visto che il fine non è quello di “fare utili” e creare ricchezza, ma quello di creare “ricchezza sociale” attraverso la produzione di esternalità positive di cui la comunità gode ipso facto.
Alessandro Arrighi
Bibliografia
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[1] La legge 460/97 considera le cooperative sociali Onlus di diritto.
[2] La figura delle ONLUS, a dire il vero, non è del tutto nuova nello scenario legislativo italiano; già un disegno di legge approvato dal consiglio dei ministri nella seduta del 14 dicembre 1995 recante la “Disciplina fiscale delle organizzazioni non lucrative aventi utilità sociale” ne aveva previsto le caratteristiche.
[3] Si veda la classificazione delle aziende proposta da Mario Cattaneo, Etas Libri, Milano, 1969 “Economia delle aziende di produzione pagg. 70-71.
[4] Si pensi per esempio ai controlli previsti dalla legge 460/97 per le Onlus e alle revisioni previste dal D. Lgs. Cps 1577/1947 ogni due anni per le società cooperative in genere, che diventano annuali per le cooperative sociali come previsto dalla legge 381/1991.
[5] A mezzo fax.