I PROFITTI AZIENDALI VANNO ALLE STELLE MA WALL STREET TENTENNA

Quest’anno le 500 società che compongono l’indice Standard & Poor della borsa americana ci si attende che dichiareranno mediamente quasi il 20% di crescita degli utili aziendali rispetto al 2017. Si tratterebbe del maggior incremento dal 2010 rispetto al 2009 (l’anno in cui vennero contabilizzati i disastri della crisi dell’esercizio 2008) e, in assoluto, di uno degli anni migliori della storia economica americana.

 

Qui in basso un grafico di Reuters che riporta le stime degli analisti, normalmente un po’ più prudenti di quanto viene poi effettivamente pubblicato (è per questo che le attese vere sono al 19,7%, e non al 17,2% ufficiale):

Ma quello che più conta è che negli stessi prossimi giorni in cui verranno resi noti I dati definitivi dell’esercizio 2017, verranno anche comunicate le prime notizie circa l’andamento prospettico del primo trimestre 2018 e, anche in questo caso, gli analisti si aspettano ulteriori formidabili incrementi rispetto allo stesso trimestre del 2017. Qui sotto uno spaccato delle aspettative per ciascun macrosettore economico:

Fino qui le buone notizie, con l’aggiunta che oggi ci si aspetta forti miglioramenti dei conti non soltanto nei settori che se la passavano peggio l’anno prima (come le energie, che hanno pagato caro il petrolio basso prima e poi la crescita tumultuosa del suo prezzo, oppure le banche, che pagavano il prezzo di tassi troppo bassi fino all’anno prima), bensì anche da quelli per cui il mercato si attendeva già un’ottima performance, come ad esempio l’ “information technology” o le cure mediche, che già andavano benissimo l’anno precedente.

DUE POSIZIONI CONTRASTANTI

Il punto però è che il mercato azionario nel corso del 2017 è appunto cresciuto in media del 20% e che, dunque, quel risultato lo aveva già scontato l’anno prima. Come dire che l’ufficialità della conferma degli utili attesi potrebbe non commuovere affatto Wall Street ma anzi, al contrario, farle dubitare fortemente che le medesime brillanti performances del 2017 (registrate nell’Aprile 2018) potranno risultare ancora migliori nel corso del 2018 (quelle che saranno registrate nella primavera 2019).

E qui -com’è ovvio- gli analisti si dividono in due scuole di pensiero: da una parte quelli che tenendo conto delle buone notizie concernenti l’andamento globale dell’economia reale (da tanto tempo le notizie non erano così positive) ritengono che il super-ciclo economico sia tutt’altro che esaurito (e dunque le borse continueranno a correre anche nel 2018) e dall’altra parte coloro che ritengono che le borse guardino uno-due anni avanti e che le attuali quotazioni azionarie già incorporino le straordinarie attese di profitti in corso (e che pertanto nel resto dell’anno le borse non brilleranno).

LE DIVERSE MOTIVAZIONI

A dare manforte a questa seconda scuola di pensiero peraltro sono i più, e con ottime argomentazioni, quale ad esempio lo scostamento tra i due grafici (utili e quotazioni) che si è accumulato nell’ultimo anno e mezzo:

A dare conforto alla prima tesi (gli ottimisti) peraltro ci sono soggetti molto autorevoli come ad esempio le maggiori banche d’affari del mondo e con un ragionamento che, anch’esso, sembra non fare una piega:

Se infatti le aspettative per l’indice SP500 sono quelle proiettate “dal basso” dagli analisti sulla base degli utili attesi, non si può non tenere conto del fatto che la medesima proiezione con il medesimo approccio “dal basso” per i periodi precedenti ha funzionato benissimo, come mostra il grafico seguente:

D’altra parte i moltiplicatori degli utili attesi, dopo l’ultimo pesante storno di Wall Street e con le prospettive di profitto per I 12 mesi successivi che oggi si vedono, sembrano essere divenuti molto convenienti, come mostra il grafico qui sotto riportato:

Dunque basterebbe una piccola variazione in senso positivo al contesto generale ( che prevede contemporaneamente: prospettive di guerre commerciali, disordini geopolitici, aumento dei tassi di interesse e dei deficit pubblici) perché gli investitori possano tornare ad un relativo ottimismo.

LA CONCORRENZA DEI FONDI MONETARI

Ma un’altra variabile rischi di rovinare loro la festa: la maggior convenienza a tenere in portafoglio strumenti di mercato monetario che non azioni o obbligazioni, come dimostrano i grafici qui sotto comparati:

Se si tiene conto del fatto che i rendimenti di questi ultimi appaiono completamente privi di rischio (tranne ovviamente quello delle quotazioni del Dollaro in cui sono denominati), si capisce perfettamente che, qualora le banche centrali si spingeranno troppo oltre nel rialzare i tassi d’interesse a breve termine, potrebbe aumentare la convenienza per chi investe ad abbandonare i mercati borsistici (che sono quelli che portano risorse fresche alle imprese) per concentrarsi su depositi a brevissimo termine. Il vero nemico dell’investimento azionario non sono dunque le obbligazioni (i cui corsi hanno un’elevata correlazione con quelli dei titoli azionari), bensì i depositi di liquidità a breve durata.

IL DISCRIMINE LO FANNO L’INFLAZIONE E LE BANCHE CENTRALI

È ovvio che, in assenza o quasi di fiammate inflazionistiche la cosa non avrebbe molto senso poiché aumenterebbero i rendimenti reali e dunque il costo netto del capitale, ponendo un freno all’economia. Il rischio è quantomai reale e, anzi, è noto che parecchie delle ultime recessioni sono proprio state scatenate da politiche troppo restrittive delle banche centrali!

La morale è perciò solo una : le borse potrebbero performare ancora bene ma solo se gli aumenti dei tassi programmati dai banchieri centrali troveranno riscontri nell’incremento corrispondente dell’inflazione effettiva, oppure se verranno posticipati.

Altrimenti con quei rialzi non proteggeranno da un’inflazione ampiamente già sotto controllo bensì faranno da freno alla crescita economica, e sarebbe un vero peccato visti i risultati positivi ottenuti fino ad oggi dai medesimi banchieri centrali nella lotta alla disoccupazione!

Stefano di Tommaso




QUEL CHE RESTA DEL CICLO ECONOMICO

Dopo anni di stimoli monetari di ogni sorta e addirittura dopo nuovi stimoli fiscali di grande impatto, le previsioni di un’ulteriore forte crescita economica globale per il 2018 (dopo quella già ottima del 2017) sembrano finalmente avverarsi, ma ecco che invece di colpo esse non sembrano più interessare a nessuno. Le borse, gli investitori e persino le banche centrali appaiono di punto in bianco invece seriamente preoccupati per le prospettive di inflazione (da molti attesa in crescita oltre il livello fisiologico che sino a ieri veniva auspicato per scongiurare il pericolo di deflazione) tanto da chiedersi se il surriscaldamento della crescita economica attuale, arrivata al (presunto) termine di un lungo ciclo economico espansivo, non sia addirittura una cosa pericolosa.

Così esordisce l’Economist in copertina con un articolo di fondo denominato “Crescita Truccata”. Il riferimento a me appare principalmente politico (così come anche in molti altri casi fanno le grandi testate giornalistiche globalizzate) e in particolare esso segnala la presunta inopportunità del taglio fiscale voluto da Donald Trump in America data la già tesa dinamica salariale (cioè in rialzo), manovra alla quale c’è una certa probabilità che farà seguito anche la Gran Bretagna con qualcosa di simile non appena avrà concluso il negoziato sull’uscita dall’Unione Europea. Ci sono molte ragioni per cui questa svolta (che potrebbe a quel punto estendersi a buona parte del mondo) può non piacere, poiché andrebbe a intaccare forti interessi precostituiti.

È noto poi che Trump non intende limitarsi alle misure di politica fiscale che riguardano le tasse, ma vuole realizzare appieno tutto quanto aveva promesso nel suo programma elettorale che prevedeva un altrettanto forte stimolo alla crescita economica attraverso la ripresa degli investimenti infrastrutturali (altra cosa giudicata con forte riserbo dagli economisti “liberal” a causa dell’ulteriore spinta che potrebbe dare alla crescita dell’indebitamento federale).

 

Ma è così vero che il mondo rischia un “eccesso di crescita”? La questione è più che leggittima dal momento che per molti versi l’economia reale non ancora nemmeno recuperato i livelli di benessere cui si era giunti ante 2008 e se questo vale per l’America è tuttavia ancor più valido per parecchi altri Paesi meno sviluppati del mondo (come l’Italia), dove la ripresa è arrivata molto di recente che non hanno nemmeno lontanamente recuperato il terreno perduto in precedenza con la grande crisi finanziaria.

Anzi: molti Paesi Emergenti hanno potuto rivedere la luce grazie al combinato disposto di un rialzo tanto della domanda quanto dei corsi delle principali materie prime e grazie alla debolezza del Dollaro. E l’hanno rivista molto di recente, evitando tanto il default sul loro debito quanto il blocco degli investimenti infrastrutturali (estremamente necessari nei luoghi più arretrati del pianeta).

Ebbene il rischio reale che può derivare dal “surriscaldamento dell’economia “ è esclusivamente quello dell’inflazione, che sicuramente ha ripreso quota rispetto al valore negativo che essa ha avuto a lungo negli anni precedenti ma non è certo ancora ricresciuta a livelli allarmanti. Anzi: ci sono diversi motivi per i quali essa potrebbe tornare sì a crescere, ma forse molto meno di quanto si potrebbe presumere seguendo le teorie della curva di Phillips (che descrive la relazione inversa tra disoccupazione e inflazione) o il dato storico del NAIRU (quel tasso di disoccupazione che non incrementa l’inflazione, al secolo: Non-Accelerating Inflation Rate of Unemployment).

I motivi per cui possiamo ritenere che l’inflazione non “morderà”? Negli ultimi mesi gli economisti ne hanno pronunciati diversi (per spiegare perché l’inflazione non cresceva come avrebbe dovuto): dalla digitalizzazione dell’economia che fa scendere i costi di produzione, all’incremento del commercio elettronico e degli scambi internazionali (con l’arrivo sui mercati occidentali di molti prodotti dei Paesi Emergenti), fino all’incremento di efficienza (e di capitalizzazione) di molte tra le imprese di maggiori dimensioni che sono più moderne di quelle che le hanno precedute e molto più in grado di fare di volta in volta efficienza evitando così di ribaltare completamente gli incrementi dei costi dei fattori di produzione sui prezzi dei loro prodotti finiti. Difficile pensare oggi invece che sia stato un abbaglio collettivo!

In realtà il calo delle borse è possibile che prosegua perché dipende sì dalle attese di inflazione ma anche da altri due potentissimi fattori (l’incremento dei tassi di interesse e le vendite di titoli che le banche centrali inizieranno presto ad attuare) che saranno per certi versi ineludibili. E se le borse continueranno a scendere anche la crescita economica ne risentirà (negativamente).

Se però torniamo alla presunzione iniziale (che il ciclo economico espansivo, già straordinariamente longevo, sia oramai maturo per imboccare un‘inversione), essa resta tutta da dimostrare. Non solo per quanto abbiamo già espresso (in realtà la crescita è arrivata tardi e incompleta nel resto del mondo e dunque solo da pochissimo tempo essa si è sincronizzata), ma anche per gli stessi motivi per i quali l’inflazione potrebbe tornare a crescere molto meno: le nuove tecnologie. In particolare ce n’è una che da sola potrebbe permettere un vero e proprio salto “quantico” ai sistemi economici più sviluppati: la diffusione dei sistemi di produzione esperti (altrimenti noti come “industria 4.0”) e in definitiva la diffusione dell’intelligenza artificiale (A.I.). Probabilmente il mondo dell’industria è molto più pronto di quanto possa sembrare all’ ulteriore efficientamento produttivo che deriverà dalla diffusione della nuova ondata tecnologica dell’A.I., in confronto alla quale quella della digitalizzazione ci sembrerà un’inezia, sia perché ne ha bisogno, che perché oggi ha più capitali per farlo. E questo significa che l’inflazione -se arrivasse davvero- potrebbe riguardare solo le materie prime.

Dal mio personale punto di vista perciò ecco spiegato perché Trump fa bene a spingere sull’accelerazione della crescita economica con la pretesa di rilanciare gli investimenti infrastrutturali: difficilmente quel che ne risulta sarà un focolaio di inflazione fuori controllo e, viceversa, la crescita economica sarà il solo modo per tenere a bada il deficit del budget federale che si creerà con il taglio fiscale (cioè facendo crescere la base imponibile). Non solo: una decisa politica fiscale espansiva è forse anche l’unico modo per cui i consumi (quantomeno quelli americani) potranno continuare a crescere e a trainare lo sviluppo della produzione industriale dei Paesi meno sviluppati (tra i quali il nostro), alimentando a sua volta la crescita globale in una sorta di circolo virtuoso che potrebbe (alla lunga) anche contrastare le tendenze ribassiste dei mercati finanziari attraverso l’incremento dei profitti aziendali.

E se Trump dovesse riuscire a proseguire con le sue riforme quali conseguenze ciò avrebbe sul Dollaro, sul petrolio, sui tassi e sulle borse? Sempre difficile dirlo ma ci si potrebbe attendere un rialzo del biglietto verde, soprattutto a causa del possibile maggior innalzarsi dei tassi di interesse, mentre Wall Street potrebbe continuare ad attraversare acque agitate ancora per un po’, per poi scoprire ulteriori motivi di ottimismo per gli utili delle grandi imprese quotate e, di conseguenza, nuovi rialzi. Lo stesso potrebbe dirsi per le borse europee, mentre quelle asiatiche dovrebbero prima riuscire a superare qualche ostacolo ulteriore, dal momento che comunque la liquidità complessiva in circolazione dovrebbe iniziare a ridursi, lasciando qualche disastro soprattutto nell’economia cinese e in quella indiana, che sino ad oggi hanno beneficiato al contrario della sua crescita. Il petrolio invece con ogni probabilità salirà ancora: limitatamente a causa dell’incremento del ricorso alle energie da fonti rinnovabili e dell’incremento di offerta che -man mano che sale il prezzo- si materializzerà, tuttavia se la crescita economica globale prosegue la sua domanda non potrà che restare forte.

Sono solo supposizioni, ma della stessa natura di quelle che quasi due anni fa mi facevano presumere che Trump avrebbe potuto vincere le elezioni. Non è dunque così scontato che il ciclo economico sia sul punto di fare un’inversione, perché stanno cambiando i tempi e i fattori in gioco. In precedenza sono state spesso le stesse banche centrali a determinare periodi più o meno brevi di recessione. Oggi la loro attenzione è massima e hanno dimostrato fino ad oggi una grande prudenza nel rialzare gradualmente i tassi, cosa che fa ben sperare, mentre finalmente c’è una leadership politica che vuole usare ogni strumento a sua disposizione per stimolare ulteriormente la ripresa. Se guardiamo a un periodo non troppo breve non fasciamoci la testa con un’inflazione che deve ancora arrivare! È possibile che non ne arrivi che qualche piccola avvisaglia, cosa che in economia viene salutata positivamente.

Chissà se -almeno per una volta- l’analisi economica potesse riuscire a sottrarsi a un antico adagio: quello che “l’economia è una scienza triste”?

Stefano di Tommaso




LE BORSE DIVENTERANNO PIÙ SELETTIVE SULLA BASE DEI PROFITTI INDUSTRIALI

Il dibattito sulle iper valutazioni delle imprese, che emana dallo struggimento degli operatori delle borse valori alle prese con il più enigmatico di tutti i lunghi cicli borsistici di rialzo degli ultimi decenni, si concentra oggi sulla possibilità che, nonostante i corsi azionari abbiano superato di slancio tutti i massimi storici precedenti, in realtà i profitti delle imprese possano in futuro risultare in grado di correre ancora più in alto, giustificando dunque nel tempo ciò che oggi sembra eccessivo.

Da tempo chi scrive sostiene un’ardua tesi:gli investitori sono da troppo tempo alla ricerca di valide alternative alle scelte di asset allocation praticate sino ad oggi perché i corsi azionari attuali arrivino a sgonfiarsi in un baleno. Sebbene sinora i fatti sembrano aver dato ragione a questo assunto, se vogliamo evitare di cadere nel ridicolo con affermazioni fideistiche non possiamo che cercare delle risposte a una domanda di fondo: quali e quante imprese stanno effettivamente moltiplicando la loro redditività? Non tutte evidentemente!

Ovviamente non si può prescindere dai presupposti fondamentali che stanno pilotando da oramai otto anni la corsa al rialzo dei valori mobiliari:

  • i tassi straordinariamente bassi ma contemporaneamente la bassissima inflazione rilevata,
  • la grande liquidità disponibile sui mercati che è seguìta alle politiche monetarie espansive,
  • la “congestione dei risparmi” di un’intera generazione di “baby boomers” che si approssima alla pensione e che riversa sui mercati una domanda eccessiva di carta finanziaria,
  • l’ampiezza delle oscillazioni negative precedenti,
  • la grande ripresa economica globale in corso,
  • l’aspettativa che i profitti delle imprese continuino a moltiplicarsi.

Sebbene l’argomento dei profitti aziendali non sia l’unico a tenere alte le quotazioni borsistiche, forse esso dal punto di vista microeconomico merita qualche ulteriore approfondimento perché il dibattito in questione ha effettivamente preso corpo a seguito di un’impennata degli utili delle grandi corporation quotate a Wall Street e tutti si chiedono se, conseguentemente, c’è da attendersi la stessa impennata anche per le altre imprese nel mondo, fino alle più piccole e alle meno globalizzate (ad esempio le PMI dei paesi emergenti) e, a maggior ragione, fino a quelle meno tecnologiche.

LE SUPER VALUTAZIONI DELLE AZIENDE TECNOLOGICHE

La corsa della tecnologia sembra infatti avere molto a che vedere con le iper valutazioni espresse da Wall Street: sono soprattutto i grandi colossi tecnologici e i dominatori di internet quelli che hanno pesantemente alzato la media delle valutazioni. Le quotazioni borsistiche di questi ultimi viaggiano a multipli di prezzo che superano le duecento volte gli utili. La famosa media del pollo di Trilussa è sempre in agguato dunque è ciò che può giustificarsi nel caso di quei colossi globali potrebbe non essere valido per le imprese periferiche e meno tecnologiche.

I mercati finanziari infatti, se nei prossimi giorni non esprimeranno addirittura una più o meno pesante correzione, quantomeno è probabile che proveranno a ragionare sull’ennesima “rotazione” dei portafogli azionari, allo scopo di selezionare meglio le proprie scelte e, auspicabilmente, di provare a diversificare il più possibile i rischi sistemici del possedere assset finanziari che sembrano a tutti troppo “cari”.

Ma ricordiamoci che sono molti molti mesi che i grandi investitori (e sinanco i banchieri centrali) ci ripetono la stessa solfa: l’eccesso di ottimismo che si registra nelle borse porterà presto ad una loro discesa e, dal momento che quel “presto” non arriva mai, da queste colonne nei mesi scorsi abbiamo più volte ironizzato sul tema con analogie letterarie come “Aspettando Godot” o “Il Deserto dei Tartari”! Il punto è che nessun ciclo borsistico può durare in eterno e nessun gestore di portafogli di investimento può permettersi di non chiedersi cosa succederà dopo che quello attuale si sarà esaurito.

Al riguardo c’è chi afferma con certezza che chi investe a questi livelli otterrà scarsi risultati in futuro, chi esprime una fede indiscriminata verso la crescita economica globale che supporta le valutazioni estreme dei mercati, e chi continua a scavare sul fronte della giustificazione razionale delle valutazioni elevate, per trovare non solo risposte al quesito fondamentale sopra descritto (cosa succederà “dopo”) ma anche per riuscire individuare nuove strategie di investimento o nuove ragioni per “ruotare” ancora una volta i portafogli titoli.

I SETTORI PIÙ INTERESSANTI E QUELLI MENO

Scendiamo perciò nel dettaglio dei principali settori economici:

1. Le maggiori imprese supertecnologiche (come Tesla, ad esempio) scontano nelle loro valutazioni la capacità di raggiungere risultati clamorosi in grado di ridefinire il mercato della mobilità personale e quello degli accumulatori di energia di nuova generazione. Quanto tale fiducia sia ben riposta è difficile dirlo, ma resta l’ineluttabilità del fatto che qelle imprese sembrano destinati a cambiare più radicalmente e più velocemente del previsto i loro mercati di sbocco. Casomai i dubbi degli investitori riguardano la presunzione di relativa inerzia dei produttori tradizionali di autoveicoli e sistemi di energia (tutte da dimostrare) e la presunzione di forte capacità organizzativa e industriale da parte di imprese come quella del tetragono Elon Musk di riuscire a realizzare le quantità richieste dal mercato nei tempi annunciati. Qualora le risposte a tali dubbi siano positive, quanto spazio di mercato resterebbe allora alle altre imprese che si sono buttate all’inseguimento dei leader globali? La mia personale convinzione è che non tutti gli operatori super tecnologici riusciranno infatti a tramutare le loro mirabolanti innovazioni in forti profitti e, in un mondo sempre più globalizzato, i leader mondiali di mercato sono dunque quelli più probabilmente in grado di riuscire a raccogliere i maggiori frutti della loro “brand awareness”. Perciò quanto sopra può valere tranquillamente anche per Amazon, per Google, Apple e Tencent e può dunque fornire un deciso supporto razionale alle astronomiche valutazioni di borsa che essi esprimono;

2. Le imprese invece che fondano sì i loro punti di forza sulla rete internet, ma scommettono soprattutto sulla loro capacità di moltiplicare la clientela e i profitti grazie alla mera digitalizzazione e al business che ne consegue di sostituzione delle attività tradizionali (ad esempio gli operatori dell’entertainment come Netflix quali valide alternative a quelli come Sky di Rupert Murdoch), secondo la mia umile opinione rischiano grosso: non è così scontato che i loro predecessori non saranno in grado di rinnovarsi velocemente!

3. Lo stesso può valere per i nuovi colossi del commercio elettronico come Alibaba e Zalando, che rischiano di incontrare decisi ostacoli nel loro processo di cambiamento delle abitudini della gente al riguardo della distribuzione commerciale perché l’umanità è molto conservativa se il possibile rinnovamento delle abitudini della gente non porta anche dei radicali miglioramenti nella vita quotidiana. In molti casi perciò è ragionevole porre qualche dubbio su talune mirabolanti valutazioni di titoli come Netflix laddove esse non siano congiunte a vantaggi radicali nella vita di tutti i giorni.

4. Un ragionamento invece a favore delle supervalutazioni che oggi il mercato esprime può riguardare i leaders globali nei mercati del lusso e del lifestyle, come ad esempio Ferrari o LVMH, che storicamente si sono sempre mostrati in grado di saper raccogliere la sfida del rinnovamento ma che poggiano le loro pretese di mercato su una loro potentissima “brand awareness”. Per essi l’avanzata delle economie emergenti e lo sviluppo demografico e sociale dell’umanità sono fonte probabile di ulteriori soddisfazioni rispetto ai rispettivi “follower” di mercato e per quanto pazzi possano risultare i prezzi da essi praticati, è possibile che i loro ampi margini restino sostenibili.

5. Al contrario per molte delle grandi imprese che oggi risultano leader nei settori B2B (business to business) ci sono seri dubbi circa la sostenibilità di elevate valutazioni di mercato perché ogni minima novità di mercato potrebbe propagarsi, negli ambiti professionali, alla velocità della luce.

6. Ciò può valere per le compagnie aeree, per colossi informatici come la IBM, per i giganti dell’industria di base come Thyssen o General Electric, o sinanco per i grandi (e innovativi) produttori di sistemi informatici come SAP o Oracle e persino come i grandi produttori di beni di largo consumo come Hewlett-Packard o Samsung la cui offerta commerciale non risulti tuttavia “iconica”, a prescindere da quanto capaci siano di cavalcare le innovazioni. In molti di quei settori la concorrenza dei nuovi astri nascenti provenienti dal sud est asiatico o la possibilità che nuove proposte a valore aggiunto provengano da soggetti completamente nuovi rischia di porre dei limiti alla corsa nel tempo dei loro profitti.

I CRITERI DI SELEZIONE DEI SETTORI INDUSTRIALI

La vera discriminante nell’analisi delle effettive capacità di moltiplicazione dei profitti prospettici non sembra perciò l’eccesso di valutazioni ai prezzi attuali delle maggiori imprese quotate, quanto la loro capacità di mantenere la testa della competizione nel loro settore industriale con i margini economici che ne conseguono (vedi Apple), la loro capacità di esprimere un’effettiva brand awareness globale, e soprattutto la possibilità che la loro capacità di fare business in maniera del tutto nuova possa riuscire ad estendersi a sempre nuove categorie di prodotto (vedi Amazon) mentre al contempo su quelle meglio presidiate vengono lentamente alzate barriere all’entrata dei nuovi competitors.

Al contrario in buona parte dei settori industriali rivolti al B2B e in quelli meno protetti da nicchie di mercato e situazioni fortemente localizzate nemmeno le imprese maggiori potranno mantenere il passo con le attuali valutazioni e la possibile avanzata della de-regolamentazione globale potrebbe mettere in discussione molte aziende leader industriali dei nostri giorni. Le stesse argomentazioni non lasciano purtroppo molto spazio alle supervalutazioni che le borse praticano di molte imprese troppo localizzate o troppo piccole, che dovranno affrontare difficoltà ulteriori nel reperire le risorse per la crescita dei propri profitti. Temo anzi che i fattori di sconto nei prezzi di tali imprese dovranno accrescersi.

I veri rischi degli investitori perciò non risiedono nell’ampiezza dei moltiplicatori di prezzo pagati oggi in borsa, bensì nella rispondenza di tali valutazioni alla loro capacità propulsiva a livello globale e nel cavalcare le grandi ondate di modificazione delle abitudini della gente.

Se queste considerazioni significano che in media i valori azionari sino ad oggi espressi dalle borse potranno proseguire la loro corsa o dovranno necessariamente ridursi in futuro, è materia che qui lasciamo alle personali valutazioni di ciascun lettore. È mia personale convinzione che in assenza di forti scossoni geopolitici o relativi a grandi catastrofi invece i mercati finanziari possano proseguire la loro navigazione relativamente indisturbati, ma che saranno necessariamente costretti a proseguire nel processo di selezione dei migliori asset, così come potranno beneficiare ancora a lungo della relativa calma che regna sui titoli a reddito fisso.

I fattori fondamentali all’opera oggi per tenere bassi i tassi di interesse è possibile che non verranno rimossi nel prossimo futuro. Per prevedere quello più remoto invece ci stiamo ancora attrezzando…

Stefano di Tommaso

 




IL MASSIMO DEI MASSIMI

Uno studio di Bloomberg Magazine mette a fuoco il particolare momento storico dei mercati finanziari. La scorsa settimana il più importante indice di borsa a Wall Street (Standard &a Poor 500) ha toccato un nuovo record: quota 2500.


LE BORSE SALGONO MA LA VOLATILITÀ SCENDE

La notizia del nuovo massimo di Wall Street potrebbe non avere nulla di sensazionale se non fosse che essa giunge :

  • Nel modo più “soft” che si possa immaginare e cioè senza alcuno strappo: è un anno e mezzo che Wall Street non registra uno storno di almeno il 5% sui corsi delle azioni quotate,
  • Con la più bassa volatilità dei corsi azionari mai riscontrata (si veda qui sotto il grafico dell’indice VIX a 10 anni),
  • Quando oramai quasi tutti i più grandi “guru” avevano predetto un’imminente e importante correzione,
  • Mentre i maggiori fondi azionari americani toccano un altro record nelle richieste di disinvestire da parte dei privati: oltre 200 miliardi di dollari dal 2009 ad oggi!


IL RUOLO DEI BUY-BACK

Ma se tutti i fondi azionari vendono per stare dietro ai disinvestimenti allora chi è che compra? Quello che salta fuori frugando tra le statistiche è che sono le stesse aziende che hanno emesso titoli che poi se li ricomprano. I “buy-back” delle aziende americane hanno raggiunto da 2009 ad oggi la cifra stratosferica di tremila miliardi di dollari.


Il fenomeno può far discutere a lungo perché può essere considerato alternativo agli investimenti aziendali in innovazione e capacità produttiva, ma bisogna ricordare che le aziende che comprano i propri titoli lo fanno sulla base degli utili già realizzati e con la liquidità di cui già dispongono. Dunque non si tratta della classica volata dei corsi trainata dalla speculazione, che magari fa tutto a debito e l’indomani mattina, se lo scenario muta, è costretta precipitosamente a vendere.

Certo quello dei Buy-Back è un fenomeno innegabilmente collegato a quella parte della remunerazione aziendale legata alle “Stock-Options”, strumenti che in teoria intendono allineare gli interessi del management con quelli dell’azionariato ma che di fatto rischiano di orientare le scelte aziendali a far crescere le quotazioni anche artificialmente.

MA I RENDIMENTI SONO BUONI

Ma il record delle quotazioni non cancella la buona redditività dei medesimi titoli azionari: tanto per cominciare essi a Wall Street rendono più dei titoli di stato, come mostra il grafico sull’andamento dell’indice prezzo/rendimento (P/E) confrontato con il rendimento dei titoli di stato americani a 10 anni (qui sotto riportato). Quindi non sembrano così sopravvalutati e acquistare quei titoli appare comunque una scelta razionale compiuta dal management, anche ai prezzi attuali:

IL RUOLO DEI GRANDI TITOLI TECNOLOGICI

La cavalcata di Wall Street eccede poi quella di tutte le altre borse mondiali, ma anche perché è a Wall Street che si concentrano le maggiori multinazionali tecnologiche come Facebook, Apple, Amazon Microsoft e Google: le famose componenti del super ristretto club denominato FAAMG. Da sole queste società hanno contato nel 2017 per il 31% della crescita del medesimo indice S&P500 !


Le FAAMG ono anche le società i cui utili crescono più velocemente e quelle che prospettano non soltanto le maggiori capitalizzazioni di borsa della storia (qualcuna di esse, come Apple, è ripetutamente giunta vicino al tetto mai toccato sin’ora dei 1000 miliardi di dollari), ma anche le migliori prospettive nel tempo di ulteriore crescita.

 

LE BORSE DEL RESTO DEL MONDO NON SONO DA MENO

Ma se Wall Street registra la miglior crescita e nuovi record, come stanno andando le altre borse? Nemmeno a casa nostra ci possiamo lamentare un granché: l’indice MIB della borsa di Milano è tornato decisamente a correre nel 2017 raggiungendo quasi i massimi storici del 2014 e del 2015 e questo nonostante il cambio dell’Euro con il Dollaro si sia rivalutato di quasi il 15% nell’ultimo anno (da 1,05 a 1,20).

Se guardiamo all’indice europeo complessivo (Stoxx 600) il quadro appare quasi identico:


Per non parlare dell’indice Hang Seng della borsa di Hong Kong: anch’esso al massimo storico come Wall Street! In Cina, nonostante la stretta ai rubinetti del credito che la banca centrale sta dando per motivi di prudenza, l’economia è cresciuta del 6,9% annuo nel secondo semestre 2017, battendo le stime degli analisti. Non stupisce dunque che la borsa sia così euforica:

CONCLUSIONI AFFRETTATE?

Proviamo perciò a riassumere cio che vediamo: il fenomeno delle quotazioni azionarie giunte ai massimi di sempre si estende a tutto il mondo e si accompagna all’immensa fortuna generata dai grandi titoli tecnologici, principalmente quotati a Hong Kong e Wall Street.

Esso accade in contemporanea al record di disinvestimenti dai fondi azionari da parte degli investitori privati e al crescere di indicazioni di prudenzada parte dei maggiori analisti, i quali però notoriamente lo fanno da oltre un anno e sino ad oggi possono soltanto ammettere di aver avuto torto.


Abbiamo anche notato che persino a questi livelli di capitalizzazione il rapporto prezzo utili è alto ma non esagerato se rapportato alle effettive prospettive di crescita dei profitti.

L’economia mondiale cresce inoltre altrettanto forte nel 2017 (o almeno è questa la prospettiva per l’ultimo scorcio dell’anno in corso) ma indubbiamente la parte del leone nella corsa delle borse la fanno i buy-back delle imprese quotate: un fenomeno particolarmente difficile da interpretare nella sua interezza ma che non può scatenare, di per sé, una corsa al ribasso.


Certo in generale più crescono le quotazioni azionarie e più cresce la possibilità che si verifichi un tonfo delle borse con tutto quello che ne consegue.

Oppure accadrà che la crescita economica globale prosegua la sua accelerazione e arrivi a consentire all’intera umanità di vivere una vita migliore. Certo ad oggi il 2017 sembra essere un anno migliore (soprattutto per chi stava peggio). Persino migliore delle rosee prospettive riassunte dal Fondo Monetario Internazionale nel grafico qui sopra riportato.

Stefano di Tommaso