IL CAMMINO STRETTO DI DRAGHI

LA COMPAGNIA HOLDING
Quando ha accettato il ruolo di presidente del Consiglio dei Ministri “di garanzia”, Mario Draghi aveva ben chiaro che la sua missione (quella di mettere ordine nel nostro Paese per riuscire ad ottenere i fondi europei del PNRR) non sarebbe stata una passeggiata di salute. Oggi, dopo le ultime notizie e le amarezze durante le elezioni del Presidente della Repubblica, ha ben chiaro che, insieme alla strada per la ripresa economica del Paese, anche quella per il colle gli si è fatta ancor più ardita di quanto avrebbe potuto immaginare. Vediamo il perchè…

 

LA RIPRESA E’ A RISCHIO

Non soltanto nelle scorse settimane una serie di allarmi relativi al maggior costo dell’energia elettrica (pari a quasi cinque volte i prezzi del 2021) stanno mettendo in difficoltà le piccole e medie imprese, già affette dai rincari della materia prima e dalle lungaggini delle forniture di microchip e altri semilavorati provenienti dall’Asia. A tali preoccupazioni si è poi aggiunto il grido d’allarme lanciato negli ultimi giorni da molti uffici studi circa i problemi burocratici che stanno azzoppando la possibilità di ricorrere alla misura del “superbonus” del cosiddetto 110%, per la ristrutturazione edilizia e l’ammodernamento energetico.

Ma la lista di ostacoli che rischiano di impedire nel 2022 la prosecuzione della crescita economica nel nostro Paese non si ferma qui: innanzitutto c’è la congiuntura economica globale che si fa più difficile e quindi gli ordinativi (principalmente tedeschi e francesi) all’industria italiana rallentano. Le nostre esportazioni possono dunque correre quasi soltanto in direzione dell’Asia, in diretta concorrenza con quelle tedesche!.

Ma nel contempo è in atto una bella crisi di liquidità per le piccole e medie imprese e anche le banche che le finanziano sono quasi a secco: se le piccole banche fanno fatica a supportare il finanziamento dei lavori del 110% e i mercati penalizzano i loro titoli per aver investito troppo nell’acquisire crediti d’imposta, allora le imprese che devono eseguire sul nostro territorio quei lavori hanno un problema ulteriore. Senza lubrificante liquido insomma l’economia delle piccole e medie imprese si ferma!

COSÌ COME I BUONI RAPPORTI CON L’UNIONE EUROPEA

Poi ci sono i numerosi problemi che provengono dai controlli dell’Unione Europea circa le riforme imposte all’Italia in cambio del “Next Generation EU”. Draghi sta infatti toccando con mano la quasi impossibilità di riuscire a procedere in tempo con le riforme necessarie a raggiungere gli obiettivi posti all’Italia dall’UE per procedere con il PNRR.

A dicembre 2021 il nostro Paese aveva conseguito tutti i 51 obiettivi previsti. Non ci dovrebbero dunque essere problemi a confermare l’assegnazione dei 24,1 miliardi di euro già anticipati dall’UE a Giugno scorso. Ma gli obiettivi previsti per il 2021 erano prevalentemente adempimenti burocratici o normativi (organizzazione della governance del PNRR, decreti ministeriali, etc.). Nel 2022, al contrario, per ottenere gli ulteriori 40 miliardi di euro previsti, l’Italia dovrà attuare altri 100 obiettivi che riguardano invece riforme più complesse e investimenti pubblici (progetti di fattibilità, apertura dei cantieri, etc.) in molti casi ancora in alto mare. E soprattutto, di questi 100 obiettivi, ben 45 dovranno essere realizzati nei primi sei mesi del 2022. Riuscirà il Governo nell’intento? È dubbio.

Inoltre l’articolo 11 del Regolamento dell’Unione numero 2021/241 approvato il 12 febbraio dello scorso anno (quello che istituisce il dispositivo per la ripresa e resilienza) prevede che soltanto il 70% dei fondi assegnati dal New Generation EU sia considerato definitivo. Cioè oltre 57 miliardi di euro potrebbero essere ridotti o tolti o assegnati ad altri Paesi membri che dovessero risultare più meritevoli o che avessero avuto performances economiche peggiori nel 2021 (come ad esempio la Spagna). La verifica arriverà entro il 30 giugno prossimo. Il PIL dell’Italia nel 2021 è cresciuto del 6,5% contro una stima di circa il 6%, con la variazione più alta tra i Paesi membri. Ciò significa circa 8-9 miliardi in più rispetto alle stime che potrebbero esserci tolti. È chiaro però che sarebbe politicamente molto complesso per questo Governo rivedere i piani di investimento già annunciati a causa della riduzione delle risorse disponibili!

LA PRODUZIONE INDUSTRIALE RALLENTA

La produzione industriale italiana era cresciuta nell’ultimo trimestre del 2021 soltanto dello 0,5%, con un progressivo rallentamento in dicembre (meno 0,7%) e ha registrato una maggior caduta a gennaio: meno 1,3%. Lo calcola il Centro studi di Confindustria indicando che «la contrazione è dovuta principalmente al caro-energia (elettricità +450% a gennaio 2022 su gennaio 2021) e al rincaro di altre commodity che comprimono i margini delle imprese e, in diversi casi, stanno rendendo non più conveniente produrre. A questo si sommano le persistenti strozzature lungo le filiere globali di fornitura.

Ciò evidentemente mette a rischio la risalita del Pil nel 2022 (al momento stimata intorno al 3,6%). L’economia italiana dovrebbe completare il percorso di ripresa, già iniziato nel ‘21 ma successivo ad un calo di quasi il 10% nel 2020, ma il rischio è invece che le previsioni formulate per il PIL italiano del 2023 (soltanto più 1,9%) possano invece applicarsi già al 2022, nonostante gli stimoli monetari (ancora in atto) e quelli fiscali (i vari bonus per le ristrutturazioni e le transizioni energetiche e digitali) a dare manforte.

MA L’INFLAZIONE MORDE UGUALMENTE

Per non parlare della “grana” dell’inflazione che sta esplodendo così come era successo quasi cinquant’anni fa con la risalita del prezzo del petrolio, dopo la guerra del kippur del settembre 1973. Come allora le tensioni geopolitiche avevano dato una sferzata al costo dell’energia (petrolio e gas in particolare, che viaggiano sempre a braccetto) la quale aveva innescato una serie di rincari dei prezzi. Quel che era successo allora e che oggi non può succedere più è sicuramente la catena di svalutazioni delle divise di conto “minori”, rispetto al Dollaro e al Marco Tedesco. Forse una nuova “svalutazione competitiva” potrà essere adottata per le economie dei Paesi emergenti in giro per il mondo, ma non certo in Europa, dove vige la moneta unica “marcocentrica”. L’Italia non può permettersi invece nemmeno di far anticipare alle sue banche due volte il credito d’imposta. Senza svalutazioni competitive perciò a casa nostra arrivano le deflazioni, a partire da quella salariale (con la perdita di potere d’acquisto dei salari).

Il problema per l’economia italiana è quindi bello grosso e il rincaro del costo dell’energia ha appena iniziato a farsi sentire: già a gennaio l’indice IPCA (Indice dei Prezzi al Consumo Armonizzato) ha registrato in Italia una variazione annualizzata del 5,3%, contro il 5,1% medio dell’Eurozona. Anche se l’ISTAT parla di una inflazione acquisita del 3,4%, questa sarebbe valida per il 2022 solo qualora i prezzi al consumo non crescessero più da qui a fine anno. Cosa che sappiamo già non sta succedendo. Qualche esempio: la pasta è già rincarata del 10% e la bolletta media del gas del 63%. Difficile pensare che, sebbene le statistiche resteranno prudenti finché potranno, riusciranno tuttavia a nascondere la pura verità: l’inflazione in tutta Europa ha appena iniziato a mordere e si può ragionevolmente temere che continuerà ancora a lungo a generare disastri e a determinare la chiusura di numerosissime piccole e medie imprese. Si comprende che chi ci rimetterà di più sarà il nostro Paese, che si basa soprattutto su di esse.

COSA C’È DA FARE

Per tutti questi motivi il Governo avrebbe un disperato bisogno di rimuovere ogni possibile restrizione agli investimenti e alle condizioni di lavoro delle piccole e medie imprese, ogni vincolo burocratico, ogni balzello inutile, ogni limitazione al credito e alla circolazione del denaro. E c’è da giurare che questo governo proverà a fare tutto il possibile in tale direzione. Ma tutto il possibile non significa che sarà sufficiente. Anzi! C’è già da attendersi una vera e propria rivolta dalle parti sociali, delle corporazioni e dei potentati, da parte dei sindacati, dei dipendenti pubblici e sinanco dalla magistratura. Quest’ultima infatti non potrà scansare una sua riforma importante, oltretutto chiesta dall’Europa. I primi invece sono già sul piede di guerra per la perdita del potere d’acquisto dei salari. Persino la stessa Europa non vede di buon occhio una ventata di liberismo e di politiche industriali pro-business.

Draghi dovrà insomma fare lo slalom tra le varie normative, i vincoli legislativi, gli slogan ecologisti e le crescenti misure europee relative alla sicurezza sul lavoro, se vuole riuscire a mobilitare il Paese per sbloccare i cantieri e accelerare le riforme. Con questi fatti è facile pronosticare ogni genere di rallentamenti alle riforme e conseguenti nuove tensioni politiche all’interno della variegata maggioranza che sino ad oggi ha sostenuto il Governo. Né potrà qualcosa il nuovo-vecchio presidente della Repubblica, che tutti sanno resterà in carico soltanto un paio d’anni al massimo e che non ha certo l’autorevolezza necessaria per tenere a bada le parti sociali.

L’Italia avrebbe bisogno di nuova linfa e di grandi intese con gli altri Paesi membri dell’Unione Europea. Invece il rischio è che accada l’esatto opposto: la Germania continua infatti a parlare del suo “ordoliberismo”. Un neologismo che significa innanzitutto “Deutschland Uber Alles” nelle politiche comunitarie. E significa anche che, con l’attenuarsi della pandemia (quantomeno per l’ampia diffusione dei vaccini) i Paesi “frugali” dell’Unione torneranno ad insistere sul rispetto dei vincoli di bilancio, impedendo dunque al nostro Paese di trovare altre risorse per finanziare la crescita.

LA SVALUTAZIONE DELL’EURO NON PIACE AI PAESI DEL NORD

Con un Dollaro tendenzialmente più forte che in passato, sarà infatti più difficile anche per la Banca Centrale Europea reperire risorse per sostenere le iniziative comunitarie e finanziare le banche sul territorio, perché a ogni ulteriore acquisto di titoli pubblici potrà seguire un indebolimento dell’Euro. La Banca Centrale Europea ha sino ad oggi provveduto autonomamente a monetizzare il debito dei Paesi come il nostro (che sono strutturalmente ancora in forte deficit e dunque avrebbero bisogno che essa continui). Dunque la strategia più probabile (quella del “cerchio-bottismo”) della BCE avrà un limite nel fatto che la svalutazione della moneta unica non potrà andare lontano.

Draghi che ha gestito per quasi un decennio il governo della BCE lo sa bene, e sa anche che deve riuscire a trovare altre risorse finanziarie per portare avanti il Paese più che si può in questi mesi, almeno sino a quando le condizioni generali dell’economia globale non saranno troppo peggiorate a causa dell’inflazione e del caro-energia. L’appuntamento del “redde rationem” è infatti per la fine dell’anno, quando ogni possibile velo che nasconde le vere posizioni delle parti sarà tolto, e il confronto, tanto all’interno dell’Italia quanto con gli altri Paesi dell’Unione (anche in vista delle elezioni politiche della primavera successiva) si farà molto più duro. Un momento che risulterà difficile quasi per certo, cui bisognerebbe riuscire a prepararsi sin da ora. Ce la farà?

Stefano di Tommaso




LO SCENARIO ECONOMICO SI CAPOVOLGE

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E’ in atto un profondo cambiamento nel corso del ciclo economico: non soltanto a questo punto dell’anno tutti si rendono conto del fatto che l’inflazione che abbiamo registrato fino ad oggi (in Europa al 5% circa) può significativamente peggiorare man mano che gli aumenti dei costi dell’energia, dei componenti elettronici e delle materie prime si trasmettono a valle sui prodotti finiti. E nessuno sa bene quanto l’iper-inflazione in arrivo potrà devastare i conti aziendali così come i risparmi dei privati cittadini. Ma c’è dell’altro: persino la ripresa economica, nell’anno che avrebbe dovuto sancire il ritorno ai livelli pre-covid invece scricchiola! Cosa sta succedendo, e perché?

 

L’EUROPA NON CORRE

Iniziamo dall’andamento della Germania, che è stato negativo per tutta la seconda parte del 2021: poiché essa resta ugualmente il motore economico dell’euro-zona, allora è ancora più grave il fatto che sta entrando in piena recessione. Se infatti anche nel trimestre in corso mostrerà un andamento negativo, allora sarà tecnicamente la volta buona che lo si potrà affermare senza tema di smentita.

I motivi della recessione tedesca sono molti, ma la tendenza sembra inesorabile: dalla crisi delle forniture di semiconduttori, microchip, materie prime ed energia, al calo dei consumi dovuto alle restrizioni ai viaggi, al turismo e allo svago imposte dalla pandemia che continua a strisciare. Il risultato però è notevole: tutta l’ Europa sta pagando a caro prezzo tanto il Covid quanto la crisi geopolitica ed energetica.

L’ITALIA POTREBBE SEGUIRE LA GERMANIA

L’Italia, bisogna darne atto, sino ad oggi sembra aver viaggiato decisamente meglio. Ma nella buona sostanza le cose non vanno nemmeno da noi, e per una serie di motivi:

  • intanto a casa nostra il debito pubblico scricchiola più del Prodotto Interno Lordo (PIL) e quindi il rialzo dei tassi d’interesse (dato oramai per scontato) infliggerà al nostro paese una tassa micidiale che può azzoppare l’economia peggio della penuria di semiconduttori che rovina i conti dell’industria automobilistica franco-tedesca;
  • poi il nostro Paese vanta sì la seconda macchina industriale d’Europa (dopo la Germania e prima della Francia) ma non può vantare alcuna capacità di produrre in casa l’energia che servirebbe per farla funzionare! E’ come se avessimo in garage una vettura formula 1 ma avessimo forti condizionalità sulla benzina che serve per farla girare in pista. La Francia invece ha attivi 58 reattori nucleari, in 19 centrali, che volendo potrebbero quasi soddisfare l’intero Paese. La Germania ha i giacimenti di carbone ed è il punto di arrivo di un gasdotto del nord (il “North Stream”) che la Russia ha costruito apposta per lei. Noi avremmo il gas che arriva dall’Africa, ma non basta. Avremmo anche i giacimenti ma siamo il Paese di Tafazzi, tanto che ci siamo inventati lo stop alle trivelle, così da rendere impossibile andarlo ad estrarre. Morale: i conti delle imprese si apprestano ad essere profondamente affossati;
  • inoltre buona parte dei nostri distretti industriali sono fornitori o sub-fornitori delle grandi industrie europee, molte delle quali direttamente o indirettamente legate al mondo dell’auto (come Stellantis, WW, Bosch, Siemens, eccetera…) impiantistica compresa. Ma il settore “automotive” è in piena transizione e le sue fabbriche sono in ristrutturazione. Dunque è probabilmente soltanto questione di tempo perché anche le nostre esportazioni inizino a zoppicare. Cioè se Sparta piange allora Atene non ride;
  • infine per esprimere ottimismo sul nostro andamento economico non si può non guardare all’altro grande fattore che la fa girare: il denaro (cioè la liquidità). E quest’ultimo da noi non solo ha sempre scarseggiato, ma oggi più che mai ne gira assai poco nelle tasche della gente. L’Italia è in perenne deflazione salariale, le banche erogano sempre meno prestiti, le imprese investono poco persino dei profitti accumulati, lo Stato ancor meno, i risparmiatori comprano principalmente titoli esteri e la borsa italiana è oramai una filiale di quella francese! E se da noi non girano quattrini, le imprese più deboli rischiano di saltare e quelle che vanno bene rischiano di emigrare.
  • La statistica riportata nell’unica tabella che sono riuscito a trovare online è oramai completamente superata! La crescita prevista per il 2022 è da limare o addirittura da invertire per buona parte dell’Eurozona:

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In contemporanea per l’Italia arrivano anche diverse cattive notizie per l’occupazione: per gli stessi motivi visti più sopra per i quali l’industria tedesca va in crisi, anche molti stabilimenti controllati da gruppi stranieri nel nostro Paese stanno chiudendo i rubinetti. Il gruppo Bosch ad esempio ha annunciato 700 esuberi nello stabilimento di Bari nei prossimi cinque anni (un dimezzamento dei suoi attuali 1.700 addetti), la Magneti Marelli invece vuol tagliare 550 ”indiretti!” (dirigenti, impiegati e operai non addetti alla produzione). E vuole farlo entro Giugno. Come detto le ragioni risiedono nelle perdite determinate dai costi fuori controllo e dalla debolezza della domanda. Ma anche a causa di una troppo rapida transizione verso l’auto elettrica, che sta schiacciando tutta l’industria che lavora a monte di quella automobilistica, molto diffusa in Italia.

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Purtroppo a contrastare problemi come questi servirebbe una politica industriale nazionale ben più decisa, che nemmeno il governo Draghi ha mai varato, nonostante sia riuscito a gestire bene il rapporto con l’Europa per varare il PNRR e ottenere i 209 miliardi dei Recovery Fund. Il suo governo però non può permettersi di proseguire a contrastare i problemi della popolazione a colpi di deficit di bilancio.

E LA BCE NON AIUTERÀ

Servirebbe una maggior solidarietà della Banca Centrale Europea (BCE) nel gestire lo stock di debito pubblico italiano, mentre quest’ultima invece ha già annunciato dalla primavera un drastico taglio agli acquisti dei nostri BTP. Dunque il governo Draghi dovrà mostrare molto rigore per essere ascoltato a Bruxelles. Con il rischio di logorarsi politicamente e arrivare lacerato alla vigilia delle elezioni politiche.

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Ma se lo spread tra il BTP italiano e il Bund tedesco sta peggiorando anche perché dipende quasi totalmente da quello che decide la BCE a Francoforte, ecco che nemmeno Draghi può permettersi il lusso di andare a protestare contro le follie imposte dall’agenda ecologista della Commissione Europea. Anzi! Il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) è in arrivo e, con esso, di fatto una sorta di commissariamento dei conti italiani.

MENTRE IL DOLLARO SI RIVALUTA

La ciliegina sulla torta è poi la cavalcata del Dollaro americano, più o meno inevitabile visto che la BCE tutto sommato fa il nostro interesse a tenere i tassi più bassi che oltreoceano. Inevitabile anche perché l’America (che ha tutta l’energia che vuole e che non vede l’ora di esportarla a caro prezzo) farà di tutto per combattere in casa propria l’inflazione prima delle elezioni di medio termine.

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Con l’effetto che, con il caro-Dollaro, salirà ulteriormente per noi anche il costo delle materie prime (gas e petrolio compresi) e, di conseguenza, ancora una volta: l’inflazione. Con buona pace per le previsioni di un allentamento nell’anno in corso. E il rischio che presto il rincaro dei prezzi al consumo arrivi ad essere più forte di quà che di là dall’oceano!

Insomma quello che sembra vedersi all’orizzonte della prossima stagione, è una situazione economica globale da ”guerra del Kippur” del 1973, con tutto quello che ciò può significare per l’inflazione galoppante, ma senza che il nostro Paese possa opporre al caro-energia l’arma più usata in quegli anni per favorire l’industria nazionale: quella delle svalutazioni competitive. Oggi l’Italia non ha più il controllo della propria moneta e non può che subire una politica monetaria comunitaria fatta molto più su misura dell’industria tedesca che di quella domestica.

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L’esperienza delle crisi petrolifere degli anni Settanta ha peraltro insegnato alle banche centrali che l’inflazione provocata dalle difficoltà dell’offerta va sostanzialmente ignorata e non combattuta frenando la domanda. Dunque fa bene la BCE a dichiarare di non voler rialzare i tassi, ma fino a quale punto i popoli del nord-Europa accetteranno supinamente la svalutazione dell’Euro? E fino a quale punto accetteranno di sostenere i debiti pubblici dei paesi periferici dell’Unione? La domanda è lecita ma la risposta non c’è…

L’UNIONE EUROPEA AFFRONTA GLI ESAMI DI MATURITÀ

E’ per questi dubbi che l’anno appena iniziato si appresta ad essere una prova generale per la “vera” unione dei Paesi d’Europa che hanno aderito alla moneta unica: alle complessità della geo-politica, dell’inflazione e del ciclo economico che sta arrivando a ribaltarsi, essi vedranno sommarsi anche le tensioni tra i Paesi del nord Europa (i cosiddetti Paesi Frugali, più o meno corrispondenti a quelli della Lega Anseatica) e quelli del sud. Col rischio che possano decidere di prendere le distanze dalle politiche comunitarie annunciate sino a ieri.

Quando il cibo a tavola finisce, insomma, il rischio è quello che volino anche i piatti tra i commensali! Ciò che possiamo sperare è dunque che la recessione in probabile arrivo in Europa non sia completamente sincrona col resto del mondo (cioè con i paesi asiatici e quelli emergenti). E, per questa via, possano continuare a correre le nostre esportazioni. Soprattutto se la stabilità e la rinnovata autorevolezza delle nostre istituzioni riusciranno ad attirare risorse per il mercato dei capitali (o a farne fuggire meno).

MA LE BORSE POTREBBERO RESTARE POSITIVE

Per questi motivi è forse lecito attendersi per la prima parte del 2022 in Europa un completo sfasamento tra il ciclo economico e il mercato dei capitali: se l’economia reale farà tutto sommato fatica a correre nel vecchio continente, le borse -che al momento hanno già vissuto uno scrollone piuttosto deciso- con la liquidità sempre alta potrebbero addirittura rivedere miglioramenti per il comparto azionario, così come potrebbero correre le quotazioni dei beni rifugio ( e degli immobili ) a causa dell’inflazione galoppante. Un miglioramento che viceversa è molto più difficile attendersi per i titoli obbligazionari.

Nel grafico de Il Sole 24 Ore qui riportato si può ben vedere che il sodalizio tra le 2 principali “asset class” si è oramai interrotto:

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Ma la volatilità dei mercati finanziari è attesa altresì alle stelle per i prossimi mesi, soprattutto se i cannoni tuoneranno almeno un po’ ai suoi confini orientali. Il che in determinati momenti potrebbe rassomigliare molto ad una crisi dei mercati, anche se in definitiva resta decisamente improbabile che arrivi ad esserlo davvero. Un gioco adeguato soltanto ai fegati forti, dunque! O a chi riesce a diversificare parecchio i propri investimenti!

Stefano di Tommaso




I COSTI DELLA GEOPOLITICA

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Gli economisti di tutto il mondo sembrano concordare: la ripresa nel corso del 2022 probabilmente continuerà, sebbene a un ritmo sicuramente meno forte di quello precedente. Se così avverrà si saranno rivelate esatte le previsioni stilate nel corso del 2021 in cui si preannunciava un rimbalzo deciso -dopo il crollo del 2020- nel corso dell’anno passato ed un prosieguo della ripresa fino ai livelli di output produttivo del 2019 nel corso del 2022. Le borse però temono dell’altro. E nel frattempo scendono.

 

LO SCENARIO GENERALE È PEGGIORE DI QUELLO PRE-PANDEMICO

Peccato infatti che le condizioni generali in cui prosegue la ripresa economica siano divenute molto diverse da quelle del 2019, i cui livelli di output si dovrebbe tornare a eguagliare. Quello era un anno in cui i tassi d’interesse risultavano sostanzialmente azzerati, come pure l’inflazione era ai minimi storici e la disoccupazione viaggiava verso livelli molto bassi persino in paesi periferici come il nostro. La ripresa del 2020-2021 perciò è arrivata insieme con una serie condizioni peggiorative che oggi fanno sussultare le borse e alimentano il forte timore che le contromisure che le banche centrali si apprestano a disporre a freno dell’inflazione possano cancellare anche quel poco che resta delle speranze di sviluppo.

I DANNI DELL’INFLAZIONE

L’inflazione è stata indubbiamente sottovalutata sino a ieri e oggi è divenuta il maggior cruccio di studiosi, operatori, governanti e banchieri, ma viene affrontata in modo tardivo. Il principale mezzo attraverso il quale essa sta arrivando a nuocere è senza dubbio il maggior costo di gas e petrolio, arrivato a moltiplicarsi (soprattutto quello del gas, che in Europa scarseggia anche per motivi strutturali) a livelli nemmeno immaginabili già soltanto un anno fa. L’inflazione è poi un mostro dalle molte appendici.

Essa può deprimere le aspettative di profitto delle imprese, mettendo a rischio i ritorni attesi dagli investimenti programmati e l’ampliamento conseguente dei posti di lavoro. Può distruggere il valore dei risparmi di una fetta sempre più grande dell’umanità che sono gli anziani e i pensionati, ma soprattutto può rilanciare il valore nominale dei tassi d’interesse e far traballare i soggetti più indebitati, a partire dai numerosissimi governi nazionali che hanno sino ad oggi contrastato la recessione da lockdown con sussidi presi a prestito dalle banche centrali.

Se è attraverso la bolletta energetica che l’inflazione sembra più che mai arrivata per restare e, anzi, per gonfiare i prezzi ancor più di quanto abbiamo sperimentato al carrello del supermercato sino ad oggi, allora probabilmente gli scenari più oscuri sulle sorti della nostra economia guadagnano il loro diritto di cronaca. A partire dal fatto che la “crescita sincronizzata” che si era vista negli ultimi anni nelle varie zone geografiche del globo oggi rischia di scomparire per sempre.

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LA CRESCITA “SINCRONIZZATA” È SPARITA

L’Asia infatti ha subìto minori danni dalla pandemia e risulta sufficientemente lontana dalle tensioni geopolitiche dell’Europa orientale. La sua crescita infatti sembra tornata poderosa e i governi centrali mostrano minore incertezza di quelli occidentali.

L’America invece ha subìto danni ingenti nelle proprie filiere di approvvigionamento delle fabbriche e nel numero di morti nella popolazione (soprattutto quella più indigente), ma può innanzitutto contare su un’assoluta auto-sufficienza energetica e inoltre ha la capacità di incrementare il proprio debito pubblico senza il timore non vederlo coperto dalla banca centrale. Ma è anche il Paese che sta reagendo più velocemente all’inflazione, onde poter rimettersi in ordine prima di altri.

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L’Europa invece non soltanto rischia di pagare un elevato prezzo economico per la sua unione politica a metà, ma è anche l’area geografica che rischia di subìre le peggiori conseguenze nello scontro frontale che sta per prendere piede tra Oriente e Occidente ai confini della Federazione Russa con l’interruzione della fornitura di metà di tutto il gas che importa. Ed è anche la regione la cui Banca Centrale (la BCE) stava sperando di tirare dritto il più a lungo possibile con la politica dì tassi bassi onde non vedere frantumata l’Unione nella spirale dei debiti pubblici più elevati del mondo.

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SE LA FEDERAL RESERVE SI FA PRENDERE DAL PANICO…

Inutile dire che, se la Federal Reserve Bank of America (FED) dovesse accelerare la stretta dei tassi d’interesse già preannunciata sarà sufficiente il gioco delle aspettative (pur senza che si scateni alcun conflitto armato, che auspicabilmente nemmeno stavolta prenderà corpo) per mandare in crisi l’approccio da colomba della BCE, rilanciando le aspettative inflazionistiche e, probabilmente, rilanciando ancora una volta i prezzi di gas e petrolio, che tutto sommato fanno comodo agli americani che ne sono esportatori netti.

L’euro-zona, già esposta più di altre zone geografiche alle possibili conseguenze dì un conflitto armato ai suoi confini, rischia cioè oggi di entrare in un limbo fatto di “stag-flazione” (cioè stagnazione più inflazione) dove potrebbe rimanere sepolta molto a lungo se le proprie imprese dovessero mettere in pausa i propri programmi di investimento e se i propri governi dovessero traballare nella volontà dì spendere molto altro denaro nell’ampliamento delle proprie infrastrutture, tecnologiche, architettoniche e strategiche.

Il rischio geo-politico insomma, oggi soltanto marginalmente ”prezzato” dai mercati finanziari, potrebbe far esplodere soprattutto in Europa le tensioni speculative e i timori sulla tenuta dei giganteschi debiti pubblici accumulati sino ad oggi e ulteriormente esasperati dalla necessità di contrastare la deriva pandemica.

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…È L’EUROPA CHE RISCHIA DI FARNE LE SPESE

Se tale rischio dovesse iniziare a prendere forma concreta tra l’altro si materializzerebbe la possibilità che le quotazioni delle borse europee si sgonfino e che la liquidità evapori dai mercati finanziari e dal sistema creditizio del Vecchio Continente per prendere la volta dell’Asia (dove ci si attende maggior stabilità politica) e dell’America (che arriverebbe a offrire più elevati rendimenti).

Ovviamente (e grazie a Dio) non vi è alcuna certezza che la FED si lasci prendere dal panico accelerando il proprio programma di contrasto all’inflazione, né nella possibilità dell’aggravarsi delle tensioni geopolitiche con la Russia, con il conseguente probabile ulteriore rincaro delle materie prime. I timori del possibile maggior costo del denaro e dell’energia non sono perciò del tutto fondati, ma è comunque il gioco delle aspettative ciò che può far saltare il banco.

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Se la NATO accumula infatti truppe e munizioni in Ucraina (cioè ai confini della Federazione Russa e in un territorio dove un terzo della popolazione è di lingua ed etnia russa, cioè diversa da quella imperante ucraìna e questo terzo della popolazione è sotto continui attacchi provenienti addirittura dalle forze governative) è logico che anche la Russia rafforzi le sue posizioni ai propri confini e che valuti ogni possibile scenario, anche soltanto in soccorso di quelle popolazioni. E man mano che l’ammassamento prosegue, i rischi di qualche incidente tattico aumentano e, con esso, le probabilità della guerra.

Dunque è plausibile ancorché al momento sia anche improbabile, che si scateni la cosiddetta tempesta perfetta. E la sua possibilità è più che sufficiente ad accrescere le pressioni speculative che puntano a ulteriori rincari dei combustibili di derivazione fossile. Gli analisti se lo attendono e, come corollario, anche i prezzi di molte altre materie prime potrebbero seguirli.

IL COSTO DELL’INCERTEZZA POLITICA

La crisi diplomatica e l’imperversare dell’inflazione portano quindi con loro ulteriore incertezza politica a tutti i livelli, a partire dai rapporti secolari tra America e Cina, fino alle sempre più frequenti manifestazioni di piazza in Occidente, che nascono spontanee per contrastare la soppressione delle libertà individuali che è seguita alle misure di prevenzione dai contagi. E l’incertezza politica ha sicuramente un costo: quello della necessità da parte dei governi in carica di tenere elevate le loro politiche di welfare (cioè di assistenza socio-sanitaria) che a loro volta alimentano i deficit pubblici e i timori di nuovi shock di fiducia sui mercati finanziari.

La possibilità di una nuova frantumazione delle filiere internazionali di fornitura di manufatti provenienti dal blocco asiatico danneggerebbe infatti i consumatori occidentali, ma ancor più le imprese, che si vedrebbero costrette a creare nuove fabbriche in Occidente e, nel frattempo, a subire maggiori costi di produzione, che inevitabilmente si rifletteranno anche a valle, sui mercati di sbocco.Ma il costo di gran lunga più elevato relativo al propagarsi dell’incertezza risiede nella possibilità che essa arresti quella tanto attesa “normalizzazione” che il mondo si aspettava con l’esaurirsi della pandemia, dalla ripresa dei viaggi e -soprattutto- dalla piena ripresa del commercio mondiale (si veda il grafico qui sotto riportato relativo al commercio mondiale).

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La considerazione che prevale dunque è quella che stavolta, a dispetto delle rosee previsioni diffuse sino a ieri, sulle prospettive economiche europee, sia proprio il vecchio continente quello che potrà partire le peggiori conseguenze derivanti dalle tensioni geopolitiche alle proprie porte e dalla possibilità che le risorse energetiche arrivino a scarseggiare, rilanciandone il prezzo.

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Quanto è concreto questo rischio? Difficile dirlo, dal momento che le variabili geopolitiche non seguono una traiettoria lineare né sono figlie soltanto delle conseguenze razionali. Spesso prendono pieghe inaspettate, tanto in senso positivo quanto negativo. Bisogna dunque riuscire a gettare il cuore al di là dell’ostacolo e prefigurare anche scenari decisamente più positivi, nei quali le tensioni inflazionistiche arrivino presto a scendere di concerto con quelle geopolitiche, e permettano alle banche centrali atteggiamenti più accomodanti, ancora oggi ultra-necessari per procedere nell’ampliamento delle infrastrutture che il progresso economico richiede a gran voce!

MA -INFLAZIONE O NO- I TASSI SALIRANNO UGUALMENTE

Ma persino in tal caso (inflazione domata e tensioni attutite) la forte volatilità dei mercati finanziari potrebbe permanere ai livelli attuali, tanto per effetto della grande liquidità in circolazione che, in caso di scenari più positivi che si rifletterebbero in una crescita economica globale più accentuata, quanto per il sommarsi ad essa anche di una maggior velocità di circolazione della moneta. Lo scenario più positivo dunque vedrebbe comunque un rischio di surriscaldamento dell’economia che porterebbe comunque a far crescere i tassi di interesse, pur in presenza di una riduzione dei rischi di inflazione dei prezzi.

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Cosa che fa pensare che i rialzi dei tassi attesi (circa un punto percentuale, spalmato in circa un anno di tempo, secondo la FED) arriveranno comunque, e che si propagheranno più che probabilmente anche al resto del mondo, anche qualora le tensioni si placassero e la Banca Centrale Europea potesse riuscire a mantenere un assetto rilassato. Anzi la BCE farebbe sicuramente bene a restare cauta nel virare in direzione di maggior rigore. Non soltanto per venire incontro alle esigenze dei paesi periferici come il nostro, dove le tensioni sulla tenuta dei debiti pubblici potrebbero farsi più pressanti, ma anche per permettere alle proprie banche di proseguire ad erogare finanziamenti, che altrimenti scarseggeranno.

Ma -comunque andrà- l’effetto finale in Europa non dovrebbe essere molto diverso: è probabile che i tassi di sconto delle banche centrali si manterranno indietro rispetto all’innalzamento quasi certo della curva dei tassi d’interesse, con il rischio (ovvero l’opportunità, per Paesi come il nostro) che la Divisa Unica torni a svalutarsi rispetto al resto del mondo. Questo significherà un nuovo apprezzamento del Dollaro, o quantomeno una sua maggior forza di fondo, cosa che porta ad escludere nel medio termine (entro l’anno, dunque) il tanto ventilato rimbalzo verso il basso del biglietto verde.

E LE BORSE TRABALLERANNO, MA NON CROLLERANNO

In conclusione tanto le tensioni geopolitiche (con il conseguente rischio che l’inflazione si consolidi verso l’alto), quanto la probabile risalita dei tassi d’interesse, come pure la possibilità che il Dollaro torni ad apprezzarsi, fanno pensare nel medio termine a scarse performances delle borse mondiali, i listini delle quali peraltro si sono ridimensionati sino ad oggi quasi solo per l’incidenza negativa della discesa dei titoli più speculativi e dove i moltiplicatori del reddito erano ascesi a livelli eccessivi.

Ma la situazione attuale di tassi di interesse reali negativi, di elevata liquidità (con la possibilità che essa permanga a lungo in circolazione nonostante i proclami delle Banche Centrali) e anzi gli si sommi anche l’effetto dell’accelerazione della velocità di circolazione della moneta, sono tutti fattori che fanno ritenere sia relativamente improbabile un crollo delle borse, pur in presenza di un incremento delle tensioni internazionali.

LA COMPAGNIA HOLDING

A meno di importanti conflitti armati dunque, lo scenario condiviso dalla maggioranza degli osservatori non prevede alcun crollo delle borse. Ma una maggior volatilità invece sì, a partire dalla giornata odierna. Ed è sempre più difficile discernere tra i due fenomeni senza perdere la bussola di una navigazione sicura.

Stefano di Tommaso




IL DILEMMA DEI MERCATI

Tanto tuonò che piovve: le borse si avviano a una correzione. Ma quanto importante?

 

Le borse europee tengono botta galleggiando su di un sostrato di maggior liquidità e ottimismo, quelle asiatiche e americane sentono tuttavia franare il terreno sotto i piedi e, soprattutto, i titoli più colpiti dal bradisismo della correzione dei mercati sono quelli che sino a ieri avevano dato le maggiori soddisfazioni: i tecnologici. Per assurdo la loro parabola ha seguito da vicino quella delle fortune politiche di Donald Trump, che -se vogliamo ascoltare i media- sembrava invece il loro più acerrimo rivale.

 

Persino le banche centrali, che negli ultimi mesi stanno facendo di tutto per rendersi prevedibili, affidabili e di supporto alla crescita economica, stavolta deludono il mercato, dal momento che tirano dritto per la loro strada anche quando -dato il momento di dubbi, soprattutto geo-politici- ci si poteva aspettare anche da parte loro qualche dubbio o qualche temporeggiamento in più sulla fine degli stimoli monetari e il ritorno a un livello di tassi di interesse più elevati del “quasi zero” che è andato in onda per qualche anno.

I banchieri centrali sanno di avere pochi strumenti a disposizione per il momento in cui la fine del ciclo economico positivo si manifesterà. E per questo motivo (oltre che per far contenti i loro azionisti: i banchieri commerciali) vogliono riportare più in alto l’asticella dei tassi. Ovviamente non possono farlo con una “doccia fredda” come dicono gli Inglesi e -per descrivere il programma di normalizzazione intrapreso- la Yellen l’altro ieri si è lasciata scappare una metafora tipicamente anglosassone, dicendo che: sarà noioso come “osservare la vernice che si asciuga”. La stessa cosa succederà ai mercati finanziari?

Ma se l’inflazione indietreggia, il prezzo dell’energia rimane più stabile di un monolite di granito, la dinamica salariale non s’incendia, la crescita economica mantiene il suo ritmo e, addirittura, i rendimenti dei titoli obbligazionari scendono, i mercati si chiedono per quale motivo le banche centrali dovrebbero tirar dritto “a prescindere”? Qui però le cose si complicano perché-si sa- i banchieri perseguono tutti il mito della “forward guidance” cioè della capacità di influenzare il corso degli aventi sulla base della credibilità dei propri annunci e, se avevano annunciato per tempo qualcosa per l’intero 2017, allora vogliono far vedere che non scherzavano. Nemmeno quando il “mood” è cambiato e quel programma non piace più.

LA VERA QUESTIONE RIGUARDA LA CRESCITA ECONOMICA GLOBALE

La delusione che proviene dai banchieri centrali tuttavia può contribuire a intonare negativamente gli animi, può alimentare l’aspettativa che si ridurrà la grande liquidità che sino ad oggi ha sostenuto i mercati, ma non può spiazzare gli investitori più di tanto se il resto del quadro economico generale non cambia davvero. Anche perché la liquidità dei mercati è alimentata comunque in modo consistente dal flusso rilevante di profitti e dal moltiplicatore globale del credito.

E qui però casca l’asino! Quali sono dunque le reali prospettive per l’economia globale? Gli analisti finanziari ritengono che il destino delle borse nei prossimi mesi dipenda principalmente dalla risposta che la maggioranza degli operatori riuscirà a darà su questa domanda. Il sottoscritto piuttosto di recente si è espresso inequivocabilmente in termini positivi al riguardo (si legga l’articolo “Red Shift” cliccando sul seguente link: http://giornaledellafinanza.it/2017/06/05/red-shift/).


Ma il dibattito scende poi in profondità in relazione all’impatto che le nuove tecnologie potranno avere in termini di spiazzamento dei lavoratori che dovrebbero riuscire a riorientarsi per da seguito alle esigenze dei datori di lavoro da una parte e in termini di avanzamento della produttività del lavoro dall’altra. Anzi: gli interrogativi proseguono in termini di impatto inflazionistico che ne può conseguire e arriva a toccare l’affidabilità delle rilevazioni statistiche su cui si basano le politiche economiche e la loro capacità di tener conto dei fenomeni della sharing economy o del commercio online.

E qui la nostra narrazione si ferma: se accettiamo il principio che nell’immediato non conta tanto ciò che sta succedendo davvero bensì quello che la maggioranza degli operatori ritiene plausibile, ecco che il dilemma dei mercati si materializza in tutta la sua consistenza, lasciando ulteriormente spazio ad un corollario: l’indeterminatezza del movimento dei mercati in corso sussisterà sino a quando non potranno emergere informazioni più complete circa le tendenze economiche di fondo.

WHAT NEXT?

Aspettiamoci perciò un’estate intera di tentennamenti anche se, a modesto avviso di chi scrive, non ci sono catastrofi all’orizzonte. È chiaro che se l’oceano pacifico dei mercati si increspa un po’, allora i risultati delle puntate di Borsa dipenderanno moltissimo dal momento in cui si è entrati su un titolo e da quello in cui se ne esce. Ben più di un operatore sta solo aspettando infatti qualche storno per trovare buone occasioni d’acquisto e questa mi fa ragionevolmente pensare che il mio ottimismo non sia del tutto arbitrario!

 
Stefano di Tommaso