QUANTO VALE IL BRAND VERSACE?

Il gruppo Michael Kors si aggiudica l’asta indetta da Goldmann Sachs per la cessione della Versace superando al fotofinish un nutrito gruppo di pretendenti -sono girate indiscrezioni su Tiffany, Kering (Gucci etc) Carlyle, Coach Tapestry e altri- e subito il suo titolo in borsa è scivolato di circa il 9% (dopo essersi apprezzato però di oltre il 40% nell’ultimo anno). Eppure gli analisti che coprono la Michael Kors continuano a vedere un target price (la stima di valore che le sue azioni possono raggiungere) più alto del 15-20% (a circa 78 dollari, dagli attuali 67) e soprattutto un’ottima capacità di digerire bocconi grossi e ambitissimi come la Jimmy Choo, acquisita un anno fa per un miliardo e duecento milioni di dollari.

 

CENTO VOLTE GLI UTILI

Il gruppo guidato da Donatella Versace sembra aver chiuso il 2017 con un fatturato superiore agli 800 milioni di dollari, in crescita del 18% sull’anno precedente e per circa la metà realizzati in Asia, con e un utile di meno di 20 milioni di dollari, poco più del 2% del fatturato. Valutarla oltre 100 volte gli utili (2,1 miliardi di dollari al lordo della posizione finanziaria netta) significa ovviamente attribuire buona parte del prezzo agli asset che essa contiene -principalmente il marchio della Medusa- visto che la redditività della maison fondata da Gianni Versace è stata buona ma limitata.

I MULTIPLI DEL BRAND

Ma quanto vale il marchio Versace? Un criterio universalmente riconosciuto posiziona a circa 2,5 volte il valore del marchio rispetto al fatturato dei più grandi brand del lusso ed evidentemente tale valore medio “fitta” perfettamente con quanto è successo anche stavolta. Ma ovviamente si tratta di più del doppio delle “normali” valutazioni relative ai brand vincenti del largo consumo, quindi bisogna che il mercato riconosca una indubbia capacità di giustificare nel tempo il forte plusvalore pagato.

La Michael Kors (che con l’occasione ha annunciato di aver cambiato nome in Capri Group) porta a casa un gruppo che fattura 800 milioni con 200 negozi monomarca nel mondo e dichiara di voler innalzarne il numero a 300 portando il fatturato a più che raddoppiare: 2 miliardi. Ci riuscirà?

I NUMERI DELL’ACQUIRENTE

Con un fatturato atteso per l’anno in corso di oltre 5 miliardi di dollari e una generazione di cassa di quasi un miliardo (prima dell’acquisizione di Versace, il cui giro d’affari quest’anno potrebbe da solo aggiungere al gruppo quasi un altro miliardo di dollari) il suo presidente Johnny Idol potrebbe anche farcela, grazie agli investimenti previsti e alle sinergie negli accessori, nella distribuzione e nella comunicazione.

Al momento il gruppo Capri capitalizza in borsa circa 10 miliardi di dollari, cioè due volte circa il fatturato consolidato e fa utili per circa 600 milioni di dollari, dunque vale circa 17 volte gli utili, esattamente in linea con la capitalizzazione media delle società quotate a Wall Street. Ma soprattutto è atteso generare cassa per circa un miliardo di dollari e dunque non ha paura di investire ancora pesantemente nel proprio sviluppo, soprattutto con un altro importante marchio per le mani, icona del lusso e dello stile italiano nel mondo. (Qui sotto: l’andamento del titolo Michael Kors negli ultimi 24 mesi)

QUALCHE PARAGONE ILLUSTRE…

Per fare un paragone illustre: il gruppo Armani, che fattura circa 3 miliardi di dollari, fa utili netti per oltre 320 milioni (circa il doppio in percentuale rispetto a Capri Group). Certo il suo marchio non vale meno di 5 miliardi ma se volessimo applicare gli stessi multipli di Versace arriverebbe a 7,5 miliardi di dollari e a quella cifra sarebbe ancora sottovalutato rispetto agli utili.

Tra i precedenti italiani nel mondo del fashion c’è stato quello di Loro Piana, il cui marchio fu valutato addirittura quasi quattro volte il fatturato al momento della cessione, nel 2013 (3,2 miliardi di dollari) con un fatturato appena superiore a quello odierno di Versace, sebbene la maison di tessuti e abbigliamento avesse una redditività completamente diversa (20% delle vendite) e dunque la società venne valutata soprattutto sulla base degli utili (19 volte).

Se perciò da un lato l’acquisizione di una società che fa meno utili di quanto ne vengano generati dall’acquirente è stata giustamente considerata “dilutiva” dagli analisti di borsa (e perciò “punita” al suo annuncio), dall’altra parte bisogna ammettere che la valutazione del marchio dalla medusa dorata applicata dall’acquirente non è stata poi così folle, se consideriamo che i numeri appena citati si riferiscono all’anno passato e che le prospettive di raddoppio del fatturato a marchio Versace non sono così peregrine se correttamente accostata alle sinergie apportate dal nuovo proprietario.

CHI HA RAGIONE?

Dunque hanno altrettanta ragione gli analisti di borsa (che guardano al breve termine) quanto gli strateghi del fashion (che puntano al medio-lungo termine). La grande “presa” del marchio Versace in Asia poi è ulteriore fattore di interesse per chi guarda alla crescita globale del proprio business, dal momento che in questo momento demografia e consumi si stanno sviluppando soprattutto a Oriente.

Stefano di Tommaso




IL DESTINO DI FCA

Non c’è dubbio che le sorti di Fiat Chrysler Automobiles sian0 state inscindibilmente legate per 14 intensi anni a Sergio Marchionne (oggi sostituito per motivi di salute), il manager che prima ha fatto riacquistare la Fiat agli attuali azionisti di controllo (Exor) da General Motors cui essi l’avevano praticamente venduta a rate, poi l’ha salvata e infine l’ha rilanciata, anche attraverso l’acquisizione della Chrysler e lo scorporo di alcune controllate, tra le quali la Ferrari e la Case New Holland.

 

Dal 2004 infatti i ricavi del gruppo (ivi considerando anche Ferrari e CNH, tecnicamente fuori dal perimetro ma controllate dagli stessi azionisti di riferimento e di cui Marchionne era divenuto capo supremo) sono passati da 47 a 141 miliardi di euro del 2017, con un risultato netto passato da -1,4 a +4,4 miliardi di euro e una capitalizzazione ascesa da 5,5 a più di 60 miliardi di euro mentre il debito netto si è ridotto di oltre 10 miliardi di euro arrivando a zero.

Nonostante però Marchionne avesse già attentamente pianificato la sua successione, è chiaro che nel percorso che lo ha portato a tali successi egli ha mostrato doti eccezionali e tutti oggi si chiedono se chi prenderà il suo posto riuscirà a mostrare altrettanta capacità, anche perché il valore espresso dal gruppo nel suo complesso in Borsa teneva conto di un ambiziosissimo piano di crescita pubblicato lo scorso primo giugno, dove Marchionne scommetteva sul decollo della redditività del gruppo.

IL PIANO DI MARCHIONNE RIUSCIRÀ A MANLEY?

Sulla scia del piano pubblicato da Marchionne la Morgan Stanley si era spinta a individuare “sette passi che potevano potenzialmente raddoppiare il valore del titolo“:

  • Lo spin-off o vendita di Magneti Marelli: più 1 euro per azione FCA,
  • Lo spin-off di Maserati e Alfa Romeo: più 3 euro per azione FCA,
  • Il raggiungimento del rating investment grade (tripla B o piu): più 1 euro per azione FCA,
  • L’ottimizzazione del ramo finanziario: più 2 euro per azione FCA,
  • L’uscita dal business a marchio Fiat in Europa e America Latina: più 3 euro per azione FCA,
  • La nuova struttura di reporting su Jeep e Ram : più 4-6 euro per azione FCA,
  • La plusvalenza sulla partecipazione Waymo con cui FCA collabora per la tecnologia della guida autonoma dei veicoli: più 2 euro per azione FCA.

Il totale del potenziale di creazione del valore su quel piano ammontava dunque a un range tra 16 e 18 euro in più, con una valutazione che all’epoca era arrivata a 20 euro per azione e oggi è scesa a poco più di 16 euro (poco più di 6 volte gli utili) senza contare le possibili ulteriori plusvalenze in Ferrari e CNH. Addirittura gli utili della FCA sarebbero cresciuti più che corrispondentemente, da 6,6 miliardi di euro previsti per quest’anno (2018) ai 16 del 2022 (dal 6% all’11% dei ricavi), lasciando ampio spazio a ulteriori potenziali rialzi anche perché erano stati annunciati 9 miliardi di investimenti nel settore delle auto elettriche che si stima rappresenteranno per il medesimo 2022 oltre il 60% del mercato.

LA VALUTAZIONE DEL GRUPPO

Se si guarda perciò all’utile previsto per l’anno prossimo infatti il valore di capitalizzazione espresso come moltiplicatore degli utili netti scende a 4,4 volte, per non parlare del rapporto tra il medesimo valore di capitalizzazione e il fatturato: meno di 1/4 di quest’ultimo! FCA era inoltre di recente stata oggetto di “attenzioni” da parte della sue-coreana Hyundai, che aveva dichiarato a tutti, in occasione della pubblicazione del piano industriale, di attendere un momento più favorevole per lanciare un’Offerta di Pubblico Acquisto. Ma tale momento potrebbe essere arrivato, visto che il titolo ha perso in modo decisamente sospetto il 20% del suo valore (da 20 a 16 euro) dallo scorso primo Giugno ad oggi e che lunedì, alla riapertura dei mercati, potrebbe esserci un’ondata di ulteriori vendite “cautelative”.

E’ infine altrettanto vero che tutto quel potenziale di rivalutazione non era espresso solo da un uomo, anzi il suo successore sarà proprio il maggior presunto contributore ai risultati prospettati: quel Manley che guida la divisione che cresce di più: quella dei SUV e delle Jeep e che in caso di OPA (che adesso potrebbe arrivare tempestivamente) il prezzo subirebbe un indubbio salto in avanti.

Dunque non ci sono poi così tante ragioni per vendere il titolo sulla scia di un ricambio manageriale inatteso, se non quella -incontrovertibile-dell’incertezza.

Stefano di Tommaso




IN BORSA PER $100 MILIARDI XIAOMI, L’APPLE CINESE

Esiste una “nuova Cina” dove la realtà può ampiamente superare l’immaginazione, al limitare della rivoluzione maoista con le più ardite fantasie del capitalismo più sfrenato, il cui paradigma socio-economico è forse ancora più difficile da assimilare per noi occidentali del Vecchio Continente di quanto possa esserlo la California della Silicon Valley.

 

La prova del fatto che esiste questa iper-Cina è la fantasmagorica quotazione in borsa della cosiddetta “nuova Apple”, Xiaomi: la start-up tecnologica più celebre dell’ex-Celeste Impero. Partita nel 2010 e già da tempo divenuta “Unicorno” (come si dice nel gergo dei capitalisti di ventura quando una nuova società supera il valore di un miliardo di dollari), gli esperti che ne hanno curato lo sbarco sul listino della borsa dì Hong Kong ne hanno decretato il successo attribuendole una capitalizzazione della bellezza di 100 miliardi di dollari (si, avete letto bene) dopo che le aspettative per il bilancio di quest’anno la rivelano in perdita per oltre un miliardo di dollari, sebbene sia giunta in soli 7 anni a un fatturato di 18 miliardi.

FIGLIA DELLA NUOVA CINA : CAPITALISTA E SUPER-TECNOLOGICA

Dalle nostre parti sarebbe forse bastato che arrivasse a perdere soltanto un milione perché le bande gialle di precipitassero a sirene spiegate ai suoi cancelli ad arrestarne il titolare con l’accusa di bancarotta, magari nelle more di riscuotere qualche credito verso lo Stato e di esserne scagionato! Ma nella Cina sud-orientale dalle grandi metropoli del futuro, la cui società civile esprime questo nuovo paradigma iper-pluto-digitale no, non è bastato che Xiaomi arrivasse a perdere un miliardo per impedirne la quotazione in borsa delle sue azioni, facendone ricchi i soci della prima ora, e permettendole di raccogliere sul mercato oltre una decina di miliardi di dollari di nuove risorse, che saranno tutti reinvestiti per crescere e (forse un giorno) prosperare.

Super tecnologica, avanzatissima non soltanto per le monorotaie che sfrecciano alla velocità del suono sopra le sue nuove città, futuristica persino nei sistemi di pagamento con i telefoni cellulari e strapiena di quei dollari che i fondi di investimento di “venture capital” della Silicon Valley d’oltre-oceano le hanno messo in tasca per sviluppare nuove tecnologie e nuove imprese, in quella Cina del futuro divenuto realtà può oggi esistere ed esprimere forte valore la più estrema di tutte le aziende che hanno scelto di provare a percorrere nuove strade, persino quando esse incrociano quelle di colossi globali come Apple o Samsung con prodotti più competitivi.

Agli investitori che si chiedono se Xiaomi valga davvero 100 miliardi di dollari, il mercato finanziario sembra aver risposto subito: al momento dell’annuncio le azioni delle più dirette concorrenti di Xiaomi come ZTE e Lenovo sono crollate! Ad accompagnarla sul mercato finanziario come sponsors si annoverano peraltro i più grandi nomi della finanza mondiale come Goldman Sachs, Morgan Stanley, Credit Suisse, Deutsche Bank, JP Morgan Chase e altre 6 banche cinesi.

ALL’INSEGNA DELLA FANTASIA E DELL’UMILTA’

Nota anche con il marchio MI che contraddistingue i suoi prodotti di ottima qualità, venduti in tutto il mondo a prezzi stracciati, Xiaomi è un’espressione cinese che sta a indicare l’umiltà del miglio (il cibo dei poveri di una volta) e che, nelle intenzioni di Lei Jun, il visionario fondatore che ha tratto la sua ispirazione imprenditoriale leggendo una biografia di Steve Jobs (il più noto tra i fondatori di Apple) avrebbe dovuto indicare lo spirito con il quale le nuove generazioni asiatiche avrebbero potuto inseguire il loro riscatto industriale. Quel che è successo poi è stato l’esatto opposto!

In Occidente fino ad oggi per le start-up di successo è prevalso un “modello di business” completamente diverso da quello di Xiaomi: estremamente focalizzate su una particolare tecnologia, con una proprietà molto diffusa e con un percorso evolutivo facilmente prevedibile e rassicurante.

Mentre la campionessa cinese di creazione di valore dopo Alibaba (che però si è quotata nel 2014, in un contesto di mercato molto più favorevole) sembra essere proprio tutto il contrario: controllata da un gruppo ristretto di azionisti, dalle iniziative deliberatamente imprevedibili e tentacolare nei suoi numerosissimi e diversissimi prodotti che uniscono design, tecnologia e fantasia, Xiaomi è riuscita a definire un nuovo modello di business che (al momento) non ha avuto bisogno di mostrare profitti e focalizzazione per risultare vincente.

Certo, in Occidente la mano pubblica eroga ben pochi sussidi alle nuove imprese che vogliono inseguire le loro fantasie, mentre nella Cina statalista di qualche anno fa, che doveva a tutti costi esprimere investimenti e piena occupazione per inseguire il primato della crescita economica e del progresso digitale, trovare le risorse iniziali per provarci è stato forse più facile.

E così quando si è trattato di incrementare le dimensioni aziendali Lei Jun ha preferito crearsi una rete di fornitori strategici terziarizzati, piuttosto che provare a investire direttamente nelle strutture, affinché anch’essi potessero godere del medesimo supporto statale e risparmiarsi i mal di testa della crescita interna.

DAI PRODOTTI AI SERVIZI ALL’ECOSISTEMA “MIUI”

Xiaomi oltre che aver prodotto negli ultimi sette anni oltre 190 milioni di telefoni cellulari, si è messa a fare proprio di tutto: dai computer portatili alle biciclette, agli aspirapolveri-robot che puliscono la casa, alle vaporiere per il riso, alle lampade intelligenti, ai giocattoli, fino ad erogare servizi finanziari. E il prossimo passo consiste nel fornire a tutti questi strumenti un‘interconnessione intelligente per tenerli sotto controllo e fare dell’insieme dei propri prodotti a marchio un “ecosistema” simile a quelli sviluppati dalle altre grandi aziende del settore tecnologico, come Apple, Sony, Samsung eccetera.

Anzi: è proprio dai servizi a valore aggiunto che la sua fedelissima base di clientela (giovane, motivata e rampante) è disposta a pagare a Xiaomi.
È dai suoi 9 milioni milioni di “fans” che partecipano in continuazione ai “forum MIUI” (MIUI è il nome del sistema operativo proprietario di Xiaomi, sebbene sia comunque basato su Android) contribuendo a fornire idee e soluzioni che arrivano per la maggior parte a Xiaomi i ricavi da servizi che rappresentano i maggiori margini di guadagno, i quali invece scarseggiano nella produzione di cellulari (sono stimati intorno ad un mero 1%) e degli altri oggetti da questa venduti, sui quali ha dichiarato che non marginerà mai più del 5%.

Come dire che Xiomi ha venduto fino ad oggi centinaia di milioni di prodotti senza guadagnarci affatto per poi arrivare a conquistare una fetta di mercato cui è stata capace di vendere servizi a valore aggiunto su internet. Una strategia paragonabile più a quella di Google che di Apple, sebbene possa essere percepita ancora più estrema e pericolosa (quando il boom delle tecnologie digitali dovesse mostrare segni di stanchezza).

IL PROPRIO VENTURE CAPITAL TECNOLOGICO

Xiaomi cavalca tuttavia con molta intelligenza l’onda favorevole di entusiasmo sulla quale essa poggia le sue fortune: sino ad oggi non solo ha venduto centinaia di milioni di prodotti ma soprattutto ha “esternalizzato” il suo ufficio Ricerca & Sviluppo “incubando” al proprio interno la nascita di 29 nuove aziende dotate di idee di prodotto brillanti e in qualche modo interconnesse alle proprie e, soprattutto, “sponsorizzando” altre 55 start-up le quali, evidentemente ancora più meritevoli di attenzioni e capitali, sono state finanziate da Xiaomi ma sono rimaste indipendenti!

Al di là dell’ottimo intento socio-economico la società ha fatto bene i suoi conti, ottenendo dall’iniziativa un flusso impetuoso di idee di prodotto che le ha permesso di contenere i costi interni e di cavalcare il suo successo.


Ma anche in questo l’ancora quarantenne Lei Jun -le cui fortune personali sono oggi valutate quasi 13 miliardi di dollari- ha voluto seguire il modello di Steve Jobs: non copiare la Apple bensì il suo fondatore, innovando continuamente e infrangendo ogni vecchia abitudine (ma anche procurandosi le risorse per farlo)!

Stefano di Tommaso




PERCHÉ SCRIVERE IL PIANO AZIENDALE

E’ possibile per un’imprenditore mettere a punto il suo piano industriale senza aver colto fino in fondo le vere dinamiche del mercato cui si rivolge? Probabilmente no. Ma è altrettanto vero che oggigiorno l’essere in grado di redigere un piano aziendale è divenuta una competenza essenziale per ogni genere di dialogo tra l’imprenditore e il resto del mondo.

POCA LETTERATURA RELATIVA ALLE PICCOLE E MEDIE IMPRESE

La ricerca scientifica in tema di gestione delle aziende tende a polarizzare la sua attenzione verso i due estremi della scala dimensionale:

– Da un lato gli studi su strategia e struttura aziendali, dedicati principalmente alle grandi imprese che possono dedicare tempo e risorse all’analisi di mercato, alla costruzione di solidi vantaggi competitivi, e alla ricerca dell’efficienza di costo,

– Dall’altro lato le analisi e i manuali relativi alle Start-Up, cioè alle iniziative imprenditoriali che stanno nascendo, che spesso si concentrano su come ottenere la finanza necessaria per lo sviluppo, come gestire il mercato potenziale (la cosiddetta “lead generation”) e su come procurarsi un network di sub-fornitori.

Poca attenzione è invece normalmente dedicata alle piccole e medie imprese relativamente alla pianificazione aziendale, anche perchè nel resto del mondo queste ultime restano tali per un periodo di tempo relativamente breve, dopodiché o crescono o spariscono, oppure vengono assorbite da altre.

IL PROBLEMA È FORMALIZZARE LE PROPRIE IDEE E PERCEZIONI

In realtà ogni imprenditore, in erba o ereditiere che sia, dovrebbe chiedersi come fare per riuscire a produrre efficientemente e poi vendere i propri prodotti. E per farlo dovrebbe riuscire a prendere le misure del proprio mercato potenziale e avere un “piano” per sostenere la concorrenza, ampliare i propri margini e creare valore.

E spesso è così: sono pochi gli sprovveduti o i super-fortunati che non se lo chiedono e che non se ne fanno un’idea precisa. Ma sono ancor meno coloro che riescono a formalizzare e mettere per iscritto le risposte nell’ambito di un Piano Aziendale che risponda agli standard internazionali e che permetta all’impresa di dialogare correttamente con il mercato dei capitali, capace di mostrare su quali basi razionali riposano le prospettive economiche e finanziarie delineate nel Piano.

COSA DOVREBBE CONTENERE IL PIANO AZIENDALE

Vediamo allora perchè spesso non c’è un Piano Aziendale correttamente impostato (o è insufficiente a chiarire le dinamiche aziendali) e quali informazioni essenziali esso dovrebbe contenere:

– Innanzitutto esiste un tema di mantenimento del riserbo sulle idee di business dell’imprenditore, che se pubblicate potrebbero facilmente esssere copiate dalla concorrenza e, dunque, annacquate nella loro validità

– In secondo luogo molte imprese piccole e medie sono oggi guidate da persone con scarsa “cultura manageriale” e dunque nascono dal genio commerciale o produttivo di uno o pochi individui, ma poi in assenza di strategia e struttura fanno fatica a organizzarsi ed espandersi

– Ma quel che più conta è la capacità di focalizzare e dimostrare il ”vantaggio competitivo” dell’impresa, la sua capacità cioè di fare quel che le altre non sanno fare o non fanno altrettanto efficientemente (un concetto evidentemente complesso cui torneremo più avanti)

– Altro elemento essenziale di qualunque piano è una corretta disamina della realtà di mercato, delle esigenze che un determinato prodotto o servizio vanno a coprire (paragonandolo a come la concorrenza copre le medesime esigenze) della sostenibilità del costo che esso comporta per il consumatore (paragonandolo a quello proposto dalla concorrenza) e dello stadio del ciclo di vita del settore industriale in cui si situa l’azienda (vedi immagine)

L’analisi di mercato e competitiva spesso sono essenziali per una corretta definizione della strategia, ancorché difficili realizzare, o comportano un investimento talvolta fuori della portata dell’imprenditore di piccole dimensioni. Ma risultano essenziali per la definizione delle ipotesi alla base del piano, con cui oggettivare i risultati prospettici

– Laddove risulti arduo trovare riferimenti oggettivi per l’analisi del mercato attuale e potenziale nonchè della strategia aziendale ecco che può rivestire un ruolo fondamentale la capacità dell’impresa di essere parte di una “catena del valore” più ampia, attraverso alleanze, consorzi, collaborazioni stabili e con catene di distribuzione.

– Uno dei messaggi più importanti che reca il Piano Aziendale al suo lettore riguarda poi il cosiddetto piano operativo, ovvero l’insieme di: organigramma attuale e prospettico, ruoli e le competenze distintive, investimenti necessari, metodi e tempistica di sviluppo/attuazione delle iniziative. La qualità di questa narrativa è prioritaria per importanza persino alla bontà dei risultati attesi

– Esistono di conseguenza due capitoli finali (e fondamentali) del Piano Aziendale che discendono dai contenuti “obbligatori” sopra riportati: la dinamica economico-finanziaria prospettica e quella della creazione di valore che ne consegue.

LA DINAMICA DEL VALORE D’IMPRESA

Il problema strategico più importante al mondo per ogni impresa normalmente è quello di sancire la sua “autorevolezza”: più essa sarà considerata credibile, ben reputata e solida, e più quell’impresa potrà praticare prezzi elevati, avere una clientela fedele, fornitori che le fanno credito sulla parola, facilità nel dialogo con la concorrenza e rispetto da parte di tutti gli “stake-holder” .

Il Piano Aziendale dunque deve innanzitutto mirare ad affermare l’autorevolezza dell’impresa, perchè il concetto è evidentemente alla base della sua capacità di creare valore. Vediamo come:

– Prima ancora infatti di giudicare i risultati economici attuali e prospettici dell’impresa, è essenziale comprendere con quali proposte e a quale clientela attuale/potenziale l’impresa si rivolge. Dunque l’impresa deve essere capace di affermare la validità della sua “value proposition” (concetto che risponde alla domanda: “perchè i clienti dovrebbero scegliere il suo prodotto/servizio?”)

– Una volta chiarita la capacità dell’impresa di “offrire valore” alla clientela (per la qualità ed efficienza dei propri prodotti/servizi), si può arrivare a definire il suddetto “vantaggio competitivo” dell’impresa (cioè la capacità di differenziarsi dalla concorrenza e quella di mantenere questo vantaggio nel tempo)

– Infine la capacità di sostenere nel tempo un vantaggio competitivo nei confronti della concorrenza rappresenta la “prova” della possibilità per l’impresa di ottenere e mantenere i margini di guadagno sulla propria attività, elemento essenziale per la credibilità dei numeri prospettici che vengono di conseguenza sviluppati nella sezione economico-finanziaria del Piano Industriale.

Troppo spesso invece il Piano Aziendale affronta quasi esclusivamente il tema dello sviluppo economico-finanziario senza riuscire a spiegare su quali basi questo può reggersi!

Nel disegno qui sotto riportato si può trovare una sintesi dei concetti sopra espressi:

DAI RISULTATI ECONOMICI ALLA CREAZIONE DI VALORE

Una volta sancita con abbondanza di riscontri oggettivi (di mercato, di know-how e di efficienza) la capacità dell’impresa di riuscire a sostenere nel tempo una buona marginalità economica, il passaggio successivo è allora quello di partire dai conti economici prospettici messi a punto in precedenza, per andare a stimare i relativi stati patrimoniali di ciascun anno futuro.

L’impatto delle principali movimentazioni del conto economico sulle poste patrimoniali dell’esercizio precedente è ciò che permette di stimare l’evoluzione da un anno all’altro dello stato patrimoniale prospettico e, di conseguenza di costruire bilanci preventivi completi dei rendiconti finanziari, definiti come tabelle di confronto tra lo stato patrimoniale di un anno precedente con quello successivo.

L’analisi dei margini d’impresa (ed eventualmente il loro confronto con quelli della concorrenza), la stima della cassa che si genera nell’esercizio (visibile all’ultima riga del rendiconto finanziario) ed eventualmente altre analisi più complesse sulla variabilità stimata della redditività (il cosiddetto “beta”) attraverso l’applicazione della teoria del Capital Asset Pricing Model, porta a poter definire un valore d’impresa per ciascun anno di attività futura e, di conseguenza, a stimare per differenza la capacità della medesima impresa di creare valore nel tempo per i suoi azionisti.

Il concetto di misura della creazione di valore è molto aleatorio, perchè dipende fortemente anche da dinamiche spesso al di fuori del controllo di una determinata impresa (quantomeno nel breve periodo), quali l’andamento dei mercati finanziari e quello dell’appetibilità del settore industriale in cui essa opera (e dunque dei multipli di valore ad esso attribuiti).
Ma è comunque una delle indicazioni principali che discendono dal Piano Aziendale, di forte aiuto nell’ottenere credito e capitali per gli investimenti, nell’attirare le migliori risorse umane e nel comunicare capacità e solidità all’ambiente complessivo che circonda l’impresa.

L’ESTENSIONE DEL CONCETTO DI COMUNICAZIONE AZIENDALE

La capacità dell’impresa di asserire la propria capacità di creare valore è in fondo la quintessenza della trasparenza dell’impresa stessa nei confronti di tutti i suoi stakeholder e attesta fortemente la possibilità di orientare la propria comunicazione, intesa come capacità di dialogare autorevolmente con il mercato del credito, con quello dei capitali e con tutti coloro che devono poter contare sulla solidità dell’impresa per aver voglia di collaborare, o devono assicurare il credito di fornitura o devono assicurarsi della stabilità nel tempo della partnership con quell’impresa .

Riuscire a scrivere un Piano Aziendale permette dunque di fare comunicazione finanziaria proattiva e scevra da slogan e messaggi promozionali, di comunicare la solidità, la correttezza e l’attenzione alle variabili che davvero contano della strategia d’impresa, nonché di poter disporre di una base cui ancorare gli incentivi per I collaboratori, legati non più ai soli risultati economici, bensì al concetto più allargato di creazione di valore.

Va da sè che senza neanche redigere un Piano Aziendale, fare tutto ciò risulta molto più difficoltoso!

Stefano di Tommaso