IL CAMMINO STRETTO DI DRAGHI

LA COMPAGNIA HOLDING
Quando ha accettato il ruolo di presidente del Consiglio dei Ministri “di garanzia”, Mario Draghi aveva ben chiaro che la sua missione (quella di mettere ordine nel nostro Paese per riuscire ad ottenere i fondi europei del PNRR) non sarebbe stata una passeggiata di salute. Oggi, dopo le ultime notizie e le amarezze durante le elezioni del Presidente della Repubblica, ha ben chiaro che, insieme alla strada per la ripresa economica del Paese, anche quella per il colle gli si è fatta ancor più ardita di quanto avrebbe potuto immaginare. Vediamo il perchè…

 

LA RIPRESA E’ A RISCHIO

Non soltanto nelle scorse settimane una serie di allarmi relativi al maggior costo dell’energia elettrica (pari a quasi cinque volte i prezzi del 2021) stanno mettendo in difficoltà le piccole e medie imprese, già affette dai rincari della materia prima e dalle lungaggini delle forniture di microchip e altri semilavorati provenienti dall’Asia. A tali preoccupazioni si è poi aggiunto il grido d’allarme lanciato negli ultimi giorni da molti uffici studi circa i problemi burocratici che stanno azzoppando la possibilità di ricorrere alla misura del “superbonus” del cosiddetto 110%, per la ristrutturazione edilizia e l’ammodernamento energetico.

Ma la lista di ostacoli che rischiano di impedire nel 2022 la prosecuzione della crescita economica nel nostro Paese non si ferma qui: innanzitutto c’è la congiuntura economica globale che si fa più difficile e quindi gli ordinativi (principalmente tedeschi e francesi) all’industria italiana rallentano. Le nostre esportazioni possono dunque correre quasi soltanto in direzione dell’Asia, in diretta concorrenza con quelle tedesche!.

Ma nel contempo è in atto una bella crisi di liquidità per le piccole e medie imprese e anche le banche che le finanziano sono quasi a secco: se le piccole banche fanno fatica a supportare il finanziamento dei lavori del 110% e i mercati penalizzano i loro titoli per aver investito troppo nell’acquisire crediti d’imposta, allora le imprese che devono eseguire sul nostro territorio quei lavori hanno un problema ulteriore. Senza lubrificante liquido insomma l’economia delle piccole e medie imprese si ferma!

COSÌ COME I BUONI RAPPORTI CON L’UNIONE EUROPEA

Poi ci sono i numerosi problemi che provengono dai controlli dell’Unione Europea circa le riforme imposte all’Italia in cambio del “Next Generation EU”. Draghi sta infatti toccando con mano la quasi impossibilità di riuscire a procedere in tempo con le riforme necessarie a raggiungere gli obiettivi posti all’Italia dall’UE per procedere con il PNRR.

A dicembre 2021 il nostro Paese aveva conseguito tutti i 51 obiettivi previsti. Non ci dovrebbero dunque essere problemi a confermare l’assegnazione dei 24,1 miliardi di euro già anticipati dall’UE a Giugno scorso. Ma gli obiettivi previsti per il 2021 erano prevalentemente adempimenti burocratici o normativi (organizzazione della governance del PNRR, decreti ministeriali, etc.). Nel 2022, al contrario, per ottenere gli ulteriori 40 miliardi di euro previsti, l’Italia dovrà attuare altri 100 obiettivi che riguardano invece riforme più complesse e investimenti pubblici (progetti di fattibilità, apertura dei cantieri, etc.) in molti casi ancora in alto mare. E soprattutto, di questi 100 obiettivi, ben 45 dovranno essere realizzati nei primi sei mesi del 2022. Riuscirà il Governo nell’intento? È dubbio.

Inoltre l’articolo 11 del Regolamento dell’Unione numero 2021/241 approvato il 12 febbraio dello scorso anno (quello che istituisce il dispositivo per la ripresa e resilienza) prevede che soltanto il 70% dei fondi assegnati dal New Generation EU sia considerato definitivo. Cioè oltre 57 miliardi di euro potrebbero essere ridotti o tolti o assegnati ad altri Paesi membri che dovessero risultare più meritevoli o che avessero avuto performances economiche peggiori nel 2021 (come ad esempio la Spagna). La verifica arriverà entro il 30 giugno prossimo. Il PIL dell’Italia nel 2021 è cresciuto del 6,5% contro una stima di circa il 6%, con la variazione più alta tra i Paesi membri. Ciò significa circa 8-9 miliardi in più rispetto alle stime che potrebbero esserci tolti. È chiaro però che sarebbe politicamente molto complesso per questo Governo rivedere i piani di investimento già annunciati a causa della riduzione delle risorse disponibili!

LA PRODUZIONE INDUSTRIALE RALLENTA

La produzione industriale italiana era cresciuta nell’ultimo trimestre del 2021 soltanto dello 0,5%, con un progressivo rallentamento in dicembre (meno 0,7%) e ha registrato una maggior caduta a gennaio: meno 1,3%. Lo calcola il Centro studi di Confindustria indicando che «la contrazione è dovuta principalmente al caro-energia (elettricità +450% a gennaio 2022 su gennaio 2021) e al rincaro di altre commodity che comprimono i margini delle imprese e, in diversi casi, stanno rendendo non più conveniente produrre. A questo si sommano le persistenti strozzature lungo le filiere globali di fornitura.

Ciò evidentemente mette a rischio la risalita del Pil nel 2022 (al momento stimata intorno al 3,6%). L’economia italiana dovrebbe completare il percorso di ripresa, già iniziato nel ‘21 ma successivo ad un calo di quasi il 10% nel 2020, ma il rischio è invece che le previsioni formulate per il PIL italiano del 2023 (soltanto più 1,9%) possano invece applicarsi già al 2022, nonostante gli stimoli monetari (ancora in atto) e quelli fiscali (i vari bonus per le ristrutturazioni e le transizioni energetiche e digitali) a dare manforte.

MA L’INFLAZIONE MORDE UGUALMENTE

Per non parlare della “grana” dell’inflazione che sta esplodendo così come era successo quasi cinquant’anni fa con la risalita del prezzo del petrolio, dopo la guerra del kippur del settembre 1973. Come allora le tensioni geopolitiche avevano dato una sferzata al costo dell’energia (petrolio e gas in particolare, che viaggiano sempre a braccetto) la quale aveva innescato una serie di rincari dei prezzi. Quel che era successo allora e che oggi non può succedere più è sicuramente la catena di svalutazioni delle divise di conto “minori”, rispetto al Dollaro e al Marco Tedesco. Forse una nuova “svalutazione competitiva” potrà essere adottata per le economie dei Paesi emergenti in giro per il mondo, ma non certo in Europa, dove vige la moneta unica “marcocentrica”. L’Italia non può permettersi invece nemmeno di far anticipare alle sue banche due volte il credito d’imposta. Senza svalutazioni competitive perciò a casa nostra arrivano le deflazioni, a partire da quella salariale (con la perdita di potere d’acquisto dei salari).

Il problema per l’economia italiana è quindi bello grosso e il rincaro del costo dell’energia ha appena iniziato a farsi sentire: già a gennaio l’indice IPCA (Indice dei Prezzi al Consumo Armonizzato) ha registrato in Italia una variazione annualizzata del 5,3%, contro il 5,1% medio dell’Eurozona. Anche se l’ISTAT parla di una inflazione acquisita del 3,4%, questa sarebbe valida per il 2022 solo qualora i prezzi al consumo non crescessero più da qui a fine anno. Cosa che sappiamo già non sta succedendo. Qualche esempio: la pasta è già rincarata del 10% e la bolletta media del gas del 63%. Difficile pensare che, sebbene le statistiche resteranno prudenti finché potranno, riusciranno tuttavia a nascondere la pura verità: l’inflazione in tutta Europa ha appena iniziato a mordere e si può ragionevolmente temere che continuerà ancora a lungo a generare disastri e a determinare la chiusura di numerosissime piccole e medie imprese. Si comprende che chi ci rimetterà di più sarà il nostro Paese, che si basa soprattutto su di esse.

COSA C’È DA FARE

Per tutti questi motivi il Governo avrebbe un disperato bisogno di rimuovere ogni possibile restrizione agli investimenti e alle condizioni di lavoro delle piccole e medie imprese, ogni vincolo burocratico, ogni balzello inutile, ogni limitazione al credito e alla circolazione del denaro. E c’è da giurare che questo governo proverà a fare tutto il possibile in tale direzione. Ma tutto il possibile non significa che sarà sufficiente. Anzi! C’è già da attendersi una vera e propria rivolta dalle parti sociali, delle corporazioni e dei potentati, da parte dei sindacati, dei dipendenti pubblici e sinanco dalla magistratura. Quest’ultima infatti non potrà scansare una sua riforma importante, oltretutto chiesta dall’Europa. I primi invece sono già sul piede di guerra per la perdita del potere d’acquisto dei salari. Persino la stessa Europa non vede di buon occhio una ventata di liberismo e di politiche industriali pro-business.

Draghi dovrà insomma fare lo slalom tra le varie normative, i vincoli legislativi, gli slogan ecologisti e le crescenti misure europee relative alla sicurezza sul lavoro, se vuole riuscire a mobilitare il Paese per sbloccare i cantieri e accelerare le riforme. Con questi fatti è facile pronosticare ogni genere di rallentamenti alle riforme e conseguenti nuove tensioni politiche all’interno della variegata maggioranza che sino ad oggi ha sostenuto il Governo. Né potrà qualcosa il nuovo-vecchio presidente della Repubblica, che tutti sanno resterà in carico soltanto un paio d’anni al massimo e che non ha certo l’autorevolezza necessaria per tenere a bada le parti sociali.

L’Italia avrebbe bisogno di nuova linfa e di grandi intese con gli altri Paesi membri dell’Unione Europea. Invece il rischio è che accada l’esatto opposto: la Germania continua infatti a parlare del suo “ordoliberismo”. Un neologismo che significa innanzitutto “Deutschland Uber Alles” nelle politiche comunitarie. E significa anche che, con l’attenuarsi della pandemia (quantomeno per l’ampia diffusione dei vaccini) i Paesi “frugali” dell’Unione torneranno ad insistere sul rispetto dei vincoli di bilancio, impedendo dunque al nostro Paese di trovare altre risorse per finanziare la crescita.

LA SVALUTAZIONE DELL’EURO NON PIACE AI PAESI DEL NORD

Con un Dollaro tendenzialmente più forte che in passato, sarà infatti più difficile anche per la Banca Centrale Europea reperire risorse per sostenere le iniziative comunitarie e finanziare le banche sul territorio, perché a ogni ulteriore acquisto di titoli pubblici potrà seguire un indebolimento dell’Euro. La Banca Centrale Europea ha sino ad oggi provveduto autonomamente a monetizzare il debito dei Paesi come il nostro (che sono strutturalmente ancora in forte deficit e dunque avrebbero bisogno che essa continui). Dunque la strategia più probabile (quella del “cerchio-bottismo”) della BCE avrà un limite nel fatto che la svalutazione della moneta unica non potrà andare lontano.

Draghi che ha gestito per quasi un decennio il governo della BCE lo sa bene, e sa anche che deve riuscire a trovare altre risorse finanziarie per portare avanti il Paese più che si può in questi mesi, almeno sino a quando le condizioni generali dell’economia globale non saranno troppo peggiorate a causa dell’inflazione e del caro-energia. L’appuntamento del “redde rationem” è infatti per la fine dell’anno, quando ogni possibile velo che nasconde le vere posizioni delle parti sarà tolto, e il confronto, tanto all’interno dell’Italia quanto con gli altri Paesi dell’Unione (anche in vista delle elezioni politiche della primavera successiva) si farà molto più duro. Un momento che risulterà difficile quasi per certo, cui bisognerebbe riuscire a prepararsi sin da ora. Ce la farà?

Stefano di Tommaso




LE SORTI DELL’EURO SI SCRIVONO NEL 2022

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La bolletta energetica alle stelle e il tentativo di “tapering” della Banca Centrale Europea rischiano di mettere a dura prova la tenuta dell’Unione monetaria con rialzi dei tassi e conseguenti timori sui debiti pubblici come il nostro. Chi ci ha guadagnato dall’introduzione dell’Euro sino ad oggi (sono passati giusto 20 anni) è stata indubbiamente la Germania. La ricchezza media degli italiani non è quasi cresciuta nello stesso periodo ma l’inflazione ha eroso circa un terzo del valore dell’Euro nel 2021. Oggi l’esigenza di tornare a far crescere le economie periferiche può spingere il governo dell’Unione all’emissione di bond europei in larga scala, che nel tempo potrebbero rimpiazzare i titoli di stato nazionali, almeno per le infrastrutture. Ma la strada è in salita. E il nostro spread ne risente…

 

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LA RICCHEZZA MEDIA DEGLI ITALIANI NON E’ CRESCIUTA…

Sono passati poco più di vent’anni dalla perdita della sovranità monetaria del nostro paese e, sebbene il nostro debito pubblico sia cresciuto sensibilmente, la sua sostenibilità è apparentemente migliorata, anche grazie ai massicci acquisti di titoli dì stato italiani da parte della banca centrale europea. Il regime di tassi bassi imposto dall’introduzione di una moneta forte ha inoltre indubbiamente favorito la riduzione della spesa pagata per il servizio di quel debito. Eppure nello stesso periodo la ricchezza media degli italiani ha fatto ben pochi passi in avanti: è cresciuta in vent’anni soltanto del 4,6%, passando da 159.300 a 166.300 euro, mentre quella di altri paesi europei è decisamente migliorata: la Francia ha visto nel ventennio una crescita del 24,1%, passando da 150.330 a 187.000 euro, e la Germania ha sperimentato addirittura una crescita (il 50% in più) doppia della Francia e oltre dieci volte dell’Italia, passando da 112.800 a 169.500 euro (in media del 2,5% annuo).

…E IL PRODOTTO INTERNO LORDO NEMMENO

Se poi volessimo parlare non di ricchezza, bensì di reddito, la crescita al netto dell’inflazione del prodotto interno lordo italiano (PIL) si è quasi azzerata, giungendo allo 0,9% nell’ultimo decennio e ha fatto poco meglio in quello precedente (2000-2010) con una crescita del 3,2%. Molto meglio era andata prima dell’introduzione della moneta unica: nel decennio precedente (1990-2000) il PIL era cresciuto del 17,3%, in quello prima ancora (1980-1990) del 26,9% e addirittura del 45,2% negli anni ‘80. Nel grafico l’andamento dell’ output globale lordo che vede un costante ridimensionamento dell’Europa:

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Dunque avete letto bene: al netto dell’inflazione! Cioè quella crescita del PIL italiano, che stava già indubbiamente riducendosi in termini assoluti dagli anni ‘80 al primo decennio del 2000 ma che comunque correva, al netto delle svalutazioni monetarie, nell’ordine del 3% medio annuo, è poi letteralmente crollata intorno allo zero assoluto (+4,1% in vent’anni, cioè lo 0,2% annuo) con l’introduzione dell’Euro e di tutti i suoi vincoli! E senza più alcuna svalutazione, numeri alla mano. Non sono opinioni: sono numeri, e come tali molto testardi!

Senza dubbio dobbiamo tenere conto del fatto che, se l’intera Europa ha fatto qualche passo indietro nella competenza internazionale nel medesimo ventennio di moneta unica, è stata soprattutto l’Italia nello stesso periodo a sbagliare quasi tutto quello che poteva. Ma occorre altresì notare il trasferimento netto di ricchezza operato dalla Germania a proprio favore all’interno dell’Unione Europea, cosa che fa pensare -ex-post- che le stringenti regole comunitarie sono servite più a questo, che a generare una crescita di ricchezza complessiva.

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DAL 2001 L’EURO SI E’ SVALUTATO DEL 44%

Ora nello stesso ventennio l’inflazione è senza dubbio scesa ai minimi storici, arrivando addirittura ad essere negativa negli anni successivi alla grande crisi finanziaria del 2008-2009. La media annua di tutto il periodo è stata pari all’1,73% producendo una svalutazione media del potere d’acquisto in Euro del 43,4% nel medesimo ventennio, come si può vedere dai due grafici qui riportati (uno in termini reciproci all’altro):

Se dividiamo quel quasi 44% di perdita di potere d’acquisto in Euro nei vent’anni, otteniamo un tasso annuo (non composto) di svalutazione di circa il 2,2% annuo. Come dire che la crescita in termini reali del nostro PIL si è più o meno azzerata, ma la perdita dì potere d’acquisto a seguito dell’inflazione dei prezzi ce l’abbiamo avuta ugualmente, e ha eroso all’incirca un terzo del valore monetario a nostre mani a inizio 2001. Dì nuovo, vorrei evitare pregiudizi: non sono opinioni a proposito della moneta unica, soltanto testardissimi numeri!

ORA PERO’ L’INFLAZIONE COMPLICA TUTTO

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Il vero problema però arriva senza dubbio quest’anno, dal momento che l’inflazione si è di colpo risvegliata ben oltre le medie storiche, arrivando nell’ultimo mese al 5% medio nella zona Euro (come si può vedere dal grafico qui sotto) e, ahimè, anche con la prospettiva di rimanere intorno a quei livelli piuttosto a lungo!

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Nello stesso mese di Dicembre infatti l’inflazione americana è arrivata al 7% ma soprattutto è cresciuta -più che proporzionalmente nell’Unione Europea- la bolletta energetica! Con la quasi certezza che ciò si rifletterà notevolmente sull’inflazione tendenziale dell’anno in corso, come si legge nel grafico qui accanto:

L’ENERGIA COSTA MOLTO DI PIU’

E questo proprio mentre le tensioni politiche con la Russia fanno ridurre le forniture da quest’ultima e lievitare le importazioni dì gas da petrolio liquefatto dagli U.S.A.:

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L’Unione Europea cioè non soltanto si è privata di un importante strumento deflattivo che poteva essere il più basso costo dell’energia importata dalla Federazione Russa a causa dell’adesione incondizionata alla posizione contrapposta degli Stati Uniti d’America, mettendosi di conseguenza nelle mani degli esportatori di gas americano (che deve peraltro essere prima rigassificato al suo arrivo nei nostri porti per venire utilizzato) ma rischia di aver perso, per Paesi come il nostro, il principale vantaggio che sembrava mostrare in termini di stabilità monetaria e difesa contro l’inflazione, a causa della bolletta energetica.

IL TAGLIO DEGLI ACQUISTI DA PARTE DELLA B.C.E.

Il Vero problema è infatti non è chiedersi quanto sia stato utile all’Italia aver fatto parte sino ad oggi dell’Unione Monetaria Europea, bensì sapere quanto a lungo la Banca Centrale Europea (BCE) potrà continuare ad acquistare i titoli di stato italiani tenendone bassi i tassi d’interesse di conseguenza.

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Nel 2020 la BCE ne ha acquistati per 175 miliardi (coprendo interamente il nostro deficit pubblico pari a 159 miliardi). Nel 2021 per 155 miliardi (coprendo il 92% del medesimo deficit pari a 167 miliardi). Nel 2022 ha in programma di acquistarne molti meno! Soltanto 63 miliardi di titoli (coprendo però solo il 60% del deficit pubblico italiano, stimato in 106 miliardi), oltre al reinvestimento in nuovi titoli della liquidità proveniente dai rimborsi dei titoli giunti a scadenza. Nel 2022 insomma la musica rischia di cambiare!

Mai cioè come negli ultimi due anni l’appartenere all’Unione monetaria europea ha giovato al nostro Paese (seppure in cambio di una notevole frenata alla nostra competitività). Ma oggi le sfide (soprattutto a seguito dell’inflazione) si moltiplicano proprio mentre la giostra che ha rinviato sino ad oggi molti problemi del nostro Paese (gli acquisti di BTP da parte della BCE) sembra giunta a fine corsa!

In conseguenza dei suddetti acquisti, nel 2021 la percentuale di debito pubblico detenuto dalla BCE e dalle istituzioni europee è arrivata al 28% e (pur nella previsione di un dimezzamento degli acquisti BCE nel 2022 su base annua) nel 2022 sarà almeno pari al 30% (prima della pandemia era stato soltanto il 16%).

RIDURRE IL DEBITO SENZA ALZARE LE TASSE ?

Pochi giorni fa (prima di Natale) si erano riuniti il nostro capo di governo (Mario Draghi) e quello francese, nonché presidente di turno dell’Unione Europea (Emmanuel Macron) convenendo su un progetto semplice ma ambizioso: “Ridurre il debito senza alzare le tasse”. Ma le ultime notizie in termini di inflazione importata rischiano di tagliare decisamente le gambe a quel progetto. Cosa farà l’Italia per rendersi appetibile nel piazzare i suoi titoli pubblici nel corso di quest’anno ? Riuscirà a sfoderare una crescita robusta dell’economia tale da far tornare in discesa il rapporto debito pubblico / prodotto interno lordo? Al momento sembra improbabile, anche a causa del crollo dei consumi dovuto al virus…

Oppure riuscirà l’Europa a recuperare un dialogo al suo interno tra “fondamentalisti” e “progressisti” affinché si prosegua ad emettere debito pubblico comunitario, ben oltre il programma “NEXT GENERATION EU” (finanziato peraltro solo per metà dal debito dell’Unione)? La sfida è solenne nei mesi che verranno, anche perché in uno scenario difficile come quello che si prospetta per il prossimo biennio e con gli strascichi delle ondate pandemiche, la possibilità di contrastare la mancata crescita con una maggior spesa infrastrutturale europea è una delle poche panacee rimaste a sostenere i pilastri dell’Unione.

MA QUANDO ARRIVANO GLI EUROBOND ?

La risposta a questo interrogativo è fondamentale per vedere l’Unione Europea finalmente consolidarsi con l’occasione, oppure arrivare in fretta a disgregarsi irrimediabilmente. Noi siamo ovviamente ottimisti! Nessuno ha davvero interesse a tornare indietro dì vent’anni. Pur con tutti i limiti e difetti che si possono elencare di quest’unione a metà. Né appaiono oggi plausibili scenari dì “Italexit” che pure, in senso astratto, potrebbero risultare a noi convenienti. Non siamo nemmeno lontanamente paragonabili al Regno Unito! Il grafico riportato segnala infatti la necessità di aggiornare al ribasso le stime di crescita al netto dell’ inflazione (il “deflatore” nel 2022 sarà ben maggiore di quello qui recentemente previsto):

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Motivo per cui ben difficilmente le forze politiche italiane potranno dare luogo ad una crisi istituzionale nell’anno appena iniziato. Il solito teatrino della politica per un po’ dì tempo si può giurare allora che stavolta non andrà in scena: senza gli acquisti della BCE e senza una crescita poderosa il debito pubblico italiano può solo crollare o ridursi. E nessuno dei due scenari è oggi accettabile.

Per questo motivo si può tranquillamente scommettere sulla stabilità politica italiana e sul “whatever it takes” per riuscire a far continuare il nostro Paese nella stabilità fino a fine legislatura, onde promuovere la crescita economica interna. Magari con l’estensione del PNRR, finanziato in parte, appunto, di nuovo dal debito comunitario… (anche per contrastare il mancato rinnovo del blocco delle rate prestiti bancari a 700mila PMI -€27 miliardi- e la fine delle garanzie pubbliche -Giugno ‘22- ai prestiti erogati a 2,5 milioni di aziende).

Stefano di Tommaso




L’EUROPA RALLENTA,MA NON È“MAL COMUNE,MEZZO GAUDIO”

È un proverbio nato con Cicerone, che promuove l’idea del mimetizzarsi con il malessere diffuso per tamponare psicologicamente la pena derivante dai propri problemi. In questi giorni i dati macroeconomici di Germania e Francia sono divenuti decisamente negativi: l’indice Pmi manifatturiero emesso a dicembre è in netto calo: in Germania è sceso a 51,5 punti rispetto ai 51,8 di un mese fa mentre quello relativo ai servizi è invece risultato pari a 52,5 punti, in calo rispetto ai 53,3 di un mese fa. Ancora più pesanti i dati francesi: l’indice Pmi manifatturiero della Francia è risultato pari a 49,7 rispetto ai 50,8 del precedente, mentre quello dei servizi si è attestato a 49,6 punti, in discesa rispetto ai 55 punti di metà novembre.

 


(Qui sopra: il disavanzo commerciale francese)

 

I dati del terzo trimestre 2018 hanno rivelato un forte rallentamento della crescita economica per l’intera area Euro che, una volta destagionalizzata, è ridotta allo 0,2% sul trimestre precedente: il peggior risultato dall’inizio del 2013 ! La riduzione delle esportazioni, il regresso del settore “automotive” e una certa fuga di capitali verso l’area Dollaro che ha rinviato qualche investimento hanno congiurato per tale risultato.

(nel grafico qualche numero chiave fornito dal Fondo Monetario):


La Francia si è poi affermata quest’anno il paese con la più elevata tassazione al mondo, raggiungendo il 46,2% del prodotto interno lordo, buona seconda la Danimarca, con il 46% netto. Terza la Svezia, al 44% e soltanto quarta l’Italia, al 42,4% del P.I.L. Anche per questo la Francia non può permettersi di concedere al popolo in rivolta tagli di tasse o altre pubbliche prebende, se non portando il suo disavanzo dei conti pubblici al 3,4% (cosa sulla quale non si è notata la benché minima reazione dell’U.E.) mentre l’Italia può invece permettersi addirittura di tentare una manovra leggermente “espansiva” pur contenendo il deficit al 2% e questo non le risparmia ugualmente la minaccia di una procedura comunitaria d‘infrazione (per eccesso di deficit).


Come si spiega tutto ciò? Probabilmente con la politica e con la psicologia, ma soprattutto con lo scarsa influenza che il nostro paese può vantare nei confronti dei governanti comunitari.

In psicologia il bisogno di appartenenza, di sentirsi “come” gli altri influenza non poco le intere comunità, anche quelle professionali. L’Unione Europea ha indubbiamente fatto leva su sentimenti comuni come questo nel catturare il consenso popolare nei paesi membri come l’Italia. Ma ora stiamo sperimentando cosa significa, in un ambiente in cui gli altri si sentono accomunati da leadership politiche simili, il provare ad essere, anche di poco, diversi. È stato come gettare il guanto in segno di sfida e la reprimenda del governo europeo non si è fatta attendere!

Eppure l’Italia ha il saldo delle partite correnti (Bilancia commerciale + trasferimenti) così come l’avanzo primario dei conti dello stato (cioè prima di contare gli interessi) stabili e positivi da numerosi anni, a differenza di altri paesi europei, come la Francia, che ha un disavanzo primario da lungo tempo, ma oggi l’Italia agli occhi degli altri paesi membri dell’U.E. ha difetti non sanabili da nessuna politica economica:

in primo luogo, in questo momento di sconvolgimento politico dell’Europa ha l’unico governo che gode di oltre del 50% del supporto popolare e che quindi può dirsi democratico e ciò in Europa non è tollerabile,
inoltre non ha Italiani nella Commissione Europea mentre al contrario Moscovici, francese, non casualmente ha posizioni filomacroniane,
infine in questo momento il debito pubblico italiano risulta detenuto per il 72% da soggetti residenti nel nostro paese (ivi compreso il sistema bancario nazionale, che anche per questo motivo è sotto schiaffo) ed è dunque poco influenzabile dalle vendite allo scoperto provenienti dall’esterno che non riesco a giocare troppo spudoratamente al ribasso.

Ora ci manca solo che le tensioni politiche e commerciali dell’Unione con gli Stati Uniti d’America (il nostro alleato di sempre) si acuiscano dopo le ferie perché per l’economia europea si sia costretti definitivamente cantare il “de profundis” facendola sprofondare in recessione prima dell’America. L’effetto spiacevole è che in tal caso vedremo presto inevitabilmente nella recessione anche il nostro paese, con buona pace degli oppositori politici del governo italiano, che ne dedurranno soltanto che la manovra di questo governo (che ha soltanto sei mesi di vita) “era sbagliata”.

Sic transit gloria mundi (si pronuncia ogni volta alla nomina di un nuovo pontefice, anche per ricordare che -morto un papa- se ne fà un altro). Ma purtroppo i burosauri che sono al vertice della Commissione Europea è più probabile che preferiscano affondare con la loro nave (la Commissione) alle prossime elezioni (tra soli tre mesi) piuttosto che scelgano di avviarsi in fretta ad una decisa sterzata circa le loro politiche macroeconomiche, politiche e ideologie che ora si dimostrano sbagliate persino per gli Stati membri che avrebbero dovuto trarne profitto. Politiche e ideologie che tra l’altro fanno ancora trasparire quell’atavica voglia di “austeritàa prescindere” per paesi considerati spendaccioni come il nostro, da sempre malcelata.

Stefano di Tommaso

 




IL RIPENSAMENTO DI DRAGHI

“L’inflazione di base dell’Eurozona continua a oscillare intorno all’1% e deve ancora mostrare una tendenza al rialzo convincente… Il Consiglio (della Banca Centrale Europea) ha anche notato che le incertezze sono aumentate e dunque a dicembre, con le nuove previsioni disponibili, saremo più in grado di fare una piena valutazione”. Queste le parole del Governatore della BCE nell’ultima sua audizione (la settimana scorsa). Se di norma i banchieri centrali sono di poche parole ed amano essere interpretati come gli oracoli di un paio di millenni fa, questa volta invece Mario Draghi non ha lasciato spazio alle esegesi di quello che voleva dire ed è andato dritto al punto: l’inflazione non sembra continuare la sua corsa, ed è per questo che nell’euro-zona i tassi resteranno ancorati ai livelli attuali ancora per forse un anno (autunno 2019) e magari proseguiranno persino gli stimoli monetari (magari sotto altra forma).

 

Forse è anche per fugare dubbi di imparzialità che il banchiere centrale di origine italiana si è sentito di strigliare il governo del nostro Paese : non è per fare un piacere agli Stati (come l’Italia) che si ritrovano elevati spread perché deludono le aspettative dei mercati, che la BCE sta valutando se confermare le precedenti indicazioni relative alla propria politica monetaria (nel grafico qui sotto: l’andamento trimestrale del prodotto interno lordo italiano):


Bensì a causa di un primo dato di fatto: che l’inflazione che non cresce (abbastanza), e poi per un altro importantissimo elemento che Draghi non ha volutamente citato ma che tutti sanno avere pesato come un macigno nelle sue considerazioni: la mancata crescita del Prodotto Interno Lordo della Germania nel terzo trimestre 2018.

LA GERMANIA SI ACCODA A ITALIA E GIAPPONE NELLA MANCATA CRESCITA

Dopo che si era fermata in Giappone (sotto zero già da qualche mese: nel terzo trimestre il Prodotto interno lordo è sceso dello 0,3% sul trimestre precedente, pari a un -1,2% annualizzato) e si è azzerata in Italia essa è adesso a rischio anche nel resto dell’ Europa. Se un indizio non fa una prova (la mancata crescita dell’Italia nel medesimo periodo), due indizi invece si, dal momento che alla brusca frenata della crescita si è accodata anche la più importante economia della divisa unica europea (di seguito l’andamento trimestrale del prodotto interno lordo tedesco):


L’INFLAZIONE STA SMETTENDO DI CRESCERE

L’inflazione sta sicuramente smettendo di crescere (anche in America) e anzi, sino a ieri in Europa si era nutrita quasi esclusivamente delle conseguenze dei due grandi bradisismi in atto da tempo: il rialzo di petrolio e gas e la forza del Dollaro. Questi due fattori avevano infatti congiurato per un rialzo del costo delle materie prime e indotto la mini-fiammata inflazionistica che si era vista in estate.

Oggi almeno per il petrolio è giunto il momento dei ripensamenti mentre in molti prevedono che nemmeno il Dollaro proseguirà troppo a lunga la sua corsa perché a un certo punto il rialzo dei tassi americani diverrà non più sostenibile senza una crescita economica miracolosa (che invece sembra esserci solo in America e non per sempre). E così il prezzo delle materie prime al momento è in ribasso.

MA I TASSI DI INTERESSE CRESCERANNO UGUALMENTE

Se la guerra in atto tra America e Cina non produrrà altri danni forse la crescita economica tornerà a fare capolino anche nelle altre economie avanzate. Ciò nonostante per molti motivi i rialzi dei tassi di interesse nel migliore dei casi possiamo considerarli soltanto rinviati: non solo in America infatti le banche centrali ambiscono a recuperare anche su questo fronte capacità di manovra, dopo che per molti anni l’eccesso di debiti pubblici (mai rientrato) le ha costrette a renderli negativi o vicini allo zero. Senza contare le infinite pressioni per una loro risalita esercitate dal sistema bancario di cui esse sono garanti.

FIATO CORTO PER I LISTINI AZIONARI

Così se la crescita economica continuerà in America e farà da traino anche al resto del mondo, potremmo trovarci di nuovo in una situazione incantata di continuazione del super-ciclo economico globale, caratterizzata da ripresa dell’occupazione, bassa crescita e bassissima inflazione. Ma questo difficilmente si tradurrà in nuovi miracolosi rialzi azionari, dal momento che come minimo i mercati sconteranno ulteriori rialzi di tassi e il ritorno alla normalizzazione monetaria.

Quindi, al di là di sporadici possibili riprese dei corsi delle borse (un mini-rally di Natale lo auspicano i più), difficilmente questa possibilità significherebbe nuove corse indefinite delle borse valori (anzi: le valutazioni aziendali che ne sono alla base non potranno continuare a sperare in una crescita indefinita dei profitti) e data anche la maggior appetibilità per i risparmiatori che stanno riprendendo i titoli a reddito fisso.

IL RISCHIO AMERICA

È poi sempre possibile che la locomotiva economica americana rallenti la sua corsa (per esempio per l’instabilità politica che potrebbe derivare da un Presidente sempre più assediato) senza che quella asiatica riesca in tempo a sostituirne il traino. Questa possibilità ostacolerebbe le esportazioni europee (tutt’ora in grande smalto) e potrebbe lasciare in stallo le prospettive del vecchio continente senza che la crescita economica globale si fermi del tutto.

In tal caso la continuazione delle politiche espansive della BCE non basterebbero a far tornare il sole della crescita a splendere in Europa, ma soltanto ad impedire nuove crisi di panico relativamente ai debiti pubblici degli Stati membri.

Stefano di Tommaso