APPLE A UN PASSO DAL TRILIONE DI DOLLARI

In una strana e surreale atmosfera di Wall Street che rischia di tornare a celebrare i massimi di sempre pur con un indice SP500 che capitalizza adesso solo poco più di 16 volte gli utili attesi, con un’America che sta ancora facendo i conti per valutare tutte le ricadute positive degli incentivi che il Presidente Trump ha posto per chi produce utili e fa rientrare i capitali in patria, si stanno creando le condizioni necessarie affinché per la prima volta nella storia la capitalizzazione di un’impresa (il valore che la borsa le attribuisce) superi i 1000 miliardi di dollari. E se ciò succedesse ancora una volta la corona di investitore più intelligente andrebbe a Warren Buffett, che ha appena finito di scommettere pesantemente sulle potenzialità dell’azienda caratterizzata dalla mela morsa proprio mentre Apple lanciava un programma di riacquisto azioni proprie da 100 miliardi di Dollari.

 

Indubbiamente per quasi tutti i titoli dell’indice Standard&Poor 500 gli utili per azione sono cresciuti moltissimo (in media siamo a 155 dollari per azione cioè poco meno di un sedicesimo del valore medio) anche grazie alla riforma fiscale che ha contribuito a sgonfiare i timori che le valutazioni di Wall Street fossero troppo alte.

LE FAVOLOSE VALUTAZIONI DEI TITOLI TECNOLOGICI

Ma se si pensa che in America i tassi di interesse stanno già tornando a crescere, che il prezzo dell’energia corre e, con esso, anche i timori di fiammate inflazionistiche, se si tiene conto che i segnali di inversione del ciclo economico si moltiplicano e che Wall Street ha una forte componente di titoli cosiddetti “tecnologici” come le famose FANG (Facebook, Amazon, Netflix e Google), caratterizzate da favolosi moltiplicatori degli utili (in media ben oltre le cento volte con il record di Amazon che supera le 250 volte), la performance delle borse delle ultime settimane non era così scontata, anzi!

UN TITOLO “TECNOLOGICO” CON VALUTAZIONE DA AZIENDA INDUSTRIALE

Eppure esiste un altro titolo tecnologico, anzi il più importante di tutti -Apple- che invece capitalizza soltanto 16 volte gli utili attesi (cioè esattamente quanto la media dell’indice SP 500) ma che mostra ugualmente prospettive di crescita migliori di tanti altri titoli “tecnologici”. Con la solidità dei margini di cui parliamo più sotto c’è facilmente da attendersi una riduzione nel forte divario tra i moltiplicatori dei FANG e quello di Apple ! Per fare un esempio: il titolo Amazon si è rivalutato del 70% nell’ultimo anno, quello di Apple solo del 24%.

Anzi: nonostante le sue vendite siano ancora legate per una parte preponderante ai telefonini, è in forte crescita ed ha un‘altissima marginalità la parte di ricavi Apple riguardanti i”servizi” (che si prevede raggiungeranno da soli quest’anno i 10 miliardi di Dollari, il fatturato di una multinazionale quotata a Wall Street di media taglia, mentre la Ferrari fatturerà quest’anno “solo” 3,4 miliardi di dollari) oltre che la quota di fatturato afferente le vendite online di musica e software a oltre a quella più pregiata- delle vendite “ricorrenti”- come ad esempio l’abbonamento al “cloud” (l’archiviazione remota dei dati), o i servizi di pagamento tramite telefonino e orologio intelligenti.

LA “BRAND IDENTITY”

Ma la vera chiave per convincersi della fortissima identità di marca che Apple ha sviluppato, in buona misura derivante dal successo delle politiche di qualità di prodotto e di attenzione alle esigenze del consumatore che negli anni hanno creato un “ecosistema” di prodotti e servizi che si integrano tra loro e che creano una fortissima “fedeltà”, nell’ordine del 90% della clientela che deve effettuare acquisti di rinnovo, si rivela nella disposizione del cliente a pagare significativamente più cari degli altri i prodotti Apple (balzati nell’ultimo anno dal prezzo medio di 655 dollari a quello di 728).

Questo avviene sia perché l’utente medio riconosce loro una qualità superiore che perché egli considera sempre più irrinunciabili i benefici dell’ecosistema dei prodotti stessi, i quali custodiscono le informazioni personali, le abitudini dell’utente, le immagini e i video nonché, ultimamente, anche tutti i dati biometrici (dal riconoscimento facciale all‘ andamento delle informazioni sotto sforzo sulla circolazione sanguigna o sulle abitudini di fitness e persino del sonno).

I MARGINI SONO DIFENDIBILI

Apple dunque ha edificato negli anni una decisa barriera all’entrata di concorrenti nel suo portafoglio di clientela e si è assicurata la fedeltà di quest’ultima a livelli mai visti da nessuna altra marca, cosa che getta le basi per una sempre maggiore sostenibilità degli elevati margini di cui gode. Il numero 16 ricorre ancora altre volta parlando di Apple perché la quota di mercato delle sue vendite è in media a livello globale al 16% del totale, dunque ancora con decise possibilità di miglioramento negli anni dato tutto quanto esposto, nonostante il telefonino più economico della gamma costi non meno di 340 Dollari, mentre gli utili del primo trimestre 2018 sono saliti del 16% a 65 miliardi di Dollari (dunque $260 miliardi di utili su base annua).

BASSI MOLTIPLICATORI DEGLI UTILI E TANTA CASSA DISPONIBILE

Se a tutto ciò si aggiunge il fatto che la capitalizzazione di borsa è basata su un moltiplicatore degli utili decisamente “economico” per la natura online, tecnologica e innovativa dei prodotti e servizi offerti, ecco che non è impossibile pensare ad ulteriori forti incrementi di valore delle sue azioni quotate, forte anche della grandissima liquidità accumulata sino ad oggi con la quale Apple può permettersi di pianificare politiche di riacquisto di azioni proprie per molti anni a venire.


Da quando ha iniziato a comprare proprie azioni (2012) fino ad oggi Apple ha già speso 275 miliardi di dollari e, con la quantità di denaro liquido (quasi 270 miliardi di Dollari a fine Aprile) e la generazione di cassa (circa $60 miliardi/anno) che si ritrova, ha già pianificato ufficialmente di spendere almeno altri $100 miliardi senza intaccare minimamente la solidità del titolo o la sua capacità di scommettere su nuove nicchie di mercato (vedi ad esempio l’ingresso nel settore auto con veicoli elettrici e a guida autonoma).

FORTI ATTESE

A una quotazione del titolo di 185 Dollari, corrispondente ad una capitalizzazione di borsa di oltre 930 miliardi di dollari, sono molti gli analisti che prevedono un rapido avanzamento del titolo oltre la soglia dei 200 Dollari per azione e di conseguenza ben oltre i 1000 miliardi di capitalizzazione di borsa dell’azienda di Cupertino in California. Tra questi il più ricco e famoso investitore di tutti i tempi: Warren Buffett che ha staccato di recente in totale assegni per quasi 50 miliardi di Dollari per diventarne socio.

Stefano di Tommaso




L’ORACOLO DI OMAHA

Sono 53 anni che, una volta l’anno di questi tempi, uno degli uomini più riservati (e potenti) del pianeta prende carta e penna e racconta ai suoi azionisti com’è andato l’anno per la sua società di investimento e cosa pensa delle borse e della finanza. Non ci sarebbe niente di strano e non è certo l’unico grande investitore a farlo, se non fosse che sono appunto 53 anni che lui porta ottimi risultati e che in questi egli si è dimostrato il più grande di tutti i tempi: il guadagno che ha procurato a chi ha investito con lui rasenta infatti il 20% composto annuo (senza mai fare un buy-back delle azioni) e le sue partecipazioni spaziano dalle banche alle assicurazioni, passando per l’informatica, l’edilizia, l’elettronica e l’assistenza sanitaria.


UNA LETTERA ATTESA DA TUTTO IL MONDO

I brillanti risultati della sua società holding di investimento, la Berkshire Hathaway, sono soltanto una delle ragioni per le quali oramai a leggere la lettera annuale di questo arzillo 87enne non sono solo i suoi azionisti ma è il mondo intero, per cercare consigli, ispirazione e saggezza.

Le altre ragioni della sua fama stanno nella particolarità del soggetto: oltre che schivo e riservato egli è famoso per la prudenza dei suoi giudizi e la conservativitá dei suoi orientamenti (pur essendo un democratico) oltre che per talune singolari prese di posizione, sulle quali difficilmente sino ad oggi si può affermare che abbia avuto torto. Vediamo perciò insieme quali messaggi Warren Buffett ci lancia questa volta.

IL REGALO DI TRUMP

La lettera esordisce con un esplicito (e ironico) ringraziamento al governo nuovo Presidente americano: dei 65 miliardi di dollari guadagnati nel corso del 2017 Buffett afferma di averne meritati con il suo lavoro soltanto 36. Gli altri 29 miliardi di maggior valore sono dovuti alla riduzione della tassazione sui profitti aziendali, manovra che egli scrive di non condividere, dei quali può tuttavia soltanto ringraziare Donald Trump.

Bisogna per tutta onestà far notare che Buffett è forse ancora più nazionalista di Trump, dal momento che oltre il 90% dei suoi investimenti è effettuato in America.

L’ENORME LIQUIDITÀ ACCUMULATA

Proseguendo nella narrativa, il miliardario segnala chiaramente la questione più macroscopica che riguarda il bilancio della sua holding, che è ovviamente quella dell’enorme liquidità accumulata a fine 2017 sui propri conti bancari: 116 miliardi di dollari (in crescita del 35% sull’anno precedente) che, rapportata ai 490 miliardi di dollari della propria capitalizzazione di mercato, fa il 24% del totale e, soprattutto, è un’enormità se viene rapportata al valore di mercato al 31.12.2017 del totale dei suoi investimenti in azioni (191 miliardi: il 61% di questi ultimi) e al totale di quelli in azioni di aziende quotate in borsa (170 miliardi: il 68%). Un forte segnale di prudenza rivolto al mercato, o un‘ attesa di grandi turbolenze o infine la possibilità che egli stia preparando una grandissima acquisizione.

LE (POCHE) AZIENDE SELEZIONATE

Un’altra chiave di lettura relativa al perché di tutta quella liquidità in cassa risiede infatti nell’accenno che egli fa alla sua preferenza per acquisizioni di società se possibile molto grandi, temperata tuttavia dal fatto che agli attuali prezzi di mercato nel corso dell’anno appena concluso non ne ha ritenuta soddisfacente alcuna. Una costante delle sue (rare) uscite è infatti ripresa anche stavolta nel cenno che riguarda la condanna dell’iperattivismo e i vantaggi del fare poche intelligenti mosse negli investimenti azionari. “Non c’è bisogno di grandi lauree o del linguaggio forbito degli analisti finanziari per selezionare i migliori investimenti, quanto piuttosto di mantenere la calma e la lucidità nel misurare pochi, semplici valori fondamentali nel tempo delle aziende da scegliere” sentenzia l’Oracolo. Molto spesso altrove egli ha precisato che -non importa quanto sforzo venga impiegato- per fare buoni investimenti ci vuole tempo, così come per fare un figlio ci vogliono comunque nove mesi e non si riesce a farlo in un mese mettendo incinte nove mamme!

QUALCHE “COLPO GROSSO” O ECCESSO DI PRUDENZA?

Così vedremo se sta preparando un “colpo grosso” oppure sta solo posizionandosi in una logica di maggior prudenza. Tra le aziende preferite da Buffett quest’anno si è decisamente imposta la Apple, di cui oramai detiene il 3,3% e dove ha investito quasi 21 miliardi di dollari che a fine 2017 ne valevano già più di 28, il più elevato investimento azionario dopo la banca Wells Fargo, di cui detiene quasi il 10% per un controvalore a fine anno di oltre 29 miliardi. Certo le sue scelte hanno quasi sempre fatto centro, facendo della Berkshire una delle poche società che ha battuto la crescita dell’indice di borsa e con una più limitata volatilità (vedi il grafico).

ANCHE I TITOLI A REDDITO FISSO SONO RISCHIOSI

Uno dei principi più celebri e graffianti che l’Oracolo di Omaha ha stavolta voluto riaffermare è relativo al concetto di prudenza (che per lui riveste un aspetto fondamentale nel lavoro che svolge): spesso gli investitori istituzionali usano il rapporto tra reddito fisso e azioni per misurare la rischiosità del loro portafoglio ma non potrebbero commettere un errore peggiore: anche i titoli obbligazionari hanno il rischio delle oscillazioni di prezzo e per di più potrebbero essere non rimborsati. Concetto tanto più vero quanto più è probabile un rialzo dei tassi.

GLI AFORISMI, LE IRONIE E LE IDIOSINCRASIE (PER L’M&A)

Buffett è infine famoso per le sue brevi e graffianti sentenze, che usa intelligentemente per avere facile accesso alla comprensione di chi lo ascolta e riuscire a semplificare i concetti più difficili.

Anche stavolta ne dispensa di copiose, come : “Non è necessario fare cose straordinarie per avere risultati straordinari”, oppure : “devi fare solo poche cose buone nella vita e per tanto tempo, così non ne farai troppe sbagliate”.

Quest’anno la sua idiosincrasia si è concentrata sull’eccesso di fusioni e acquisizioni che spesso vengono sollecitate dagli stessi azionisti al management delle imprese: “è come chiedere a un adolescente immaturo di avere una vita sessuale normale” dice Buffett, “un istante dopo che il management sarà stato incitato a fare acquisizioni troverà sempre buone giustificazioni per farne una”. E non ha esitato a definire “un verme solitario affamato” per l’economia americana il crescente costo delle cure sanitarie (che in effetti negli U.S.A. è salito molto più dell’inflazione: vedi grafico qui sotto).

ALCUNE DELLE SUE FAMOSE MASSIME:
•Quello che abbiamo imparato dalla storia è che le persone non imparano nulla dalla storia

•Le catene delle abitudini sono troppo leggere per essere avvertite finché non diventano troppo pesanti per essere spezzate

•Niente distrugge la capacità di ragionare come grandi dosi di denaro ottenute senza sforzi

•Nel breve periodo il mercato azionario è una macchina elettorale, nel lungo periodo è una bilancia che pesa il valore reale dell’azienda

•La qualità più importante di un investitore è il temperamento, non l’intelletto. Hai bisogno di temperamento per non provare grande piacere né nel seguire la folla, né nell’andare controcorrente

•Non amo saltare un ostacolo di tre metri. Preferisco guardarmi intorno e cercare un ostacolo di un metro che posso scavalcare

•Nel breve periodo il mercato azionario è una macchina elettorale, nel lungo periodo è una bilancia che pesa il valore reale dell’azienda».

•Le opportunità arrivano raramente. Quando piove oro, metti fuori un secchio, non una ciotolina

•Se non vuoi essere proprietario di un’azione per dieci anni, non pensare nemmeno di impossessartene per cinque minuti. Metti nel tuo portafoglio titoli di aziende i cui guadagni complessivi sono destinati a incrementare negli anni. Così anche il valore di mercato del tuo portafoglio aumenterà

•La chiave per investire non è valutare quanto un’industria può cambiare la società, o quanto è destinata a crescere. Ma è determinare il vantaggio competitivo di ogni azienda e, soprattutto, la durata di quel vantaggio

•È decisamente meglio comprare una società meravigliosa a un prezzo discreto che una società discreta a un prezzo meraviglioso

•Come diventare ricco: sii timoroso quando gli altri sono avidi e avido quando gli altri sono timorosi

•Agli studenti dei licei dico : quando avrete la mia età avrete avuto successo se le persone che speravate vi amassero vi amano

•La differenza tra persone di successo e quelle di grande successo è che le seconde dicono no quasi a tutto

•Ho visto tante persone fallire per problemi di alcool e per i prestiti. Non hai bisogno di chiedere un prestito in questo mondo. Se sei intelligente, riuscirai a fare soldi anche senza.

QUANDO INVESTO È FISSA NELLA MIA MENTE L’IMMAGINE DEL PICCOLO AZIONISTA CHE RIPONE NEI TITOLI DELLA MIA SOCIETÀ UNA PORZIONE CONSISTENTE DEI SUOI RISPARMI. NON POSSO TRADIRLO!

“Ed è proprio su quest’ultimo punto (i rischi e la leva finanziaria che egli conclude la sua lettera on un ennesimo richiamo alla prudenza: non c’è niente di più importante per me che il piccolo azionista che ha fiducia in noi e ripone in titoli della società che io gestisco una quota consistente dei suoi risparmi: ogni giorno quando devo prendere delle decisioni ho fissa nella mia mente l’immagine di quell’azionista”. Signori, il capitalismo popolare americano ha ancora una volta il suo paladino ! (nell’immagine: il congresso dei suoi azionisti dello scorso anno).

Stefano di Tommaso




IL DECLINO A WALL STREET DELLE GRANDI CASE FARMACEUTICHE DIPENDE DALLE NUOVE SOLUZIONI WEB PER LA SALUTE DELLA GENTE

La digitalizzazione sta facendo -per adesso solo in America- forse la più illustre vittima della sua (breve) storia. La sentenza del mercato dei capitali americano parla chiarissimo al riguardo: con l’esplosione degli acquisti online, dei sistemi online di ricerca dei farmaci alternativi e generici, ma soprattutto con le prospettive dell’arrivo di nuove aziende di servizi che non si limiteranno a rendere più efficienti e più mirati gli acquisti di farmaci (bensì arriveranno ad occuparsi in via preventiva della salute dei lavoratori) gli analisti prevedono un futuro alquanto grigio per le grandi case farmaceutiche: ricavi con bassa crescita dei ricavi e addirittura profitti in declino!

 

Quel che preoccupa di più non è la prospettiva di una riduzione/razionalizzazione della spesa per farmaci (che pure si consolida come tendenza di fondo che coinvolgerà tanto i privati quanto le assicurazioni come pure le pubbliche amministrazioni) bensì la (ridotta) capacità dei maggiori operatori del settore di continuare anche in futuro a godere degli ampi margini sui costi che hanno fino a ieri caratterizzato una delle più “ricche” industrie della storia.

Come si può facile immaginare non è soltanto la pressione politica dell’amministrazione presidenziale di Donald Trump che spinge verso una razionalizzazione della spesa per la sanità e -a partire dall’America- sta dunque lavorando per una riduzione dei margini delle case farmaceutiche, ma anche una tendenza di fondo del mercato di sbocco delle principali aziende del settore che parte da molto lontano.

Di seguito alcuni fattori che stanno scatenando il panico a Wall Street circa i titoli quotati delle aziende farmaceutiche:

•Molti dei principali brevetti che riguardano i prodotti farmaceutici sono scaduti o stanno per scadere, lasciando spazio a farmaci generici che utilizzano il medesimo principio attivo senza dover ammortizzare i costi per la ricerca,

•La possibilità di servirsi online (invece che in farmacia e dietro ricetta medica) apre una pericolosa quanto inevitabile strada al consumatore verso il “fai da te” e verso ulteriori pressioni sul prezzo di tutti quei farmaci che sono distribuibili su canali alternativi,

•L’insorgere di società cosiddette “Pharmacy Benefit Manager” (che si occupano di ottimizzare per conto dei privati, delle assicurazioni e delle pubbliche amministrazioni la spesa farmaceutica) come Express Scripts (100 miliardi di dollari di fatturato),

•La promessa -ancora più dirompente- di tre grandi imprenditori come Jeff Bezos (Amazon), Warren Buffett (Berkshire Hathaway) e Jamie Dimon (CEO JP Morgan) di costituire una nuova realtà che invece di limitarsi a ottimizzare la spesa farmaceutica arriverà addirittura a occuparsi in forma proattiva, preventiva e onnicomprensiva, della salute dei lavoratori.

Tutti fattori che giocano verso una riduzione della spesa per i soli farmaci, e dunque che congiurano per una riduzione dei profitti attesi per il comparto.

Le uniche linee di prodotto farmaceutico che stanno ancora aumentando i prezzi sono quelle degli antitumorali, mentre già per tutte le altre linee (a partire da quelle dove la ricerca è più attiva, come le medicine per la

Sclerosi Multipla, per il Diabete e per la Colesterolemia) si registrano già decise tendenze al ribasso dei prezzi.

 

Quanto questa tendenza al ribasso sui titoli delle aziende farmaceutiche si consoliderà nel tempo è oggi difficile dirlo. Lo stesso presidente americano che ha voluto la revisione dell’ObamaCare e ha avviato indirettamente il citato processo di erosione ha anche lanciato loro un’importante ciambella di salvezza:

il governo avvierà nuovi incentivi per la ricerca farmaceutica allo scopo di evitare che sia quest’ultima la vittima finale del processo di razionalizzazione del settore, dimostrando la serietà del suo intento di portare efficienza nella spesa pubblica e privata senza necessariamente colpire qualche vittima designata.

Ovviamente subito dopo l’annuncio di Trump i titoli in questione hanno goduto di un rassicurante rimbalzo. Resta da vedere tuttavia quale si rivelerà per essi la tendenza di fondo…

 

Stefano di Tommaso

 




DIAVOLO DI UN CONSULENTE!

La crescita smisurata dell’industria dei servizi di consulenza manageriale non deve impedire lo sviluppo organizzativo e gestionale.

 

Lo spunto narrativo me lo ha fornito Warren Buffet: il solito, pedante, tradizionalista saggio capitalista che spesso e volentieri ci ricorda i buoni vecchi consigli della nonna, sempre validi appunto, come dimostra la strabiliante fortuna che egli ci ha costruito sopra nell’applicarli alla vita quotidiana.

LA MALEDIZIONE DI WARREN BUFFETT

Warren Buffett nell’ultima convention dei suoi azionisti (un vero e proprio festival, come riportato nel mio articolo: http://giornaledellafinanza.it/2017/05/07/la-woodstock-del-capitalismo/) se l’è presa con i consulenti e con le aziende che li reclutano, consapevoli entrambi di essere utili a individuare i veri argomenti-chiave che le imprese tecnologiche, manifatturiere e commerciali devono affrontare, ma colpevoli i primi di sfruttarli ai propri fini e per i propri profitti e i managers delle seconde di scansare le loro responsabilità utilizzando una forza-lavoro esterna, flessibile e capace di guardare alle dimensioni strategiche ma al tempo stesso mercenaria e teorica, impossibilitato anche ad agire come potrebbero invece fare dei funzionari interni all’azienda.

Difficile dargli torto: la pastetta del consulente e di chi lo ingaggia perché si dica che: “lo ha affermato tal de tali” e vecchia di generazioni ma sempre valida. I professori universitari ci hanno sempre ricavato lauti guadagni e i managers con la sedia che traballa ne hanno guadagnato ottimi parafulmini a futura memoria. Buffet fa notare che adesso ai consulenti sono affidate mansioni che in passato erano i dirigenti delle aziende stesse a svolgere.

L’INDUSTRIA DELLA REVISIONE HA INVASO QUELLA DELLA CONSULENZA

Come scrive John Gapper sul Financial Times: “la maledizione della consulenza si espande… quella che fino a qualche anno fa era una nicchia di mercato dominata da pochi grandi intellettuali partner di McKinsey, Boston Consulting e simili, oggi si è trasformata in un’industria che è sempre più collegata alla revisione contabile e che dunque allarga la sua base di clientela anche alle piccole e medie imprese…Il 44% delle entrate di Ernst&Young dell’anno scorso è arrivato dal lavoro di consulenza… Secondo Source Global Research, le entrate globali delle società di consulenza l’anno scorso sono cresciute del 7%, raggiungendo $133 miliardi… City UK afferma che, dei 2,2 milioni di persone che nel Regno Unito lavorano nel settore finanziario e in servizi professionali collegati, 477mila sono consulenti e 421mila banchieri”.

Ma se il business della consulenza si è “volgarizzato” perché macina ottimi risultati?

Innanzitutto perché la domanda di servizi di consulenza cresce insieme alla complessità stessa del sistema capitalistico-industriale: oggi per esempio quasi tutte le imprese hanno bisogno di far revisionare i bilanci per accedere al credito e ai capitali di rischio, capiscono di dover rivedere i propri sistemi informatici ma soprattutto si rendono finalmente conto di dover formulare una propria strategia di mercato che permetta loro di confrontarsi con la globalizzazione che avanza e che dunque le competenze interne non bastano più.

Ma cresce anche l’offerta di consulenza (e si struttura nella maggior parte dei casi in vere e proprie catene di montaggio), spesso complementare ai servizi di revisione contabile e di corretta applicazione e personalizzazione dei software utilizzati per tenere sotto controllo produzione, mercato e margini economici.
È un fiume in piena che assorbe ricchezza spesso più di quanta ne possa creare, investendo molte funzioni gestionali e tracimando talvolta anche in ogni possibile rivolo accessorio. Il problema è se ciò accade senza riuscire davvero a migliorare il management aziendale e a far mettere a punto un piano industriale vera degno di quell’appellativo, capace di verificare e indirizzare la creazione di valore per gli azionisti.

LA CONSULENZA NON PUÒ SOPPIANTARE IL MANAGEMENT

Per migliorare il management aziendale ci vogliono invece veri (e qualificati) managers, cioè decisori e persone di riferimento interne con un elevato grado di delega, un pregresso di successo e competenze acquisite in anni di studio post-universitario. Ma soprattutto ci vuole un vero “board of directors”, cioè un Consiglio di Amministrazione (CDA) che controlli spesso il management e lo indirizzi, alimentato da competenze diversificate e animato da personaggi che prescindano almeno in parte dalla famiglia del fondatore che troppe volte rimane unica azionista e che, per questo motivo, rischia di esprimere indirizzi “autoreferenziali”.

Un Piano Industriale, un Management terzo, la Revisione Contabile esterna e la presenza di un vero CDA risultano peraltro elementi essenziali se ci si vuole rivolgere al mercato dei capitali anche solo per ottenere Minibond e Finanza Strutturata, per non parlare della parte al capitale di Fondi e Investitori di Borsa.

Solo con queste premesse (a prescindere dunque dalle dimensioni aziendali) l’impresa può pianificare seriamente il proprio futuro. La consulenza andrebbe utilizzata dopo aver strutturato i suddetti organi aziendali, altrimenti è come comperare un Ferrari per scendere sotto casa a prendere il caffè. La Ferrari può essere strepitosa ma più lo è e più il suo utilizzo necessita di competenze “interne” !

UNA SOLUZIONE “PROFESSIONALE”

E per i suddetti motivi che alcune banche d’affari (come la mia) hanno deciso di proporsi sempre più spesso alle imprese per operazioni di aumento di capitale insieme a managers specializzati di settore (magari con un illustre passato in organizzazioni più importanti), per entrare in tal modo anche negli organi decisionali e assicurarsi che la crescita organizzativa dell’impresa vada di pari passo con l’incremento delle risorse disponibili e permetta di impiegarle nel migliore dei modi. Altrimenti c’è il rischio serio che le stesse mansioni gestionali vengano affidate alla consulenza, magari standardizzata.

In questo modo invece la consulenza può essere utilizzata ma con giudizio: affiancando la crescita organizzativa senza contrapposizione con lo sviluppo di competenze interne e senza impedirle. Bensì per fare solo quello che non è possibile fare altrettanto bene al proprio interno: l’analisi del contesto competitivo e strategico, lo sviluppo di nuove metodologie, l’adozione di prassi operative che si sono dimostrate vincenti altrove nel mondo.

 

Stefano di Tommaso