L’ITALIA CORRE, MA LO SPREAD SALE

La Compagnia Holding
Non sono bastate le ottime notizie sulla ripresa della produzione industriale e dell’export nazionale per tranquillizzare i mercati finanziari sulle sorti dell’Italia: mentre l’export italiano continua a correre più di quello tedesco e degli altri paesi europei, la congiuntura internazionale potrebbe invece giocarci un brutto scherzo, soprattutto se le banche centrali andranno a concretizzare la ventilata riduzione di acquisti di titoli sul mercato, tra i quali quelli italiani. Lo spread sale poi anche per un altro motivo: la più che probabile -a questo punto- risalita dei tassi d’interesse che induce anch’essa forti timori sulla sostenibilità del debito pubblico Italiano.

 

PREMESSA: IN ITALIA IL PIL CORRE PIÙ CHE ALTROVE

Nel terzo trimestre 2021 il PIL italiano è cresciuto del 2,6% in termini assoluti sul trimestre precedente (un dato che, se fosse annualizzato, indicherebbe una crescita a doppia cifra per il nostro paese. Tenendo conto però della minor crescita registrata all’inizio dell’anno e di quella -più tenue- prevista per il quarto trimestre, è già un ottimo risultato il fatto che esso sia salito nel complesso di circa il 4% dall’inizio dell’anno, che in termini annualizzati corrisponde ad una crescita del 6,1%. Un dato che a fine 2021 potrebbe addirittura migliorare.

Insomma un ottimo risultato, se confrontato con quello europeo (+2,2% rispetto al trimestre precedente) e con quello tedesco (soltanto +1,8% rispetto al trimestre precedente). Se tutto va bene potremmo chiudere il 2021 poco sotto il valore del PIL del 2019 (di circa l’1,4%, mentre la Spagna resta a meno 6,6%) mentre la zona Euro è in media sotto al risultato 2019 soltanto dello 0,5%. La Francia è invece già tornata in pari a fine Settembre. Nel confronto con il resto del mondo invece l’intera Area Euro tende a sbiadire: il Fondo Monetario Internazionale (FMI) prevede infatti per l’economia americana una crescita del 7% sull’anno precedente (e per quella globale del 6%).

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MA SPREAD E INFLAZIONE MORDONO

Insomma sale per il nostro paese il Prodotto Interno Lordo (PIL) più che nel resto d’Europa, ma cresce anche lo spread, arrivato a 131 punti percentuali e, con esso, le preoccupazioni che i capitali scarseggeranno sulle piazze finanziarie italiane. La preoccupazione riguarda infatti anche la possibilità che il PIL possa proseguire la sua corsa, e superare di slancio tanto l’incremento dell’inflazione, che ha raggiunto -per le statistiche ufficiali- il 4,1% nell’Eurozona quanto lo spiazzamento delle imprese private che deriva dall’ingombrante presenza della macchina pubblica, finanziata da una tassazione da record tanto per il mondo quanto per la storia.

C’è da dire che nella medesima Eurozona l’inflazione al 4,1% è il dato più alto da 13 anni (e a quell’epoca il petrolio raggiunse i 146 dollari/barile) mentre in America l‘inflazione è giunta al 4,4% ufficiale (è doveroso segnalarlo perché le statistiche ufficiali sono sempre “ammaestrate”) ed è la rilevazione più alta da 30 anni a questa parte. Per non parlare degli indici dei prezzi all’ingrosso, che rivelano molto meglio l’andamento reale dei prezzi dei “fattori di produzione” e che sono tutti oltre la doppia cifra! In Germania l’ultima rilevazione (Settembre) parla di un +13%, ma in Spagna siamo arrivati addirittura al +23%.

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L’incremento dell’inflazione (soprattutto di quella vera, quella non addolcita dai metodi statistici) ha mobilitato l’attenzione degli osservatori sui cambi valute e sull’atteggiamento delle banche centrali. Nel mondo queste si sono allineate su due poli contrapposti: sono rimaste in attesa di osservare lo sviluppo degli eventi e non hanno alzato i tassi quelle dei paesi più sviluppati: area Euro, zona Dollaro (che comprende anche quello canadese e quello australiano) e Giappone. Altrove le banche centrali sono invece dovute intervenire invece con decisione, rompendo gli indugi e somministrando rialzi di tassi a dosi da cavallo: a partire dalla Banca d’Inghilterra, e a proseguire con le banche centrali di Cina, Brasile, Russia, Nuova Zelanda, Turchia, eccetera. Tanto per il rischio di deriva sfavorevole nel cambio della propria valuta (ad esempio la Turchia) quanto per la necessità cercare di frenare per tempo la deriva inflazionistica.

IL DILEMMA

Potremmo dedurne che sia soltanto questione di tempo: la stretta monetaria si estenderà anche alle aree più forti, e in parte avremmo ragione. Il dilemma tuttavia resta: se la crescita economica si è ridotta quasi a zero (tanto l’America quanto la Cina hanno visto nell’ultimo trimestre un PIL cresciuto soltanto dello 0,2% sul secondo trimestre dell’anno) quale banca centrale vorrà prendersi la responsabilità di portare il proprio paese in recessione (alzando i tassi) pur di combattere l’inflazione?

Morale: fino ad oggi sono intervenute al rialzo dei tassi soltanto le banche centrali che temevano di più una svalutazione della propria moneta. Le altre stanno ancora aspettando di studiare meglio la situazione, consce del fatto che gli strumenti a loro disposizione sono assai limitati. Siamo infatti quasi giunti alla cosiddetta “trappola della liquidità”, nell’ambito della quale gli strumenti di politica monetaria risultano per definizione poco efficaci. Anche perché di liquidità abbiamo affogato il mondo.

Ovviamente dipenderà molto da quel che succede in seguito: se l’economia continuerà a rallentare magari l’inflazione frenerà la sua corsa e non ci sarà bisogno di rialzare i tassi d’interesse. Ma è d’altro canto relativamente improbabile che l’inflazione si fermi ai livelli attuali (a prescindere dalla crescita economica ) vista la strozzatura nella produzione industriale e il disallineamento tra domanda e offerta di beni e servizi. È in atto infatti un travaso dell’aumento dei prezzi alla produzione verso quelli al consumo, che hanno goduto sino ad oggi di parecchia vischiosità.

COSA SUCCEDERÀ

Dunque si può soltanto sperare che il rallentamento della crescita economica possa essere temporaneo, e che la crescita economica globale prevista dal FMI venga confermata. Se succederà questo spingerà gli investimenti produttivi e riaprirà i rubinetti della produzione, sebbene al tempo stesso ciò rilancerà il prezzo dell’energia e tornerà ad amplificare i timori sulle emissioni dannose per il clima. Ecco perché sono prevedibili ulteriori apprezzamenti dei titoli industriali, finanziari e tecnologici. Così come sono prevedibili aumenti generalizzati dei tassi d’interesse e del costo dell’energia.

La Compagnia Holding
Per il nostro paese la situazione potrebbe rimanere sotto controllo sotto il profilo dello spread, soprattutto se l’ export italiano continuerà a correre più di quello d’oltralpe. La presenza di una governo molto autorevole può aiutare non poco in questo senso ed è anche il motivo per il quale appare improbabile che Draghi possa passare velocemente al Quirinale. Ma sappiamo bene che la politica italiana è intrinsecamente instabile e quel che possiamo pensare oggi non è così scontato che si manterrà valido anche nei prossimi mesi.

Certo un lungo periodo di “normalizzazione” economica targata Mario Draghi potrebbe ristabilire un equilibrio tra l’Italia e il resto d’Europa e potrebbe anche gemmare nuovi risultati in termini di riduzione della tassazione e degli sprechi, di moralizzazione della macchina pubblica e di riforma generale della pubblica amministrazione. Uno scenario idilliaco, in cui lo spread dovrebbe restare basso e il debito pubblico sotto controllo.

L’Italia però dipende fortemente dal proprio costo dell’energia ed è un grande importatore di materie prime e semilavorati. L’inflazione dunque non tarderà a mordere anche l’industria e i consumi discrezionali, facendo tornare a salire il prezzo degli immobili e rilanciando le tensioni sindacali. Solo una migliore armonizzazione dell’Unione Europea potrà dunque sortire effetti di lungo termine da una maggior autorevolezza dei nostri governanti. Se invece i “paesi frugali” continueranno a fare capricci e la Commissione Europea continuerà a obbedire soltanto alla politica degli egemoni, allora le tensioni centrifughe riprenderanno, le manifestazioni di scontento si moltiplicheranno e l’attuale maggioranza di governo si spaccherà. E in tal caso lo spread tornerà alle stelle e probabilmente il debito pubblico andrà in tensione.

Stefano di Tommaso




IL CICLO ECONOMICO SI INDEBOLISCE

Una rondine, si dice, non fa primavera. Il calendario però, per quanto possa non corrispondere esattamente al tempo meteorologico, alla fine non è mai smentito. Parallelamente, è sempre un esercizio difficile tradurre in previsioni univoche i segnali che arrivano dai vari quadranti del cruscotto dell’economista, però due fattori possono aiutare in tal senso: il calendario, che ci dice che il ciclo economico sta durando fin troppo rispetto a quelli che lo hanno preceduto, e il fatto che le rondini in circolazione (i segnali di allarme) iniziano a moltiplicarsi.

 

Eppure l’ottimismo che emana dal recente rapporto del Fondo Monetario Internazionale sullo stato di salute dell’economia mondiale non può essere del tutto ignorato. Sono passati soltanto due anni da quando la crescita del prodotto interno lordo dei paesi emergenti (e di quelli più malmessi, come il nostro) ha finalmente iniziato a sincronizzarsi con quella delle economie più sviluppate. Questa congiuntura ha generato una delle maggiori espansioni dell’economia globale che si ricordi da un decennio a questa parte (circa il 4% nel 2017, a seconda che la si calcoli in dollari o in altra valuta) e, sebbene per molti versi sia in attenuazione, il fenomeno è ancora in atto.


Addirittura l’anno in corso potrebbe riservare ancora sorprese positive dal momento che il commercio internazionale, nonostante le tariffe e le minaccealla pace nel mondo, sta ancora crescendo. Tuttavia diversi elementi ci dicono inequivocabilmente che il clima economico generale è sta mutando in peggio. Nel grafico che segue si vede come la flessione della crescita del prodotto interno lordo, misurata per trimestri, è più accentuata in America e in Giappone, ma c’è anche per l’Europa:


Nel mese di Aprile inoltre le divise monetarie battute da diverse economie emergenti hanno subito importanti svalutazioni nei confronti del Dollaro (che si è apprezzato un po’ ovunque): il rublo della Federazione Russa è sceso di circa il 10%, il Real brasiliano di quasi il 6%, il Rand del Sud Africa di oltre il 5% e il Peso messicano del 3%. Di seguito una panoramica del cambio contro Dollaro di Euro, Yen, Sterlina e Dollaro Canadese:


Nello scorso mese di Aprile l’inflazione -pur sempre assai moderata- sembra aver superato il 2% negli Stati Uniti d’America, dove non passa giorno che la Federal Reserve non ne verifichi il livello per decidere sulla risalita dei tassi di interesse. In Europa l’inflazione è in media decisamente più bassa, ma bisogna ricordare che gli stimoli monetari europei, oltre che ancora in essere, sono anche molto più recenti. Dunque è più indietro anche il ciclo del credito.

Proprio dalla zona geografica che ha adottato l’Euro quale divisa unica tuttavia arrivano i segnali più preoccupanti di rallentamento dello sviluppo, e questo mentre è ancora in pieno corso il programma di Quantitative Easing (l’immissione di liquidità sui mercati finanziari attraverso acquisti di titoli di stato sul mercato aperto) della Banca centrale europea.

Perciò, se potrebbe essere presto per affermare che nella prima parte dell’anno la crescita economica europea sia rallentata per fattori non momentanei, il quadro diviene invece più preoccupante osservando gli indicatori di fiducia come l’IFO degli operatori economici tedeschi, sceso per la quinta mensilità consecutiva e giunto a 102.1 punti ad Aprile dai 103.3 punti di Marzo. Analoghe discese degli indici di fiducia si sono registrate in Francia e Italia.


Quel che sembra venire meno in questi giorni da parte degli operatori economici è dunque la speranza che lo sviluppo degli investimenti e la crescita dei consumi continuino anche oltre gli orizzonti dell’attuale politica di stimoli monetari (che potrebbero terminare presto), mentre l’incertezza politica dell’Unione non demorde e le vendite al dettaglio non brillano.

Di seguito alcuni indicatori: il primo che misura il livello di “sorprese” nella pubblicazione dei dati statistici per l’ Euro-Zona, raffrontato all’andamento della moneta unica (discesa meno che proporzionalmente)


Il secondo invece mostra come si sono evolute -mese per mese- le principali “preoccupazioni” da parte degli operatori economici europei:


Come si può vedere, lo scorso Aprile la principale preoccupazione che si è registrata riguarda il timore di un “fallimento“ della politica europea di stimolo monetario nel riuscire a dare slancio agli investimenti e dunque nel riaccendere i motori fisiologici dello sviluppo.

Se questo è il panorama dei paesi OCSE tuttavia bisogna pur tenere presente che l’economia asiatica (Giappone escluso) macina invece molte più vittorie ed è la maggior causa della risalita del prezzo del petrolio. Ciò fa ancora ben sperare per le esportazioni dell’Occidente e di conseguenza ancora per l’evoluzione positiva dei profitti aziendali (fattore positivo per le borse, soprattutto quelle europee). Ma è difficile prevedere cosa può accadere alle borse, per una molteplicità di fattori: il QE europeo innanzitutto, che ancora immette liquidità al ritmo di €30 miliardi al mese e, oltre a finanziare le borse continentali, continua -insieme a quello della Banca Centrale Giapponese- a controbilanciare la riduzione della liquidità (“Taper Tantrum”) operata dalla Federal Reserve americana. La forte generazione di cassa delle grandi imprese multinazionali inoltre, e lo smisurato avanzo commerciale cinese, buona parte della cui liquidità viene reinvestita sul mercato americano, contribuiscono a sostenere il Dollaro.


Ciò nonostante (come si vede dal grafico) è dall’inizio del 2018 che la borsa americana ha fortemente incrementato la sua volatilità e, mediamente, ha vissuto un ridimensionamento delle sue quotazioni. Se questo è il clima generale, non è difficile immaginare cosa potrebbe succedere man mano che i tassi di interesse continueranno a salire e che la Banca Centrale Europea inizierà a ridurre i suoi acquisti di titoli. Per contrastare le vendite sarà difficile che basteranno la crescita dei profitti e una nuova stagione di “buy-back” (acquisto di azioni proprie) da parte delle maggiori corporations.

Se perciò non è ancora arrivato il momento di parlare dell’arrivo di una vera e propria recessione (almeno fino a fine anno e fino a quando l’economia dei paesi asiatici correrà così forte) è sicuramente arrivato il tempo di parepararsi con attenzione alla graduale inversione del ciclo economico. Nel grafico finale si può vedere il rallentamento generalizzato della crescita economica per ciascun trimestre, fino al 31 Marzo di America, Francia, Gran Bretagna e Spagna:§


Stefano di Tommaso




ORSI O TORI ? IN BORSA QUALCOSA E’ CAMBIATO

Un anno eccezionale. Questo è sicuramente stato il 2017 e potrebbe risultare anche il 2018. Da quando infatti la Gran Bretagna ha vota per la Brexit e Donald Trump è stato eletto presidente degli Stati Uniti d’America (in media un anno e mezzo fa) i mercati finanziari hanno regalato grandi e insperate soddisfazioni a investitori e risparmiatori e la crescita economica globale si è magicamente sincronizzata, registrando i migliori risultati da molti anni a questa parte. Parallelamente i grandi timori derivanti dalle tensioni geopolitiche e dalle minacce di conflitti nucleari si sono progressivamente sopiti, anche grazie al nuovo corso politico anglo-americano.

 

Ovviamente non tutti i meriti di questa meravigliosa performance vanno ascritti alla leadership politica! La rivalutazione delle borse e di tutti gli altri valori finanziari (ivi compresi i Bitcoin e le altre criptovalute) parte infatti da molto lontano, essenzialmente da subito dopo la grande crisi del 2008, con il varo del Quantitative Easing (QE: allentamento della politica monetaria) in Giappone e in America. E ancora nel 2017 le banche centrali hanno aggiunto oltre mille miliardi di liquidità a quella messa in circolazione dal 2009 in poi, superando nel totale i 15mila miliardi di dollari negli otto anni. Impossibile non tenerne conto quando si vuol comprendere le ragioni delle recenti performance delle borse.


Oggi però che le loro quotazioni sono arrivate davvero molto in alto e il QE sta per essere trasformato in “Quantitative Tightening” (QT: restrizione della politica monetaria) persino nelle aree del mondo dove è arrivato più di recente e dunque la liquidità in circolazione nel mondo sarà progressivamente ridotta. Inoltre con l’aspettativa di ripresa dell’inflazione in conseguenza della ripresa economica l’epoca dei tassi a zero sembra volgere definitivamente al termine e -poiché viene stimata una correlazione vicina al 90% tra gli andamenti delle varie “asset class”- la minor domanda di titoli non potrà non impattare anche nelle quotazioni degli stessi, provocando un loro ribasso e l’attesa di maggior rendimento.

UN CICLO ECONOMICO PROLUNGATO OLTRE OGNI ASPETTATIVA

Ma, per comprendere la strana situazione attuale dei mercati finanziari, occorre tenere presente che i ragionamenti sopra descritti sono validi da almeno un anno e mezzo, dato che già nel 2016 il ciclo economico espansivo era classificabile come uno dei più longevi della storia (e dunque era già allora ragionevole aspettarsi che arrivasse prima o poi una seppur lieve recessione). Ancora all’inizio del 2015 la Federal Reserve Bank of America aveva preannunciato il cosiddetto “tapering” (cioè una riduzione del programma di QE e conseguentemente la prospettiva di ridurre la liquidità immessa in passato, cosa che prelude al QT), sebbene altre banche centrali come quella Europea, avessero iniziato in ritardo con gli stimoli monetari e pertanto non avessero in programma di ridurli a breve.

È in queste nuove condizioni ambientali che nel 2016, mentre la Gran Bretagna votava il divorzio dall’Unione Europea e oltre oceano eleggevano il presidente americano più “populista” che la storia ricordi, sembrava ovvio a tutti che le borse si sarebbero ridimensionate e i titoli a reddito fisso di sarebbero svalutati, riflettendo la volontà delle banche centrali di far risalire i tassi di interesse per prevenire la ripresa dell’inflazione.

E invece no. Forti della straordinaria crescita dei profitti delle aziende quotate nelle borse e della preannunciata (e poi dopo un anno finalmente votata) riforma fiscale americana, i mercati finanziari hanno continuato a correre in avanti, raggiungendo vette stratosferiche e provocando negli investitori incertezza, ma anche al tempo stesso euforia, e la necessità di seguire il flusso dei listini assecondandolo, seppure con sempre maggior scetticismo. Forse è stato proprio questo diffuso scetticismo che ha impedito nell’ultimo anno e mezzo grandi fiammate delle borse ma anche grandi crolli, generando quei livelli minimi di volatilità dei mercati cui ci siamo abituati. Volatilità che da qualche tempo sembra invece risalita (vedi grafico).

LE RAGIONI DEL PESSIMISMO

Dunque sino ad oggi le economie di ogni area del mondo hanno continuato a crescere -anzi si sono sincronizzate tra di loro- senza quasi generare inflazione, provocando una decisa rimonta dei profitti aziendali e impedendo ai mercati finanziari di perdere fiducia in ulteriori accelerazioni economiche e incrementi dei profitti.

Ma evidentemente più i mercati progrediscono più a chi vi investe vengono le vertigini da altitudine. E al primo scricchiolio delle quotazioni tutti si chiedono se non sia arrivato l’inizio della fine.


Anche perché non si può non prendere atto del fatto che, nonostante l’inaspettato progredire della crescita economica globale ben oltre le durate fisiologiche dei cicli economici e nonostante la bassissima inflazione sino ad oggi registrata, il super ciclo economico volga inevitabilmente alla sua conclusione e il contesto generale tenda a una congiuntura meno favorevole per le attività finanziarie.

Tanto per citarne una, la variabile più banale che può aiutare la ripresa dell’inflazione (e dunque provocare interventi restrittivi delle banche centrali) è l’incremento dei salari, conseguenza quasi ovvia della ripresa economica. Esso fa crescere i consumi e, in assenza di forti correttivi (quali l’espansione del commercio elettronico e l’aumento della produttività del lavoro) fa lievitare anche i prezzi di beni e servizi.

Se vogliamo citarne un’altra eccola: l’aggressiva politica fiscale americana (che mi aspetto venga imitata quantomeno dal Regno Unito) può portare a un maggior debito pubblico da finanziare e alla necessità di collocare un maggior volume di titoli di stato, creando le premesse perché i rendimenti (cioè i tassi a lungo termine) crescano. E data la citata forte correlazione fra gli andamenti delle diverse “asset class”, se i corsi dei titoli a reddito fisso scendono, è probabile che anche quelli dei titoli azionari facciano lo stesso.

Tra l’altro sul mercato finanziario americano da tempo i rendimenti dei titoli obbligazionari hanno oramai superato quelli dei titoli azionari, rendendo ingiustificata la scelta di acquisire attività più rischiose se non ci si può attendere da queste ultime un miglior rendimento. Si veda in proposito il grafico che segue (che tuttavia si ferma al 31.12.2017 mentre oggi il Treasury Bond decennale è tornato al 2,85%):


Ma fino ad oggi altre variabili fondamentali hanno prevenuto un generale “sell-off” (svendita) delle azioni, nonostante le quotazioni stellari e la tentazione di realizzare i profitti accumulati. Quelle ragioni sono state il forte differenziale tra i loro fantastici rendimenti (anche a causa dei crescenti profitti aziendali) e quelli a zero dei titoli a reddito fisso e la grande liquidità in circolazione. Due fattori che, come abbiamo visto, in prospettiva dovrebbero venire meno.

È questo dunque il motivo per il quale ci si aspetta che prima o poi una correzione delle borse faccia breccia sull’eccesso di ottimismo dei mercati riportandoli a un maggior equilibrio e, sebbene sia difficile che essa si trasformi in un crollo generalizzato, bisogna ricordarsi che oltre i due terzi di tutti gli scambi in borsa sono provocati dai “trading systems”, cioè dalle transazioni computerizzate. Queste ultime potrebbero portare ad automatismi che rischiano di autoalimentarsi.

LE RAGIONI DELL’OTTIMISMO

Ma bisogna fare i conti con almeno un altro paio di fattori: la psicologia umana e l’espansione globale dell’economia (vale a dire: l’emersione verso gli standard occidentali dei numerosi paesi emergenti rimasti fino a ieri ai margini della vita civile).

Partiamo da quest’ultimo: la congiuntura favorevole di dollaro basso e materie prime in ripresa sta aiutando non poco gli investimenti infrastrutturali in quei paesi. Non dimentichiamo che appartengono a tale categoria buona parte delle nazioni del mondo e che persino larghe porzioni di popolazioni di Cina e India (la prima è la nuova superpotenza economica mondiale, la seconda si avvia ad esserlo) vivono sotto la ”soglia della povertà”, mentre molti paesi africani e una parte del resto dell’Asia restano a tutti gli effetti “in via di sviluppo” per usare un eufemismo caro ai burocrati delle organizzazioni sovranazionali.


Ebbene la crescita economica sta tirando soprattutto in quei luoghi, sebbene arrivino a beneficiarne anche e soprattutto i paesi più industrializzati che vi esportano macchinari, tecnologie, costruzioni e beni di consumo.

In assenza di nuovi conflitti bellici, di nuove sanzioni indiscriminate, di nuove svalutazioni selvagge, questo fenomeno è destinato a durare, e a portare benefici anche alle grandi corporation quotate alle principali borse mondiali, favorendo la crescita dei loro profitti, attesi per il 2018 in espansione del 12%, cioè tre volte la crescita economica globale.


Ma anche la psicologia può giocare un ruolo importante, sebbene più effimero: oggi i media di tutto il mondo continuano a celebrare una nuova era tecnologica digitale, l’espansione dell’e-commerce, la diffusione della conoscenza e delle scienze, il trionfo delle energie da fonti rinnovabili e in definitiva la maggior sostenibilità ambientale dello sviluppo industriale. Non hanno torto ma sicuramente hanno contribuito alla narrazione di un mondo migliore che sta favoriscegli investimenti e, con essi, la vera crescita economica. Le aspettative -si sa- giocano comunque un ruolo fondamentale in economia. Anche questo fattore porta a pensare che le borse non crolleranno d’un tratto, che l’attuale sistema economico non imploderà tanto facilmente e che l’istinto irrefrenabile degli economisti di ogni epoca di predicare prossimi disastri questa volta non avrà la meglio.

CONCLUSIONI

Difficile perciò che la crisi del 2008 possa ripetersi nel 2018, soprattutto sintantoché il mondo intero continuerà ad arricchirsi. Ma l’investitore medio qualche pausa di riflessione potrebbe anche prendersela, a maggior ragione sintantoché non arriveranno maggiori conferme alle rosee aspettative che supportano le attuali quotazioni stellari.

Stefano di Tommaso




SORPRESA! L’ECONOMIA GLOBALE CRESCE PIÙ DEL PREVISTO

Nell’anno che si è appena concluso il Financial Times stima che la crescita economica mondiale possa essere arrivata al 5% annuo, un ritmo doppio rispetto agli anni 2015-2016 e che non si vedeva dal secolo scorso. Sino a pochi mesi fa nessuno lo aveva previsto e ancora oggi molte testate internazionali (come l’Economist, ad esempio) fanno fatica ad ammetterlo.

Parliamoci chiaro, per molti commentatori è come se ciò corrispondesse alla sconfitta politica degli avversari della Brexit, del Trumpismo e del nuovo corso politico di Francia, Cina, India e Giappone, in barba a quelli che fino a ieri tifavano per il partito della guerra, per l’esplosione del terrorismo internazionale, per l’invasione indiscriminata dei migranti in Europa e per la destabilizzazione di Medio e Estremo Oriente. C’erano evidentemente forti interessi privati a destabilizzare il pianeta che, per qualche motivo, sono stati disattesi, e un esercito di pennivendoli pronti a fornirne una giustificazione razionale.

Il mondo sembra invece essere giunto a una svolta radicale negli ultimi mesi, ancorché essa non sia stata riportata dai media, e dunque senza che se ne sia ancora percepita l’effettiva portata. Per ora ne parlano solo gli economisti e gli investitori, consci del fatto che qualcosa di eccezionale sta prendendo forma e tuttavia niente affatto sicuri della sua “durabilità”. Le borse dunque crescono, ma con estrema circospezione, mentre i money managers le seguono sempre più scettici, e continuano a cercare ogni forma possibile di copertura dal rischio di un ribaltone.

L’ANNO DEI RECORD

 

 

Certo il 2017 è stato l’anno dei record, non solo per l’ascesa costante del valore delle attività finanziarie di tutto il mondo, per la ripresa economica dei paesi emergenti che nessuno si aspettava e addirittura per la distensione geopolitica internazionale che si è riscontrata ex post, ma anche perché tra gli allarmi della Brexit che avrebbe dovuto danneggiare Gran Bretagna e intera Europa e l’elezione di Trump -il Presidente americano più contrastato dai media che la storia ricordi- i commentatori che facevano più notizia erano le cornacchie che suonavano campane a morto rispolverando fantasmi del passato come l’iper-inflazione che sarebbe seguíta agli stimoli monetari delle banche centrali, la stagnazione secolare cui saremmo dovuti precipitare in assenza di miglioramenti della produttività del lavoro (concetto coniato da Sanders nel 2013), o addirittura sperticandosi in previsioni apocalittiche di un nuovo poderoso crollo dei mercati finanziari (chi non ricorda gli allarmi lanciati prima da George Soros e poi da Ray Dalio) o addirittura l’eventualità che precipitassero a picco il prezzo del petrolio e il volume del commercio internazionale.

 

Inutile ricordare com’è andata: è successo l’esatto opposto a dir poco! Non solo, ma il grosso della crescita economica globale è provenuto dalle regioni asiatiche e da quelle più periferiche, senza esplosioni demografiche e in modo sincronico con la ripresa delle economie più avanzate! Ancora oggi La prima economia mondiale resta ancor oggi quella americana, ma se guardiamo invece ai valori espressi in base alla parità di potere

d’acquisto allora nel 2017 la Cina ha già superato gli Stati Uniti d’America.

I GRANDI TIMORI

Come sempre in questi casi non ci possono essere certezze di essere entrati in una nuova era di prosperità, anzi!

 

Ma cosa affermano allora (e anche con una certa autorevolezza) le cornacchie? Che il mondo sta sperimentando oggi una crescita pagata al carissimo prezzo dell’esplosione del debito globale, tanto privato quanto di stato, arrivato nel complesso alla mirabolante cifra di 233.000 miliardi di dollari, più che raddoppiato (+163.000 miliardi di dollari) rispetto a vent’anni prima. E che la fase aurea in cui ci troviamo potrebbe presto rovesciarsi con le strette monetarie e gli aumenti dei tassi d’interesse già avviati dalle banche centrali i cui effetti tuttavia non sono ancora manifesti. Dunque la fase in cui ci troviamo potrebbe essere fortemente ciclica e instabile perché basata su nuovi debiti.

Il timore è particolarmente evidente se osserviamo i debiti pubblici di Cina e America, che si stima siano arrivati entrambi a superare gli 11.500 miliardi di dollari (quello italiano, uno dei maggiori al mondo, è poco sopra i 2.200 miliardi), pur sempre un’inezia tuttavia, se si guarda anche all’escalation dei debiti privati. Timori fondati peraltro, se osserviamo le previsioni di ulteriori espansioni di tali debiti pubblici, in America a causa del taglio fiscale che ancora non è chiaro come sarà finanziato, e in Cina perché è l’apparato statale che sta sostenendo i numerosi casi di default delle amministrazioni locali.

GLI INVESTIMENTI TRAINANO LA CRESCITA

Sul fronte degli ottimisti tuttavia le cose non stanno poi così male perché, contrariamente ai sostenitori dell’illusione monetaria fornita dall’accresciuto valore delle attività finanziarie detenute dai privati (che potrebbero averli indotti ad una maggior spesa per consumi) quello che rilevano le statistiche invece è che il maggior contributo alla crescita economica non l’hanno fornito i consumi bensì gli investimenti, e che questi ultimi si sono rivolti principalmente alle nuove tecnologie, alla digitalizzazione e alla robotizzazione degli stabilimenti produttivi, mentre sono parallelamente calati (in termini relativi) gli investimenti rivolti allo sviluppo energetico.

Tutti fattori che dovrebbero congiurare per una crescita basata sul calo dei costi di produzione e sulla limitatezza dell’inflazione di risulta. Una tendenza che fa dunque ben sperare che il fenomeno della crescita del 2017 non sia soltanto un’anomalia statistica.

Stefano di Tommaso