IL DECLINO A WALL STREET DELLE GRANDI CASE FARMACEUTICHE DIPENDE DALLE NUOVE SOLUZIONI WEB PER LA SALUTE DELLA GENTE

La digitalizzazione sta facendo -per adesso solo in America- forse la più illustre vittima della sua (breve) storia. La sentenza del mercato dei capitali americano parla chiarissimo al riguardo: con l’esplosione degli acquisti online, dei sistemi online di ricerca dei farmaci alternativi e generici, ma soprattutto con le prospettive dell’arrivo di nuove aziende di servizi che non si limiteranno a rendere più efficienti e più mirati gli acquisti di farmaci (bensì arriveranno ad occuparsi in via preventiva della salute dei lavoratori) gli analisti prevedono un futuro alquanto grigio per le grandi case farmaceutiche: ricavi con bassa crescita dei ricavi e addirittura profitti in declino!

 

Quel che preoccupa di più non è la prospettiva di una riduzione/razionalizzazione della spesa per farmaci (che pure si consolida come tendenza di fondo che coinvolgerà tanto i privati quanto le assicurazioni come pure le pubbliche amministrazioni) bensì la (ridotta) capacità dei maggiori operatori del settore di continuare anche in futuro a godere degli ampi margini sui costi che hanno fino a ieri caratterizzato una delle più “ricche” industrie della storia.

Come si può facile immaginare non è soltanto la pressione politica dell’amministrazione presidenziale di Donald Trump che spinge verso una razionalizzazione della spesa per la sanità e -a partire dall’America- sta dunque lavorando per una riduzione dei margini delle case farmaceutiche, ma anche una tendenza di fondo del mercato di sbocco delle principali aziende del settore che parte da molto lontano.

Di seguito alcuni fattori che stanno scatenando il panico a Wall Street circa i titoli quotati delle aziende farmaceutiche:

•Molti dei principali brevetti che riguardano i prodotti farmaceutici sono scaduti o stanno per scadere, lasciando spazio a farmaci generici che utilizzano il medesimo principio attivo senza dover ammortizzare i costi per la ricerca,

•La possibilità di servirsi online (invece che in farmacia e dietro ricetta medica) apre una pericolosa quanto inevitabile strada al consumatore verso il “fai da te” e verso ulteriori pressioni sul prezzo di tutti quei farmaci che sono distribuibili su canali alternativi,

•L’insorgere di società cosiddette “Pharmacy Benefit Manager” (che si occupano di ottimizzare per conto dei privati, delle assicurazioni e delle pubbliche amministrazioni la spesa farmaceutica) come Express Scripts (100 miliardi di dollari di fatturato),

•La promessa -ancora più dirompente- di tre grandi imprenditori come Jeff Bezos (Amazon), Warren Buffett (Berkshire Hathaway) e Jamie Dimon (CEO JP Morgan) di costituire una nuova realtà che invece di limitarsi a ottimizzare la spesa farmaceutica arriverà addirittura a occuparsi in forma proattiva, preventiva e onnicomprensiva, della salute dei lavoratori.

Tutti fattori che giocano verso una riduzione della spesa per i soli farmaci, e dunque che congiurano per una riduzione dei profitti attesi per il comparto.

Le uniche linee di prodotto farmaceutico che stanno ancora aumentando i prezzi sono quelle degli antitumorali, mentre già per tutte le altre linee (a partire da quelle dove la ricerca è più attiva, come le medicine per la

Sclerosi Multipla, per il Diabete e per la Colesterolemia) si registrano già decise tendenze al ribasso dei prezzi.

 

Quanto questa tendenza al ribasso sui titoli delle aziende farmaceutiche si consoliderà nel tempo è oggi difficile dirlo. Lo stesso presidente americano che ha voluto la revisione dell’ObamaCare e ha avviato indirettamente il citato processo di erosione ha anche lanciato loro un’importante ciambella di salvezza:

il governo avvierà nuovi incentivi per la ricerca farmaceutica allo scopo di evitare che sia quest’ultima la vittima finale del processo di razionalizzazione del settore, dimostrando la serietà del suo intento di portare efficienza nella spesa pubblica e privata senza necessariamente colpire qualche vittima designata.

Ovviamente subito dopo l’annuncio di Trump i titoli in questione hanno goduto di un rassicurante rimbalzo. Resta da vedere tuttavia quale si rivelerà per essi la tendenza di fondo…

 

Stefano di Tommaso

 




E-COMMERCE, PARCEL & LOGISTICA IN ITALIA

E-COMMERCE E FINANZA

L’ultimo Black Friday ha posto sotto gli occhi di tutti lo sviluppo tumultuoso degli acquisti online. Un fenomeno di cui i “retailers” italiani non stanno molto approfittando. La rivoluzione digitale passa anche dal commercio ma i suoi pionieri non sono certo i nostri connazionali, nemmeno sul mercato interno. Ben poche delle catene commerciali italiane hanno fatto qualcosa per adeguarsi alle nuove tendenze di mercato. Chi guadagna posizioni con il rimescolamento che ne deriva sono le grandi corporations multinazionali come Amazon o Alibaba. E mentre il commercio elettronico avanza esso condiziona anche i servizi ad esso collegati, come quelli della logistica e del trasporto.

 

Non è un vero problema di know-how, dal momento che procurarsi la tecnologia di un “market place” o di un sito di e-commerce è veramente alla portata di tutti. La ragione del ritardato sviluppo online degli operatori nazionali è casomai legata alle dimensioni degli investimenti pubblicitari che sono necessari per avere successo e che non si giustificano se non raggiungono l’intera nazione. Altro motivo del ritardato sviluppo online dei nostri operatori commerciali è poi l’ingiustificato timore di danneggiare i propri punti vendita fisici.

Dunque quando parliamo di ritardato sviluppo del commercio elettronico nel nostro Paese vediamo principalmente cause finanziarie e culturali, che sono due facce della stessa medaglia: se l’Italia vuole alimentare la sua industria deve riuscire a evitare che essa risulti incapace di vendere i suoi prodotti, a partire dal mercato domestico. Le motivazioni finanziarie tra l’altro sopravanzano di gran lunga quelle culturali perchè si può constatare chiaramente che gli operatori che oggi risultano leader nel settore del commercio online sono tutti passati dalle forche caudine di due o tre anni di perdita economica prima di veder affermato il proprio successo online.

in Italia con un mercato finanziario e borsistico assai poco capace di far affluire capitali di rischio a operatori dell’e-commerce che vogliano partire da zero e, più in generale. poco capace di avere a che fare con i rischi e le esigenze tipico delle start-up innovative, è più difficile che qualcuno si avventuri a fare vendite online con i quattrini dei soliti “family&friends” a fare vendite online.

IL “DIGITAL DIVIDE” ITALIANO (L’ARRETRATEZZA NEL MONDO ONLINE)

Dal punto di vista culturale il problema è forse ancora più grave: nonostante che per gran parte degli articoli che si possono reperire in rete esista un risparmio di prezzo dell’ordine del 20-40%, oggigiorno le vendite online in Italia appaiono ridottissime, anche perché solo una piccola parte della popolazione è entrata nell’ordine di idee di cambiare seriamente le proprie abitudini. Questo ovviamente riduce la domanda potenziale e di conseguenza l’attrattivitá del settore per chi ci potrebbe investire.

Nel 2016 soltanto un terzo degli italiani ha fatto almeno una volta shopping online, contro il 52% medio dei Paesi OCSE (cui apparteniamo anche noi). Mentre in rete naviga ancora solo il 69% dei connazionali e tra le aziende italiane solo il 71% di esse ha un proprio sito internet e solamente il 37% del totale è presente sui social networks.

Infine esiste un problema oggettivo: se un operatore è basato in America e propone un articolo o un servizio innovativo è molto probabile il mercato di sbocco per quell’articolo sia il mondo intero. Se lo fa in Italia è possibile che esso non risulti interessante nemmeno per certe aree geografiche dello Stato. Dunque il forte impatto sulle prospettive di business della dimensione del mercato potenziale non può che disincentivare quelle iniziative che non nascono subito globali. Per far decollare queste ultime però servono ancora più quattrini. Insomma non esistono in natura le pari opportunità, tantomeno nel commercio.

PARCEL & LOGISTICS (TRASPORTI E LOGISTICA DEL COLLETTAME)

Esiste poi tutta un’attività di supporto al commercio elettronico (stoccaggio, packaging, distribuzione ecc…) che solo ogni tanto affiora sulle prime pagine di giornali e telegiornali ma i cui investimenti e le cui dimensioni sono spesso ignote ai più.

Amazon quando è sbarcata in Italia ha comperato/ realizzato/ automatizzato un certo numero di piattaforme logistiche per potersi attrezzare per le consegne a domicilio, e ciò nonostante che persino nella situazione attuale si affidi ancora poi a operatori logistici e vettori terzi per le consegne.

Allo scorso Agosto Amazon dichiarava ai giornali di aver già investito oltre € 450 milioni e di aver dato lavoro a circa 2000 persone solo in Italia. Non si può certo investire (in tutto il mondo per di più) se non si dispone dei necessari capitali e finanziamenti per far concorrenza a giganti come Amazon.

In realtà Amazon è un commerciante online sbarcato in borsa già vent’anni fa (1997), e oggi per le sue dimensioni, per la sua visibilità, per la capillarità della propria pubblicità e per mille altri motivi pratici appare essere piu visibile di tanti altri grandi operatori. Amazon è dunque solo la punta di un iceberg ben più massiccio che riguarda gli oligopolisti del commercio elettronico, destinato a costringere numerosissime altre imprese ad adeguarsi alle nuove tendenze. (Nel grafico l’incremento di valore solo fino a Maggio scorso).

Ad esempio i corrieri espressi italiani, già presenti da anni sul territorio e in precedenza attivi per altri tipi di consegna, si stanno attrezzando non poco per beneficiare (e anche per resistere all’impatto) di volumi decisamente crescenti nel settore delle consegne a domicilio. La loro appare come un’attività piena di insidie ma con forti prospettive di crescita e con la necessità di incrementare l’automazione dei processi, per mantenersi competitivi!

COME CAMBIANO LE CONSEGNE B2C (BUSINESS TO CONSUMER)

Innanzitutto parliamo delle consegne ai privati, i quali spesso non sono in casa. Quelle consegne devono perciò adeguarsi a tale fattispecie e necessariamente avvenire fuori degli orari di lavoro più comuni. Poi prendiamo in considerazione tutte le problematiche relative alla consegna, spesso impossibile perché spesso, nonostante essa avvenga agli orari concordati, capita ugualmente che all’indirizzo di destinazione non ci sia nessuno al momento dell’arrivo del corriere, generando un traffico di ritorno per il quale nessuno paga nulla. Parliamo infine delle tariffe di consegna, oggi sempre più stracciate per venire incontro alle esigenze commerciali.

Come fa un corriere espresso a consegnare merce di peso (e valore) molto limitato a costi bassissimi per il cliente senza andare in rosso? Può riuscirvi quasi solo con l’ausilio di grandi volumi e dell’automazione (il rilevamento digitale di ogni passaggio, come: picking, deposito, spedizione, logistica e smistamento, consegna) e deve disporre di grande potenza nei sistemi informativi, che devono oggigiorno “dialogare” con il mittente (soprattutto quando è un colosso come Amazon o Zalando) e deve obbligatoriamente riuscire a mostrarne online il “tracking” (cioè deve far vedere in ogni istante all‘acquirente che si collega al sito della Amazon di turno dove si trova in quel momento il suo pacco).

Dimensioni aziendali e automazione sono dunque elementi essenziali anche per i corrieri espressi perché i conti tornino loro in tasca, sebbene la forte crescita del mercato delle consegne di acquisti online ai privati non accenni a flettere e possa quindi ampiamente giustificare la montagna di investimenti ed efficientamenti che risultano necessari per potervi operare.

Se ne può facilmente dedurre che l’intero settore dei trasporti ne subirà uno scossone rimescolando le carte della competizione e facendo rimanere a galla solo i migliori operatori. Ma per qualcuno di essi sarà anche l’occasione di emergere e fare profitti.

Stefano di Tommaso




IL LUXURY FASHION CEDE ALLE LUSINGHE DELL’E-COMMERCE

Il mercato dei servizi digitali sta cambiando le nostre abitudini nel modo più profondo e pervasivo che avremmo mai potuto immaginare.

 

C’era una volta il commercio elettronico, iniziato con la libreria di Amazon, poi piano piano esteso a praticamente ogni merceologia si possa immaginare. Quello che forse nessuno poteva prevedere era il repentino trapasso dell’intero mondo digitale al mobile, integrando la messaggistica, i social networks, i sistemi di pagamento, e persino il controllo della salute.

Ovviamente l’estendersi a macchia d’olio del fenomeno del commercio elettronico sta rivoluzionando non solo la distribuzione organizzata, la logistica e la comunicazione, ma anche tutti gli altri business ad esso collegati, ivi compresi quelli avanzati di molti dei grandi pionieri del web e dei colossi delle comunicazioni.
Già perché non solo stanno cambiando -più o meno velocemente- le nostre abitudini, ma ci sono intere popolazioni , come quelle del sud-est asiatico, che si sono adattate più in fretta delle altre ai nuovi standard digitali e il business sulla rete da quelle parti rischia di correre molto più velocemente di quanto accada nei paesi OCSE, quelli ricchi per intenderci. E in Asia, si sa, vivono oltre 5 miliardi di individui. Se queste popolazioni si adattano più velocemente di noi ai nuovi modelli di business, è probabile che anche le loro aziende trarranno maggior benefici dalla rete!

In Cina oramai il numero dei telefonini cellulari (oltre 800 milioni) ha soppiantato quello dei televisori e -complice la relativa carenza di altre infrastrutture- molte delle esigenze di consumo o di servizio della popolazione passano oggi dalla rete mobile. È questa la prima ragione del grande successo di Tencent, nome occidentalizzato di Téngxùn Kònggǔ Yǒuxiàn Gōngsī (alla lettera: informazione crescente): oggi l’azienda di maggior capitalizzazione in Cina (340 miliardi di dollari) e con il maggior numero di utenti: ben 770 milioni di persone in tutto il mondo. Tencent è la titolare del servizio di messaggistica online “WeChat” (alla lettera “noi chiacchieriamo”, in cinese Weixin) e dell’omonimo servizio di pagamenti elettronici cui aderiscono oltre 300 milioni di utenti nel mondo.

La vera notizia è che WeChat non soltanto ha iniziato a vendere online apparecchi vari, accessori e abbigliamento, bensì sta corteggiando i giganti del lusso, forte della sua vastissima base clienti e di una proposta innovativa: agire da canale diretto di comunicazione tra di essi e il grande pubblico (con una piccola percentuale a suo favore). Il mercato del lusso e della moda era fino a ieri confinato nelle strade più esclusive delle metropoli del pianeta, circondato da un’aula magica di fascino, stile e discrezione, inarrivabile per i più, aspirazionale per molti altri.

Oggi il tentativo delle major del commercio elettronico è quello di attrarre il maggior numero dei “vendor” tra le proprie maglie, perché più efficienti e più diretti alle specifiche esigenze di ogni loro utente, del quale conoscono un gran numero di preferenze e caratteristiche. Ma c’è una differenza tra gli altri grandi operatori e Tencent: nessuno degli altri (come Alibaba, Zalando o Amazon) ospita sulla propria rete i discorsi privati del pubblico di potenziali acquirenti! Nessuno è sempre collegato con loro.

Inoltre fino a ieri ciascuna catena di shopping online si configurava come un potenziale acquirente dei prodotti del fashion e del lusso, non come un canale per dialogare direttamente con l’utente finale!
Alibaba ha fatto un passaggio importante nel cercare di integrare nella sua rete un sistema proprietario di pagamenti (Alipay), così come lo hanno fatto altri grandi operatori (esempio: Apple Pay), ma non ospita già sui suoi server le comunicazioni dei propri potenziali acquirenti.
Infatti la quota di mercato di Alipay in Cina è passata in un anno dall’80% al 54%, grazie alla “discesa in campo” di WeChat.

 

Potranno gli acquirenti più esigenti rinunciare all’emozione delle vetrine dell’ “high street”? Probabilmente si per gli articoli di minor valore.
Cederanno i giganti del lusso alle lusinghe della rete?  Accetteranno le maison del lusso di vedersi recapitare a casa dei loro clienti i lussuosi pacchetti che le contraddistinguono? Anche qui la risposta è probabile che sia positiva, per un motivo assai banale: già oggi buona parte degli sforzi di immagine e di pubblicità delle grandi case si rivolgono alla rete. E dalla presenza in rete alle vendite in rete il passo è breve.

 
Stefano di Tommaso