IN BORSA ARRIVANO I “DISTINGUO”

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Sebbene dopo qualche importante sussulto ci si possa attendere dei possibili rimbalzi, i mercati azionari sono chiaramente ancora sotto choc, soprattutto per il timore di una guerra potenzialmente devastante alle porte dell’Europa. La correzione in atto è stata forte nel corso di gennaio e rischia di continuare, anche per motivi strettamente tecnici (disinvestimenti dei risparmiatori dai fondi comuni, analisi tecnica ancora negativa, possibili ulteriori rialzi dei tassi d’interesse impliciti nei corsi dei titoli obbligazionari).

 

PERCHÉ LE BANCHE CENTRALI POTREBBERO SBAGLIARE

Ma in realtà c’è almeno un altro motivo che può portare ancora scompiglio sui listini azionari, ed è il pericolo che la reazione che le banche centrali possano essere tentare di mostrare i muscoli, di fronte all’oggettivo peggioramento del contesto macroeconomico relativo all’inflazione. Proviamo qui di seguito a comprenderne meglio il perché.

Come si può leggere nel grafico qui riportato, le aspettative del mercato relative ai rialzi dei tassi che verranno praticati dalle banche centrali sono già state più volte aggiornate al rialzo, comportando ogni volta che ciò succedeva una forte delusione per gli investitori e per le borse, con un conseguente “aggiustamento” dei listini azionari al ribasso:

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Dal nostro punto di vista questo significa soltanto una cosa: non è detto che le sorprese siano finite qui. Anche perché il mercato azionario americano, (quello che di solito dà l’intonazione a tutto il resto del mondo) nel corso del 2022 è sceso all’incirca del 7,7%, ciòè più o meno esattamente della misura dell’inflazione dei prezzi al consumo registrata a Gennaio negli USA. Dunque se l’inflazione salirà ancora, anche il listino azionario potrebbe scendere corrispondentemente.

L’INFLAZIONE È ANCORA IN AGGUATO

Ora, dal momento che il principale motore del rialzo dei prezzi è ancora oggi quello dell’energia, e dal momento che quest’ultimo sta continuando a salire vertiginosamente (il prezzo del petrolio è arrivato a 100 dollari al barile), ecco che il meccanismo sopra illustrato appare quantomai possibile, se non addirittura probabile. Con la conseguenza che nel grafico di cui sopra potremmo arrivare a marcare l’ennesima linea aggiuntiva, più in alto delle precedenti, che rispecchi l’innalzamento delle aspettative del mercato per i rialzi dei tassi d’interesse. I mercati azionari potrebbero ancora una volta subire una cocente delusione proprio da ulteriori prospettive di rialzo dei tassi d’interesse.

D’altra parte le banche centrali di tutto il mondo sono oggettivamente state fin troppo accomodanti sino ad oggi, e forse anche per un buon motivo (evitare di provocare recessioni economiche e innalzare il costo dei debiti pubblici). Ma se l’inflazione dovesse rivelarsi ancor più elevata di quella attuale, rischiano di perdere la faccia nel continuare a sostenere che sia passeggera. Cosa che le potrebbe sospingere a rivedere i tassi di sconto più al rialzo di quanto già annunciato.

Resto convinto del fatto che ciò si rivelerebbe nel tempo come un errore, non perché l’inflazione che osserviamo non permarrà davvero a lungo, ma a causa del fatto che il maggior costo del denaro potrebbe a sua volta generare altri problemi all’economia, rallentando gli investimenti produttivi e mandando definitivamente in crisi le aziende più indebitate, le piccole imprese e molti lavoratori autonomi. Il mondo occidentale oggi resta troppo appesantito dai debiti per permettersi di combattere l’inflazione a suon di rialzi dei tassi d’interesse, come poteva avvenire fino a mezzo secolo fa.

E I TASSI HANNO GIÀ INIZIATO A CRESCERE

Ciò nonostante i mercati finanziari hanno ovunque anticipato le possibili mosse delle banche centrali, e i rendimenti impliciti dei titoli a reddito fisso sono comunque saliti. Quindi da un certo punto di vista le sole dichiarazioni di intenzione futura delle banche centrali hanno già ottenuto la cosiddetta “forward guidance” del mercato. Eventuali eccessi in tal senso potrebbero non aiutarne la credibilità.

Ma vediamo cosa ha significato sino ad oggi questa ondata di ribassi che hanno afflitto le borse dall’inizio dell’anno: il doppio grafico qui sotto riportato mostra l’attesa più diffusa sul mercato relativa alla fine prossima ventura della correzione al ribasso a Wall Street, insieme al probabile andamento al rialzo dei profitti aziendali, che al momento sono infatti ancora in crescita.

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Personalmente concordo abbastanza con questa visione a medio termine dei mercati azionari, per una lunga serie di motivi, a partire da quello maggiore: è piuttosto improbabile che si scateni davvero un conflitto armato in Ucraina. Ovviamente ulteriori revisioni al rialzo dei tassi potrebbero porre fine all’aspettativa di crescita dei profitti, e cancellare così anche le prospettive di un rimbalzo.

MA COMUNQUE NON ANDREBBE BENE PER TUTTI…

Tuttavia anche in caso contrario l’andamento potenziale dell’indice generale non deve ingannare l’investitore: rischiamo che rispecchi la media del pollo di Trilussa !

È probabile infatti che al momento alcuni settori industriali continueranno a salire (energia e immobiliare, ad esempio) e altri continueranno a scendere (come ad esempio banche, tecnologia e telecomunicazioni). Altre sorprese potrebbero inoltre provenire da settori sino a oggi considerati “sicuri”, come il farmaceutico e la sanità, a causa del fatto che la spesa sanitaria non può continuare a crescere all’infinito e che, viceversa, i consumi potrebbero tornare ad orientarsi maggiormente verso i beni di consumo durevole e la formazione.

Tra le imprese quotate poi l’accentuarsi dei problemi relativi ai mercati finanziari potrebbe determinare un ennesimo “volo verso la qualità” dei gestori di patrimoni, arrivando a penalizzare le quotazioni delle imprese minori, meno capaci di contrastare il momento difficile con ingenti investimenti, e a valorizzare invece le grandi multinazionali.

QUALI SETTORI E PERCHÉ

Ovviamente non ci sono certezze al riguardo di quali titoli risulteranno davvero premiati e quali penalizzati, ma è abbastanza chiaro che i gestori di patrimoni dovranno fare i conti con una serie di fattori che li costringeranno a fare una maggior selezione, quali:

  • l’elevatissima volatilità, che spinge a cercare imprese con una più bassa probabilità di oscillazione rispetto al resto del mercato;
  • ancora una elevata liquidità in circolazione, che li spinge a tornare a investire cercando però soltanto vere occasioni di investimento (e dunque nelle aree più sicure del mercato);
  • un contesto di tassi d’interesse crescenti ma ancora al di sotto del tasso di inflazione, che spinge a cercare opportunità tra le più resilienti a questo fenomeno, come ad esempio gli investimenti immobiliari, abbandonando invece quelle più esposte ai tassi reali negativi, come i titoli del settore finanziario.

Sebbene dunque il contesto attuale resti piuttosto incerto per gli investitori e anche se l’investimento azionario, in tale congiuntura, possa rimanere di gran lunga il favorito rispetto ad altre opportunità di impiego dei risparmi, la situazione oggi si fa più difficile per determinare dove andrà il livello medio dei listini.

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Che arrivi una guerra o meno, che si decidano ulteriori strette monetarie oppure no. Duole dirlo, perché eravamo rimasti ottimisti nonostante si potesse intravedere un incremento della volatilità. Ma se le banche centrali dovessero cambiare atteggiamento, allora nessuno se la sentirebbe di andare controcorrente!

Stefano di Tommaso

 




LO SCENARIO ECONOMICO SI CAPOVOLGE

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E’ in atto un profondo cambiamento nel corso del ciclo economico: non soltanto a questo punto dell’anno tutti si rendono conto del fatto che l’inflazione che abbiamo registrato fino ad oggi (in Europa al 5% circa) può significativamente peggiorare man mano che gli aumenti dei costi dell’energia, dei componenti elettronici e delle materie prime si trasmettono a valle sui prodotti finiti. E nessuno sa bene quanto l’iper-inflazione in arrivo potrà devastare i conti aziendali così come i risparmi dei privati cittadini. Ma c’è dell’altro: persino la ripresa economica, nell’anno che avrebbe dovuto sancire il ritorno ai livelli pre-covid invece scricchiola! Cosa sta succedendo, e perché?

 

L’EUROPA NON CORRE

Iniziamo dall’andamento della Germania, che è stato negativo per tutta la seconda parte del 2021: poiché essa resta ugualmente il motore economico dell’euro-zona, allora è ancora più grave il fatto che sta entrando in piena recessione. Se infatti anche nel trimestre in corso mostrerà un andamento negativo, allora sarà tecnicamente la volta buona che lo si potrà affermare senza tema di smentita.

I motivi della recessione tedesca sono molti, ma la tendenza sembra inesorabile: dalla crisi delle forniture di semiconduttori, microchip, materie prime ed energia, al calo dei consumi dovuto alle restrizioni ai viaggi, al turismo e allo svago imposte dalla pandemia che continua a strisciare. Il risultato però è notevole: tutta l’ Europa sta pagando a caro prezzo tanto il Covid quanto la crisi geopolitica ed energetica.

L’ITALIA POTREBBE SEGUIRE LA GERMANIA

L’Italia, bisogna darne atto, sino ad oggi sembra aver viaggiato decisamente meglio. Ma nella buona sostanza le cose non vanno nemmeno da noi, e per una serie di motivi:

  • intanto a casa nostra il debito pubblico scricchiola più del Prodotto Interno Lordo (PIL) e quindi il rialzo dei tassi d’interesse (dato oramai per scontato) infliggerà al nostro paese una tassa micidiale che può azzoppare l’economia peggio della penuria di semiconduttori che rovina i conti dell’industria automobilistica franco-tedesca;
  • poi il nostro Paese vanta sì la seconda macchina industriale d’Europa (dopo la Germania e prima della Francia) ma non può vantare alcuna capacità di produrre in casa l’energia che servirebbe per farla funzionare! E’ come se avessimo in garage una vettura formula 1 ma avessimo forti condizionalità sulla benzina che serve per farla girare in pista. La Francia invece ha attivi 58 reattori nucleari, in 19 centrali, che volendo potrebbero quasi soddisfare l’intero Paese. La Germania ha i giacimenti di carbone ed è il punto di arrivo di un gasdotto del nord (il “North Stream”) che la Russia ha costruito apposta per lei. Noi avremmo il gas che arriva dall’Africa, ma non basta. Avremmo anche i giacimenti ma siamo il Paese di Tafazzi, tanto che ci siamo inventati lo stop alle trivelle, così da rendere impossibile andarlo ad estrarre. Morale: i conti delle imprese si apprestano ad essere profondamente affossati;
  • inoltre buona parte dei nostri distretti industriali sono fornitori o sub-fornitori delle grandi industrie europee, molte delle quali direttamente o indirettamente legate al mondo dell’auto (come Stellantis, WW, Bosch, Siemens, eccetera…) impiantistica compresa. Ma il settore “automotive” è in piena transizione e le sue fabbriche sono in ristrutturazione. Dunque è probabilmente soltanto questione di tempo perché anche le nostre esportazioni inizino a zoppicare. Cioè se Sparta piange allora Atene non ride;
  • infine per esprimere ottimismo sul nostro andamento economico non si può non guardare all’altro grande fattore che la fa girare: il denaro (cioè la liquidità). E quest’ultimo da noi non solo ha sempre scarseggiato, ma oggi più che mai ne gira assai poco nelle tasche della gente. L’Italia è in perenne deflazione salariale, le banche erogano sempre meno prestiti, le imprese investono poco persino dei profitti accumulati, lo Stato ancor meno, i risparmiatori comprano principalmente titoli esteri e la borsa italiana è oramai una filiale di quella francese! E se da noi non girano quattrini, le imprese più deboli rischiano di saltare e quelle che vanno bene rischiano di emigrare.
  • La statistica riportata nell’unica tabella che sono riuscito a trovare online è oramai completamente superata! La crescita prevista per il 2022 è da limare o addirittura da invertire per buona parte dell’Eurozona:

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In contemporanea per l’Italia arrivano anche diverse cattive notizie per l’occupazione: per gli stessi motivi visti più sopra per i quali l’industria tedesca va in crisi, anche molti stabilimenti controllati da gruppi stranieri nel nostro Paese stanno chiudendo i rubinetti. Il gruppo Bosch ad esempio ha annunciato 700 esuberi nello stabilimento di Bari nei prossimi cinque anni (un dimezzamento dei suoi attuali 1.700 addetti), la Magneti Marelli invece vuol tagliare 550 ”indiretti!” (dirigenti, impiegati e operai non addetti alla produzione). E vuole farlo entro Giugno. Come detto le ragioni risiedono nelle perdite determinate dai costi fuori controllo e dalla debolezza della domanda. Ma anche a causa di una troppo rapida transizione verso l’auto elettrica, che sta schiacciando tutta l’industria che lavora a monte di quella automobilistica, molto diffusa in Italia.

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Purtroppo a contrastare problemi come questi servirebbe una politica industriale nazionale ben più decisa, che nemmeno il governo Draghi ha mai varato, nonostante sia riuscito a gestire bene il rapporto con l’Europa per varare il PNRR e ottenere i 209 miliardi dei Recovery Fund. Il suo governo però non può permettersi di proseguire a contrastare i problemi della popolazione a colpi di deficit di bilancio.

E LA BCE NON AIUTERÀ

Servirebbe una maggior solidarietà della Banca Centrale Europea (BCE) nel gestire lo stock di debito pubblico italiano, mentre quest’ultima invece ha già annunciato dalla primavera un drastico taglio agli acquisti dei nostri BTP. Dunque il governo Draghi dovrà mostrare molto rigore per essere ascoltato a Bruxelles. Con il rischio di logorarsi politicamente e arrivare lacerato alla vigilia delle elezioni politiche.

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Ma se lo spread tra il BTP italiano e il Bund tedesco sta peggiorando anche perché dipende quasi totalmente da quello che decide la BCE a Francoforte, ecco che nemmeno Draghi può permettersi il lusso di andare a protestare contro le follie imposte dall’agenda ecologista della Commissione Europea. Anzi! Il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) è in arrivo e, con esso, di fatto una sorta di commissariamento dei conti italiani.

MENTRE IL DOLLARO SI RIVALUTA

La ciliegina sulla torta è poi la cavalcata del Dollaro americano, più o meno inevitabile visto che la BCE tutto sommato fa il nostro interesse a tenere i tassi più bassi che oltreoceano. Inevitabile anche perché l’America (che ha tutta l’energia che vuole e che non vede l’ora di esportarla a caro prezzo) farà di tutto per combattere in casa propria l’inflazione prima delle elezioni di medio termine.

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Con l’effetto che, con il caro-Dollaro, salirà ulteriormente per noi anche il costo delle materie prime (gas e petrolio compresi) e, di conseguenza, ancora una volta: l’inflazione. Con buona pace per le previsioni di un allentamento nell’anno in corso. E il rischio che presto il rincaro dei prezzi al consumo arrivi ad essere più forte di quà che di là dall’oceano!

Insomma quello che sembra vedersi all’orizzonte della prossima stagione, è una situazione economica globale da ”guerra del Kippur” del 1973, con tutto quello che ciò può significare per l’inflazione galoppante, ma senza che il nostro Paese possa opporre al caro-energia l’arma più usata in quegli anni per favorire l’industria nazionale: quella delle svalutazioni competitive. Oggi l’Italia non ha più il controllo della propria moneta e non può che subire una politica monetaria comunitaria fatta molto più su misura dell’industria tedesca che di quella domestica.

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L’esperienza delle crisi petrolifere degli anni Settanta ha peraltro insegnato alle banche centrali che l’inflazione provocata dalle difficoltà dell’offerta va sostanzialmente ignorata e non combattuta frenando la domanda. Dunque fa bene la BCE a dichiarare di non voler rialzare i tassi, ma fino a quale punto i popoli del nord-Europa accetteranno supinamente la svalutazione dell’Euro? E fino a quale punto accetteranno di sostenere i debiti pubblici dei paesi periferici dell’Unione? La domanda è lecita ma la risposta non c’è…

L’UNIONE EUROPEA AFFRONTA GLI ESAMI DI MATURITÀ

E’ per questi dubbi che l’anno appena iniziato si appresta ad essere una prova generale per la “vera” unione dei Paesi d’Europa che hanno aderito alla moneta unica: alle complessità della geo-politica, dell’inflazione e del ciclo economico che sta arrivando a ribaltarsi, essi vedranno sommarsi anche le tensioni tra i Paesi del nord Europa (i cosiddetti Paesi Frugali, più o meno corrispondenti a quelli della Lega Anseatica) e quelli del sud. Col rischio che possano decidere di prendere le distanze dalle politiche comunitarie annunciate sino a ieri.

Quando il cibo a tavola finisce, insomma, il rischio è quello che volino anche i piatti tra i commensali! Ciò che possiamo sperare è dunque che la recessione in probabile arrivo in Europa non sia completamente sincrona col resto del mondo (cioè con i paesi asiatici e quelli emergenti). E, per questa via, possano continuare a correre le nostre esportazioni. Soprattutto se la stabilità e la rinnovata autorevolezza delle nostre istituzioni riusciranno ad attirare risorse per il mercato dei capitali (o a farne fuggire meno).

MA LE BORSE POTREBBERO RESTARE POSITIVE

Per questi motivi è forse lecito attendersi per la prima parte del 2022 in Europa un completo sfasamento tra il ciclo economico e il mercato dei capitali: se l’economia reale farà tutto sommato fatica a correre nel vecchio continente, le borse -che al momento hanno già vissuto uno scrollone piuttosto deciso- con la liquidità sempre alta potrebbero addirittura rivedere miglioramenti per il comparto azionario, così come potrebbero correre le quotazioni dei beni rifugio ( e degli immobili ) a causa dell’inflazione galoppante. Un miglioramento che viceversa è molto più difficile attendersi per i titoli obbligazionari.

Nel grafico de Il Sole 24 Ore qui riportato si può ben vedere che il sodalizio tra le 2 principali “asset class” si è oramai interrotto:

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Ma la volatilità dei mercati finanziari è attesa altresì alle stelle per i prossimi mesi, soprattutto se i cannoni tuoneranno almeno un po’ ai suoi confini orientali. Il che in determinati momenti potrebbe rassomigliare molto ad una crisi dei mercati, anche se in definitiva resta decisamente improbabile che arrivi ad esserlo davvero. Un gioco adeguato soltanto ai fegati forti, dunque! O a chi riesce a diversificare parecchio i propri investimenti!

Stefano di Tommaso




LA POSSIBILE RIVINCITA DELLA BORSA ITALIANA

È solo di un paio di settimane fa la messa sotto osservazione del rating italiano da parte di Fitch, la prima delle agenzie di Rating internazionali ad avere in scadenza la revisione periodica del merito di credito della Repubblica Italiana, e ci sembra di parlare di una precedente era geologica. E risale a poco più di un mese fa il crollo del ponte di Genova e il codazzo infinito di polemiche sulla responsabilità prima e sulle ricostruzioni poi (non solo di quello già caduto).

Allora le (serie) argomentazioni della maggioranza al governo circa la necessità di avviare una stagione di rilancio degli investimenti infrastrutturali e, con essi, anche dell’economia italiana, fecero rabbrividire gli euro-burocrati (già preoccupati per le belligeranti promesse di reddito di cittadinanza e flat tax) sulla tenuta dei conti pubblici. Il risultato di quei giorni fu il rilancio dello spread (tra i rendimenti dei BTP italianai e quelli dei Bund tedeschi) a livelli visti soltanto all’epoca dell’ultimo governo Berlusconi. Anche le stime sulla crescita del nostro P.I.L. sono state riviste al ribasso e oggi ci si aspetta di chiudere l’anno con una crescita dell’1,2%.

Ancora oggi, all’alba della pubblicazione del Documento di Economia e Finanza (DEF) attesa entro il prossimo 27 Settembre, lo spread italiano resta a livelli elevati, ma la situazione sembra -quasi d’un tratto- non fare più paura a nessuno, anzi! È la Germania, non l’Italia, a subìre gli strali dell’amministrazione Trump per il suo comportamento in materia di pressioni sull’Europa e di commercio internazionale, e forse nemmeno del tutto a torto. Mentre è notizia fresca la crisi sistemica delle principali banche tedesche, a sostegno delle quali Angela Merkel avrebbe stanziato altri 100 miliardi di euro.

L’attuale coalizione al governo del Bel Paese, da molti già data per spacciata alla ripresa della pausa estiva, potrebbe invece inanellare una serie di insperati successi già entro le prossime due-tre settimane, complice il rasserenato clima internazionale relativamente a dazi e dogane che giova di sicuro anche alle imprese esportatrici cisalpine. Non solo: il nuovo vertice della Cassa Depositi e Prestiti impersonato dall’amministratore delegato Palermo è al lavoro su un vorticoso piano industriale da presentare entro fine Ottobre che dicono potrà prevedere quasi un centinaio di miliardi di investimenti.

E se, come sembra, le prossime settimane faranno segnare agli indici di borsa una seppur effimera ripresa, anche i timori sul debito italiano e sulla lentezza della crescita dell’economia italiana potrebbero finire per essere spazzati via. Inutile dire che un tale scenario non farebbe che un gran bene alle poco fortunate vicende della borsa italiana, principalmente vittima negli ultimi mesi di un’ingiustificata fuga di capitali dalle banche italiane e dai nostri titoli di stato.

Il giornale Milano Finanza fa notare che da fine Marzo ad oggi è al 6,6% il divario di performance tra il Ftse Mib di Milano e l’indice generale Eurostoxxs 600 (al +2,7%) che peraltro comprende anche Milano (-3,9%); dunque le altre azioni europee hanno fatto anche meglio. Il medesimo indice europeo ha a sua volta accumulato un divario di performance con Wall Street (indice SP500) dell’8,6%, dal momento che nello stesso periodo quest’ultima è cresciuta dell’11,3%. Perciò Milano è rimasta indietro di oltre il 15% rispetto a New York in meno di 6 mesi. La fuga dall’Italia ha colpito soprattutto le banche nazionali, con il Ftse Banks Italia, sceso nel medesimo periodo del 13,6% contro il 3,9% complessivo di Milano.

Ma questo è anche il motivo per il quale si è creata l’opportunità di un arbitraggio sul azioni italiane, vittima sino a ieri di timori sulla salute economica dell’intero Paese e che oggi potrebbero beneficiare della migliorata congiuntura. Le attese degli analisti (e l’attuale misura dello Spread, oggi intorno a 230 centesimi di punti percentuali) sono infatti incentrate su un deficit dei conti pubblici programmato dal ministro Tria per il DEF del 2019 pari al 2,3%. Secondo un rapporto di UBS ogni frazione di punto migliorativa rispetto a quel numero potrebbe innescare una pari discesa dello Spread e la forte ripresa dell’ottimismo sui titoli italiani, i quali potrebbero beneficiare anche del rinnovato ottimismo a livello internazionale. Addirittura secondo Pictet la borsa italiana potrebbe recuperare il suo “gap” con il resto d’Europa già solo se il DEF dovesse parlare del 2%.

Ovviamente parliamo di fine Settembre-inizio di Ottobre, nel momento di massima intensità della campagna elettorale americana. Su quello che succederà poi non vi sono meno che meno certezze. In particolare con la settimana del 6 Novembre (giorno delle votazioni di medio termine) potrebbe terminare l’idillio di Wall Street con il presidente Trump e, di conseguenza, anche le altre borse valori potrebbero risentirne. Non solo, ma anche la revisione del rating sulla Repubblica Italiana è atteso per fine Ottobre da parte di Stanndard&Poor il 26 e Moody’s entro la settimana successiva.

In quei giorni tutto sarà possibile..!

Stefano di Tommaso




LA LOCOMOTIVA AMERICANA TORNA A TRAINARE IL RESTO DEL MONDO

Chi aveva previsto negli Stati Uniti d’America un ciclo economico positivo alle sue ultime battute come minimo ha sbagliato i tempi ! Il secondo trimestre del 2018 segna per l’amministrazione Trump un clamoroso successo in termini di crescita economica (+4,1%) disoccupazione (ai minimi da 17 anni), investimenti (cresciuti al tasso annuo del 7,3% dopo essere aumentati dell’11,5% nei primi tre mesi del 2018) ed esportazioni (+9,3%). Per non parlare poi dei consumi, saliti quasi altrettanto (3,9%), con un’inflazione che invece non si infiamma (ritornata al 2% dal 2,2% precedente) nonostante l’incremento dei salari e dei risparmi.

 

La crescita economica del primo semestre era un dato cruciale per il governo americano dal momento che i critici del drastico taglio delle tasse sancito a fine 2017 scommettevano che non avrebbe fatto altro che favorire le classi più agiate, incidendo poco o nulla sull’economia reale. Il clamoroso successo riportato a proposito dello sviluppo economico controbilancia invece le numerose critiche giunte da tutto il mondo a proposito della modalità aggressiva con la quale il governo americano sta cercando di sostituire i precedenti accordi commerciali con il resto del mondo, giudicati sfavorevoli e rischiosi di portare il commercio mondiale alla paralisi a causa delle guerre tariffarie.

ANCORA AMPIO IL DIVARIO TRA RICCHI E POVERI

In realtà il divario tra classi agiate e classi povere resta molto ampio in America: il taglio fiscale non ha certo favorito direttamente la la ricchezza di queste ultime, ma la forte ripresa dell’occupazione conseguente alla ripresa degli investimenti produttivi ha ravvivato la loro speranza di una forte crescita economica che alla fine arrivi a migliorare il tenore di vita dell’uomo della strada. La scommessa di Trump è perciò quella vederla continuare per di creare le basi per un incremento del gettito fiscale complessivo più di quanto il taglio delle tasse lo riduca.

Ora che i numeri appaiono confortanti gli occhi sono però puntati alle prospettive dell’intero anno 2018 perché l’obiettivo di Trump va raggiunto in fretta: se la tendenza al rialzo del Prodotto Interno Lordo (P.I.L.) si confermerà e le aspettative di molti operatori economici di entrare presto in recessione saranno rimandate a data da destinarsi, allora è più probabile che le elezioni di medio termine che si terranno in autunno in America non risultino nella disfatta che i più ancora temono per il partito del Presidente.

IL RILANCIO DEGLI INVESTIMENTI INFRASTRUTTURALI

Il termometro politico americano interessa anche tutto il resto del mondo perché il prossimo passo dell’amministrazione Trump è (come da programma) quello di favorire il rilancio degli investimenti infrastrutturali, cosa difficile da realizzare mentre si espande il deficit di bilancio, a meno di non mantenere una forte maggioranza al Congresso. Ed è evidente che se ciò fosse, la riuscita della manovra risulterebbe più probabile, ponendo le basi per ulteriori stimoli all’economia reale.

Per quale motivo ciò interessa tutto il resto del mondo? Perché la crescita dei consumi americani (dall’alto di un P.I.L. che ha superato i ventimila miliardi di dollari) è ancora oggi il primo traino delle esportazioni di beni di consumo prodotti in Asia, la cui dinamica è a sua volta essenziale per le esportazioni europee di impianti, macchinari e beni di lusso. E se l’America dovesse riuscire a rilanciare i grandi progetti infrastrutturali promessi da Trump in campagna elettorale, allora anche le esportazioni europee ne beneficerebbero.

 

In realtà gli investimenti infrastrutturali in America sono principalmente finanziati cn capitali privati e stanno già decollando approfittando dei tassi bassi e della forte liquidità in circolazione: +13,3% nell’ultimo trimestre e +13,9% in quello precedente! Dunque l’effetto-traino della locomotiva americana c’è già, e non è indifferente!

Rimane invece debole l’andamento delle costruzioni residenziali (-1,1%), sintomo del fatto che il maggior benessere non ha ancora raggiunto le classi più povere della popolazione.

Quest’ultimo dato (quello della capacità di spesa della popolazione) è infatti al tempo stesso il più sensibile dal punto di vista del consenso politico del Presidente ma anche il meno scintillante della serie, dal momento che il reddito medio famigliare, dopo l’inflazione, è cresciuto nell’ultimo trimestre “soltanto” del 3,9%, contro il 3,6% di quello precedente, mentre il tasso di risparmio è cresciuto del 6,8%, in lieve calo rispetto al 7,2% precedente.

Neanche a dirlo, con tali numeri noi Italiani ci leccheremmo i baffi..!

Stefano di Tommaso