QUALE ITALIA DOPO DRAGHI?

All’occhio di un attento lettore non saranno sfuggite le battute conclusive di un bradisismo che oramai va avanti da oltre due anni: la fine dell’epoca degli stimoli monetari. L’annuncio di Mario Draghi che da Gennaio la Banca Centrale Europea non acquisterà più titoli di Stato è stato soltanto l’epilogo di una lunga vicenda iniziata dieci anni fa quando alla Federal Reserve (detta anche: FED, la banca centrale americana) individuarono -negli acquisti di titoli pubblici sul mercato aperto- un antidoto efficace a contrastare il crollo della velocità di circolazione della moneta e gli effetti recessivi della deflazione.

 

La manovra, all’epoca denominata per astruse ragioni tecniche “facilitazione quantitativa” (in Inglese “Quantitative Easing” detto anche: QE) ha avuto un indubitabile successo nel far riprendere vigore ai mercati finanziari subito dopo la crisi e ne ha generato il più potente rialzo della storia. Ma soprattutto ha permesso di abbassare fortemente i tassi d’interesse pagati dai titoli di stato e dunque di innalzare la sostenibilità del debito pubblico. La FED lo ha smantellato dal 2016 e dallo stesso periodo sta procedendo a rialzare gradualmente i tassi di interesse a breve termine, riuscendo contemporaneamente a mantenere bassi quelli a lungo termine (che rappresentano il grosso del costo del debito americano).

IL QE EUROPEO E’ ARRIVATO (VOLUTAMENTE) IN RITARDO

In Europa non si è fatto subito alla stessa maniera ma si è passati da una lunga pausa di riflessione, che ha generato un’emorragia di capitali dalla periferia verso i Paesi centrali dell’Unione e, parallelamente, un importante decadimento per le economie più deboli (si veda il grafico sottostante).

Si proceduto poi con una sorta di finanziamento temporaneo alle banche commerciali per acquistare titoli di stato a tasso agevolato (la LTRO ovvero “Long Term Refinancing Operation”, con le quali molte di esse hanno risanato i conti economici, lucrando sul differenziale tra i tassi pagati per l’LTRO e quelli percepiti sui titoli pubblici acquisiti) fino poi ad inaugurare il vero e proprio Q.E. Europeo, tutt’ora in corso, che si concluderà con la fine del 2018. In funzione di esso la Banca Centrale Europea ha acquistato sino ad oggi titoli di stato italiani per circa 350 miliardi di euro e questo ha impedito manovre speculative contro il nostro debito pubblico.

LA NASCITA DELLO SPREAD

Queste manovre hanno favorito sì la discesa dei tassi d’interesse ma, senza la prospettiva di un’unica nazione europea -e dunque senza solidarietà tra i debiti pubblici dei diversi paesi- si è lasciato che si generasse una forte divergenza (spread) tra i tassi pagati dai Paesi centrali dell’Unione (arrivati sotto lo zero) e quelli pagati dagli altri, come l’Italia, diminuendo per questi ultimi i vantaggi della manovra. Nel grafico un raffronto tra i debiti pubblici europei:



LA FINE DEL QE E I RISCHI DI FUGA DEI CAPITALI DALL’ITALIA

Oggi che i tassi nel resto del mondo tornano a crescere e gli stimoli monetari sono terminati, l’Euro non può permettersi di proseguirli da solo incrementando il differenziale dei propri tassi con quelli del Dollaro e alimentando di conseguenza la propria svalutazione (al momento peraltro ancora in corso). E così i tedeschi plaudono all’annuncio della fine del Q.E. (e alla susseguente fine dei tassi bassi) ma tutti si chiedono chi comprerà i titoli di stato italiani dal 2019. Lo stesso mandato di Mario Draghi (visto dai più come uomo poco incline allo strapotere germanico) si conclude a Ottobre del prossimo anno.

Nel frattempo in Italia si è anche insediata una nuova coalizione governativa sicuramente più refrattaria ai diktat di austerità dell’Unione Europea, cosa che teoricamente alimenta il rischio che l’Italia debba fronteggiare una nuova importante fuga dei capitali.

A Maggio infatti se ne è vista una decisa avvisaglia: il caos del mancato governo sollevato dal presidente Mattarella ha fatto sì che i flussi finanziari in uscita abbiano toccato il record di 40 miliardi di euro, portando a 465 miliardi il saldo del debito derivante dal meccanismo di bilanciamento monetario denominato “ TARGET 2” (in pratica quanto l’Italia dovrebbe ai paesi creditori dell’Unione in caso di fuoriuscita dall’Euro). Nel grafico che segue si vede un confronto tra il principale debitore (l’Italia) e il principale creditore (la Germania):

Ovviamente nel caso di ulteriori forti fughe di capitali dal Bel Paese questo divario non sarebbe sostenibile all’infinito, soprattutto se in parallelo c’è uno scontro politico in atto e poi tenendo conto del peso del sistema bancario nazionale, che raggiunge i 4mila miliardi di euro. L’Italia insomma non è la Grecia e il salvataggio, per quanto possa apparire per noi doloroso, non sarebbe nei fatti nemmeno possibile.

Dunque si è creata un’urgenza irrinunciabile di trovare in fretta soluzioni all’orizzonte degli eventi monetari del 2019 proprio nel momento che il nuovo governo intende fare la voce grossa con Bruxelles. Ma per completare con oggettività il quadro generale tuttavia bisogna prima prendere atto di cosa succede in Gran Bretagna dopo la “famigerata” Brexit.

LA BREXIT È ANDATA BENISSIMO

Ebbene: non solo la Sterlina negli ultimi mesi si è straordinariamente rafforzata ma la disoccupazione britannica nel primo trimestre del 2018 registra il minimo storico del 3% (non si vedeva dal 1991) e la corsa a sostituire la partnership con l’Unione Europea ha ampliato la collaborazione di Londra con l’Asia e l’estremo oriente è divenuto ied è divenuta il terminale della maxi-infrastruttura lanciata dalla Cina denominata “Nuova Via della Seta”, che vale 12 volte il Piano Marshall, coinvolge 65 paesi e I due terzi dell’economia globale. Il calo delle tasse dopo l’annuncio ha d’altra parte rilanciato gli investimenti interni nei porti, nella manifattura e nella digitalizzazione, rafforzando i legami con i paesi del Commonwealth quelli con gli Stati Uniti dell’era trumpiana, arrivando a rilanciare (per assurdo) il ruolo di Londra quale principale piazza finanziaria europea.

Esattamente l’opposto di quanto avviene nell’Unione, dove l’Euro è in caduta libera, la crescita economica è rallentata vistosamente nel primo scorcio del 2018 e le tensioni con Washington sono sempre maggiori. Ora si spera che la debolezza della moneta unica possa rilanciare le esportazioni del vecchio continente ma comunque i mercati finanziari sentono puzza d’incertezza nell’Unione e preferiscono rivolgere le loro attenzioni altrove. L’Italia insomma potrebbe anche pensare di uscire dall’Euro incoraggiata dall’esito positivo di chi l’ha preceduta, così come potrebbe trovare il modo di negoziare con i partner forti dell’Unione accordi più vantaggiosi per il rilancio della propria economia e il rimpatrio dei capitali, visto che lo spauracchio si è fatto concreto.

CHI COMPRERÀ I TITOLI PUBBLICI?

D’altra parte senza prendere alcuna iniziativa non si vede come potrà trovare il modo di sostenere in autonomia le sue finanze pubbliche per far sottoscrivere 201 miliardi di titoli di stato da emettere nel 2019, in crescita dai 165 del 2017 (si veda il grafico):

(nel grafico nell’anno 2019 si vedono ancora acquisti da parte della BCE per una ventina di miliardi a causa del fatto che essa prevede ugualmente di continuare a reinvestire i bond in scadenza)

Se le esportazioni continueranno (o addirittura si rafforzeranno) il nostro Paese può sperare di contrastare la fuga dei capitali con l’incremento della bilancia dei pagamenti correnti. Le previsioni infatti da questo punto di vista appaiono positive:

Il quadro perciò non è necessariamente così grigio per l’economia italiana, prevista in crescita quest’anno di almeno l’1,4%, se al tempo stesso in cui il rischio di una fuga di capitali si dovesse fare più forte il Paese dovesse parallelamente riuscire a mobilitare nuove iniziative imprenditoriali e un efficientamento della pubblica amministrazione così come promettono i nuovi leaders.

La fine dell’ombrello monetario europeo insomma è destinato a provocare un chiarimento nei rapporti con l’Unione (o si intensificano o si riducono). E non è detto che ciò non possa costituire un fatto in qualche modo positivo…

Stefano di Tommaso




ORSI O TORI ? IN BORSA QUALCOSA E’ CAMBIATO

Un anno eccezionale. Questo è sicuramente stato il 2017 e potrebbe risultare anche il 2018. Da quando infatti la Gran Bretagna ha vota per la Brexit e Donald Trump è stato eletto presidente degli Stati Uniti d’America (in media un anno e mezzo fa) i mercati finanziari hanno regalato grandi e insperate soddisfazioni a investitori e risparmiatori e la crescita economica globale si è magicamente sincronizzata, registrando i migliori risultati da molti anni a questa parte. Parallelamente i grandi timori derivanti dalle tensioni geopolitiche e dalle minacce di conflitti nucleari si sono progressivamente sopiti, anche grazie al nuovo corso politico anglo-americano.

 

Ovviamente non tutti i meriti di questa meravigliosa performance vanno ascritti alla leadership politica! La rivalutazione delle borse e di tutti gli altri valori finanziari (ivi compresi i Bitcoin e le altre criptovalute) parte infatti da molto lontano, essenzialmente da subito dopo la grande crisi del 2008, con il varo del Quantitative Easing (QE: allentamento della politica monetaria) in Giappone e in America. E ancora nel 2017 le banche centrali hanno aggiunto oltre mille miliardi di liquidità a quella messa in circolazione dal 2009 in poi, superando nel totale i 15mila miliardi di dollari negli otto anni. Impossibile non tenerne conto quando si vuol comprendere le ragioni delle recenti performance delle borse.


Oggi però che le loro quotazioni sono arrivate davvero molto in alto e il QE sta per essere trasformato in “Quantitative Tightening” (QT: restrizione della politica monetaria) persino nelle aree del mondo dove è arrivato più di recente e dunque la liquidità in circolazione nel mondo sarà progressivamente ridotta. Inoltre con l’aspettativa di ripresa dell’inflazione in conseguenza della ripresa economica l’epoca dei tassi a zero sembra volgere definitivamente al termine e -poiché viene stimata una correlazione vicina al 90% tra gli andamenti delle varie “asset class”- la minor domanda di titoli non potrà non impattare anche nelle quotazioni degli stessi, provocando un loro ribasso e l’attesa di maggior rendimento.

UN CICLO ECONOMICO PROLUNGATO OLTRE OGNI ASPETTATIVA

Ma, per comprendere la strana situazione attuale dei mercati finanziari, occorre tenere presente che i ragionamenti sopra descritti sono validi da almeno un anno e mezzo, dato che già nel 2016 il ciclo economico espansivo era classificabile come uno dei più longevi della storia (e dunque era già allora ragionevole aspettarsi che arrivasse prima o poi una seppur lieve recessione). Ancora all’inizio del 2015 la Federal Reserve Bank of America aveva preannunciato il cosiddetto “tapering” (cioè una riduzione del programma di QE e conseguentemente la prospettiva di ridurre la liquidità immessa in passato, cosa che prelude al QT), sebbene altre banche centrali come quella Europea, avessero iniziato in ritardo con gli stimoli monetari e pertanto non avessero in programma di ridurli a breve.

È in queste nuove condizioni ambientali che nel 2016, mentre la Gran Bretagna votava il divorzio dall’Unione Europea e oltre oceano eleggevano il presidente americano più “populista” che la storia ricordi, sembrava ovvio a tutti che le borse si sarebbero ridimensionate e i titoli a reddito fisso di sarebbero svalutati, riflettendo la volontà delle banche centrali di far risalire i tassi di interesse per prevenire la ripresa dell’inflazione.

E invece no. Forti della straordinaria crescita dei profitti delle aziende quotate nelle borse e della preannunciata (e poi dopo un anno finalmente votata) riforma fiscale americana, i mercati finanziari hanno continuato a correre in avanti, raggiungendo vette stratosferiche e provocando negli investitori incertezza, ma anche al tempo stesso euforia, e la necessità di seguire il flusso dei listini assecondandolo, seppure con sempre maggior scetticismo. Forse è stato proprio questo diffuso scetticismo che ha impedito nell’ultimo anno e mezzo grandi fiammate delle borse ma anche grandi crolli, generando quei livelli minimi di volatilità dei mercati cui ci siamo abituati. Volatilità che da qualche tempo sembra invece risalita (vedi grafico).

LE RAGIONI DEL PESSIMISMO

Dunque sino ad oggi le economie di ogni area del mondo hanno continuato a crescere -anzi si sono sincronizzate tra di loro- senza quasi generare inflazione, provocando una decisa rimonta dei profitti aziendali e impedendo ai mercati finanziari di perdere fiducia in ulteriori accelerazioni economiche e incrementi dei profitti.

Ma evidentemente più i mercati progrediscono più a chi vi investe vengono le vertigini da altitudine. E al primo scricchiolio delle quotazioni tutti si chiedono se non sia arrivato l’inizio della fine.


Anche perché non si può non prendere atto del fatto che, nonostante l’inaspettato progredire della crescita economica globale ben oltre le durate fisiologiche dei cicli economici e nonostante la bassissima inflazione sino ad oggi registrata, il super ciclo economico volga inevitabilmente alla sua conclusione e il contesto generale tenda a una congiuntura meno favorevole per le attività finanziarie.

Tanto per citarne una, la variabile più banale che può aiutare la ripresa dell’inflazione (e dunque provocare interventi restrittivi delle banche centrali) è l’incremento dei salari, conseguenza quasi ovvia della ripresa economica. Esso fa crescere i consumi e, in assenza di forti correttivi (quali l’espansione del commercio elettronico e l’aumento della produttività del lavoro) fa lievitare anche i prezzi di beni e servizi.

Se vogliamo citarne un’altra eccola: l’aggressiva politica fiscale americana (che mi aspetto venga imitata quantomeno dal Regno Unito) può portare a un maggior debito pubblico da finanziare e alla necessità di collocare un maggior volume di titoli di stato, creando le premesse perché i rendimenti (cioè i tassi a lungo termine) crescano. E data la citata forte correlazione fra gli andamenti delle diverse “asset class”, se i corsi dei titoli a reddito fisso scendono, è probabile che anche quelli dei titoli azionari facciano lo stesso.

Tra l’altro sul mercato finanziario americano da tempo i rendimenti dei titoli obbligazionari hanno oramai superato quelli dei titoli azionari, rendendo ingiustificata la scelta di acquisire attività più rischiose se non ci si può attendere da queste ultime un miglior rendimento. Si veda in proposito il grafico che segue (che tuttavia si ferma al 31.12.2017 mentre oggi il Treasury Bond decennale è tornato al 2,85%):


Ma fino ad oggi altre variabili fondamentali hanno prevenuto un generale “sell-off” (svendita) delle azioni, nonostante le quotazioni stellari e la tentazione di realizzare i profitti accumulati. Quelle ragioni sono state il forte differenziale tra i loro fantastici rendimenti (anche a causa dei crescenti profitti aziendali) e quelli a zero dei titoli a reddito fisso e la grande liquidità in circolazione. Due fattori che, come abbiamo visto, in prospettiva dovrebbero venire meno.

È questo dunque il motivo per il quale ci si aspetta che prima o poi una correzione delle borse faccia breccia sull’eccesso di ottimismo dei mercati riportandoli a un maggior equilibrio e, sebbene sia difficile che essa si trasformi in un crollo generalizzato, bisogna ricordarsi che oltre i due terzi di tutti gli scambi in borsa sono provocati dai “trading systems”, cioè dalle transazioni computerizzate. Queste ultime potrebbero portare ad automatismi che rischiano di autoalimentarsi.

LE RAGIONI DELL’OTTIMISMO

Ma bisogna fare i conti con almeno un altro paio di fattori: la psicologia umana e l’espansione globale dell’economia (vale a dire: l’emersione verso gli standard occidentali dei numerosi paesi emergenti rimasti fino a ieri ai margini della vita civile).

Partiamo da quest’ultimo: la congiuntura favorevole di dollaro basso e materie prime in ripresa sta aiutando non poco gli investimenti infrastrutturali in quei paesi. Non dimentichiamo che appartengono a tale categoria buona parte delle nazioni del mondo e che persino larghe porzioni di popolazioni di Cina e India (la prima è la nuova superpotenza economica mondiale, la seconda si avvia ad esserlo) vivono sotto la ”soglia della povertà”, mentre molti paesi africani e una parte del resto dell’Asia restano a tutti gli effetti “in via di sviluppo” per usare un eufemismo caro ai burocrati delle organizzazioni sovranazionali.


Ebbene la crescita economica sta tirando soprattutto in quei luoghi, sebbene arrivino a beneficiarne anche e soprattutto i paesi più industrializzati che vi esportano macchinari, tecnologie, costruzioni e beni di consumo.

In assenza di nuovi conflitti bellici, di nuove sanzioni indiscriminate, di nuove svalutazioni selvagge, questo fenomeno è destinato a durare, e a portare benefici anche alle grandi corporation quotate alle principali borse mondiali, favorendo la crescita dei loro profitti, attesi per il 2018 in espansione del 12%, cioè tre volte la crescita economica globale.


Ma anche la psicologia può giocare un ruolo importante, sebbene più effimero: oggi i media di tutto il mondo continuano a celebrare una nuova era tecnologica digitale, l’espansione dell’e-commerce, la diffusione della conoscenza e delle scienze, il trionfo delle energie da fonti rinnovabili e in definitiva la maggior sostenibilità ambientale dello sviluppo industriale. Non hanno torto ma sicuramente hanno contribuito alla narrazione di un mondo migliore che sta favoriscegli investimenti e, con essi, la vera crescita economica. Le aspettative -si sa- giocano comunque un ruolo fondamentale in economia. Anche questo fattore porta a pensare che le borse non crolleranno d’un tratto, che l’attuale sistema economico non imploderà tanto facilmente e che l’istinto irrefrenabile degli economisti di ogni epoca di predicare prossimi disastri questa volta non avrà la meglio.

CONCLUSIONI

Difficile perciò che la crisi del 2008 possa ripetersi nel 2018, soprattutto sintantoché il mondo intero continuerà ad arricchirsi. Ma l’investitore medio qualche pausa di riflessione potrebbe anche prendersela, a maggior ragione sintantoché non arriveranno maggiori conferme alle rosee aspettative che supportano le attuali quotazioni stellari.

Stefano di Tommaso