Quando lo Stato offre un’opportunità da cogliere

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“L’attenzione ai nuovi dispositivi fiscali in Italia è sempre stata elevata, soprattutto nel campo delle politiche di incentivazione e stimolo”. È una frase che io stesso scrissi un anno fa, per introdurre un libro in pubblicazione sulla Patent Box e devo tuttavia constatare che non é sempre vera, o almeno non completamente.

Dalle fasi di preparazione del testo, fino alla sua uscita, ho frequentemente avuto modo di illustrare a vari interlocutori come la normativa in questione, emanata con la Legge di Stabilità 2015, fosse una eccellente opportunità per le aziende ed una delle buone cose del governo di allora. Forse imperfetta in alcuni aspetti, come specificato nel libro, ma complessivamente una buona idea per evidenziare il valore “già creato” ma non visibile, in quanto intangibile.

Ad oggi credo sia ancora un’opportunità largamente sottovalutata e sottoutilizzata. E se non fosse per il “caso Ferragamo”, che l’ha portata di recente all’attenzione dei media ma soprattutto degli analisti finanziari (i quali finalmente attraverso quel caso specifico hanno compreso la positività dell’impatto della norma), la sua notorietà sarebbe ancora blanda.

IL FISCO MA ANCHE L’EVIDENZA DEI VALORI IMMATERIALI D’IMPRESA

Avendo avuto per le mani alcuni dossier, ho potuto riscontrare che la maggior parte degli ambiti di applicazione sino ad oggi si sono focalizzati prevalentemente su quanto già noto: cioè nella razionalizzazione dei marchi e dei brevetti già in qualche modo previsti a bilancio, e assai raramente nel portare alla luce anche la parte effettivamente “invisibile” dei processi innovativi, a volte assai più consistente.

Questo porta a una duplice conseguenza:

· la prima é che si sottoutilizza la norma “accontentandosi” del beneficio fiscale, parziale ma facilmente e rapidamente misurabile, con costi che dovrebbero essere contenuti (non sempre invero);

· la seconda è che si lascia esposta alla vulnerabilità della imitazione, contaminazione, riproduzione, una propria capacità innovativa, con conseguenze forse non immediate, ma che se emergessero, comporterebbero oneri ben maggiori di recupero: la capacità e il modello di generazione dell’innovazione, il consolidamento del know-how dell’azienda.

In questi termini ho presentato il tema anche recentemente ad un convegno AIPPI, ovvero l’associazione degli esperti nella protezione dei diritti di proprietà intellettuale, cercando di sensibilizzare l’attenzione sulla componente invisibile.
Credo che a questo punto sia doveroso un inciso che chiarisca i termini di quello che uso definire “parte invisibile” anche perché connesso alla comprensione della portata reale della normativa.

La legge ha infatti una portata ben più ampia dei meri benefici fiscali su marchi e brevetti: essa comprende l’intero processo innovativo, come recita la norma stessa, dal “tratteggio” dell’idea su un foglio, all’intero percorso che quel tratteggio genera fino al risultato finale, il prodotto /servizio innovativo che arriva all’utente finale.

LE OPZIONI POSSIBILI: IL RUOLO DELL’ “IP COMPANY”

Fa parte di tale percorso l’intera gestione della generazione del know-how, nonché, per la prima volta, gli investimenti in comunicazione e commerciali necessari (le spese di marketing) per raggiungere l’utenza finale, che diventano parte integrante del risultato.

Si comprende immediatamente il contenuto innovativo, la dimensione che può raggiungere l’insieme valorizzato, ma anche la complessità dell’analisi e della strutturazione del processo necessaria, che poi costituirà componente essenziale del ruling da presentare all’Agenzia delle Entrate.

Anche qui compare un ulteriore risvolto innovativo: l’opzione espressamente prevista e legittimata dell’ ”IP company” come soluzione alternativa al ruling. Fino alla legge in questione, le IP company sono spesso state affrontate come veicoli di dubbio profilo, e altrettanto spesso come strumenti elusivi.
Con questa legge, diventano invece, opportunamente configurate, strumenti legittimi e anzi, quasi preferenziali. L’IP company riduce i tempi, supera il problema del ruling, rappresenta un “valore” facilmente isolabile e valorizzabile.

Dai vari professionisti con cui mi sono confrontato, la fase di condivisione con l’Agenzia delle Entrate di un processo strutturato di emersione di attivi immateriali mi é apparsa come uno dei fattori di maggiore resistenza. Nella realtà dei fatti, almeno dialogando con le aziende che sono “andate oltre” e hanno percorso le opzioni più ampie concesse dalla legge, il problema maggiore é consistito nei tempi lunghi più che nella accettabilità del processo nell’ambito del “ruling”.

La legge comunque consente di avvalersi del progetto di Patent Box dal momento della presentazione e non dal momento della accettazione: se é vero che molte volte può valere la pena attendere, é anche vero che in molti casi il trade-off tra anticipazione e rischio di eventuale rettifica di quanto impostato é a vantaggio della prima.

LA VALUTAZIONE DEGLI “ASSET” IMMATERIALI E I SOGGETTI COINVOLTI

Due elementi di estremo interesse da tratteggiare brevemente riguardano da un lato il tema dei metodi di valutazione, dall’altro i protagonisti necessari per trarre il massimo beneficio dalla norma.

In termini di “metodi” la legge, pur esponendoli con una logica che può dare luogo a fraintendimenti, permette un ampio utilizzo dei più diffusi metodi di valutazione, specifici (per gli asset immateriali) e generali di business valuation.
Di fatto tutti i metodi previsti dall’OCSE nell’ambito del regime del “transfer price” sono applicabili. Si tratta quindi di scegliere i più idonei allo specifico processo di innovazione. Molti si ancorano al “profit split” per via di una certa semplicità di applicazione e per una più diffusa comprensione: in realtà si può attingere ad un menù di almeno sei-sette metodologie valide e accettate, da filtrare caso per caso.

Nella realtà è rara la situazione in cui si potrà applicare un solo metodo: un processo complesso non può trovare sufficiente sintesi in una sola metodologia senza rinunciare a qualcosa, o senza ritrovarsi con troppe forzature, adattamenti, arrotondamenti. Una attenta combinazione dei metodi più consoni alla specifica situazione e correttamente illustrata non credo possa trovare ostacoli in sede di “ruling”.

Venendo ai protagonisti, l’uso del plurale non é casuale: impostare quanto descritto non può fare riferimento ad una singola sfera di competenze ma deve trovare realizzazione attraverso la collaborazione tra esperti di fiscalità, di normativa, di processo-prodotto e di valutazione degli asset, attraverso una iterazione fase per fase al fine di definire l’esatto perimetro degli elementi da valorizzare.
Il lungo confronto con fiscalisti e giuristi nel corso della stesura del mio libro mi ha convinto che per raggiungere un risultato affidabile, stabile, e valorizzabile, la copertura di tutti tali aspetti sia un requisito fondamentale. Se poi ci si affida a team affiatati, seppur appartenenti a tre distinte categorie professionali, il risultato ne risulterà enfatizzato.
Può apparire eccessivamente complesso e articolato, nonché costoso, il doversi appoggiare ad un contributo congiunto, ma ovviamente lo sforzo va calibrato in funzione dei valori ragionevolmente conseguibili.

I BENEFICI DEL PATENT BOX

Lo Stato per una volta ha messo a disposizione delle aziende una normativa che costituisce una concreta opportunità, la cui applicazione può apparire complessa ma che vale la pena di esplorare per i benefici che può produrre in termini patrimoniali (maggiori asset, maggiore valore), finanziari (maggiori asset, maggiore forza finanziaria, migliori rating, e benefici fiscali diretti) e operativi (maggiore ordine e gestibilità del processo innovativo e di difesa del know-how) che può produrre.

Chi si sente dire che “non conviene”, ne chieda sempre il perche’. Sara’ sorpreso nell’ascoltare per tutta risposta spesso motivazioni frettolose e generiche, che  certamente non si riferiscono alla sua specifica situazione.

Luca Pieroni
Founding Partner DGPA Group