QUOTARSI IN BORSA, O NO?

A Piazza Affari il 2018 è stato un anno di vacche magre per le “initial public offers” (IPOs: collocamenti di azioni destinate ad essere quotate in Borsa) dal momento che fino a ottobre sono state solo due le Ipo che la Borsa di Milano ha visto completate e riguardano Carel Industries e il Gruppo Piovan.

 

DUE SOLE MATRICOLE SUL LISTINO PRINCIPALE

Carel è un’azienda padovana che si occupa di sistemi di condizionamento dell’aria. È stata quotata lo scorso 11 giugno e la sua capitalizzazione di Borsa, nonostante il periodo terribile che sta attraversando Piazza Affari, ha guadagnato il 34,5%. L’IPO di Carel si è tradotta in una quotazione in borsa con una capitalizzazione di mercato pari a 720 milioni ossia circa 3 volte il fatturato.

Piovan invece si è quotata in Borsa la settimana scorsa (ne scriviamo più diffusamente più avanti). Si occupa di progettazione, installazione e manutenzione di impianti per linee di produzione per le materie plastiche e nasce a Padova nel 1934 come officina specializzata nella meccanica di precisione.

PIOVAN, UNA SCELTA IN CONTROTENDENZA

Considerando che l’Ebitda margin di Carel è simile a quello di Piovan, sarebbe stato possibile dedurre che la capitalizzazione di Piovan potesse arrivare a circa 600 milioni di euro. Invece, dato il momento particolarmente negativo, il prezzo di offerta delle azioni Piovan è stato fissato in 8,3 euro per azione, al livello minimo della forchetta di prezzo indicata all’inizio e compresa nel range tra gli 8,3 euro e i 10,1 euro. Al prezzo di quotazione iniziale delle azioni Piovan, la capitalizzazione della società alla data di avvio delle negoziazioni è stata pari a 423 milioni di euro: circa il 50% in meno.

Una scelta, quella del gruppo Piovan, in controtendenza con quello che sta avvenendo in Europa, dove negli ultimi mesi sembra diffondersi una certa allergia alla quotazione in Borsa. Il fondatore, Nicola Piovan si è limitato a ricordare: “Il nostro è un progetto di lungo periodo, siamo un’azienda internazionale con l’85% delle vendite all’estero, non abbiamo debito, andiamo in Borsa per crescere”.

TUTTE LE QUOTAZIONI DEL 2018

Secondo uno studio della società di revisione Price Waterhouse Cooper la raccolta di capitali per mezzo della quotazione in Borsa si è dimezzata nel terzo trimestre 2018, fermandosi a 3,9 miliardi di euro rispetto agli 8,3 dello stesso periodo del 2017. In Italia, nel terzo trimestre sono stati raccolti 144 milioni. Per 12 Ipo nel 2018. È andato bene l’Aim, dedicato alle piccole e medie imprese e alle Special Purpose Acquisition Vehicles (SPAC: società-veicolo che vengono costituite da investitori professionali e quotate in Borsa prima di “contenere” un’impresa candidata alla quotazione. Una volta che ne hanno individuata una si fondono con la medesima e si trasferiscono al listino principale). Mentre quest’ultimo, il Mercato Telematico Azionario (MTA), a causa dei mercati incerti, rischia di eguagliare il record negativo del 2009: anche allora ci furono due sole quotazioni.

DILAGA LA MODA DELLE SPAC

Il fenomeno delle SPAC è dilagato sul mercato: ad oggi ne risultano quotate ben 27, delle quali tuttavia soltanto 12 (meno della metà) ha già definito la “business combination” (la fusione con un’impresa operativa). Dei 3,7 miliardi raccolti sul mercato tuttavia ne è stato investito soltanto 1,2 miliardi. La motivazione sta innanzitutto nelle valutazioni che possono soddisfare i requisiti delle prime: se non sono sufficientemente basse i promotori non guadagneranno abbastanza dell’investimento. Parliamo dunque di multipli decisamente ridotti rispetto a quelli di una IPO!

Per fare un esempio, per la Piovan, quotata “a sconto” a 8,3 euro per azione, il multiplo Ev/Ebitda (valore d’azienda al lordo dei debiti diviso margine operativo lordo) è pari a 13,2 volte, il rapporto prezzo /utili (p/e) a 21,6 volte. Nell’esaminare a quali valori medi d’azienda hanno realizzato la business combination le SPAC, forse arriviamo alla metà di questi multipli. Eppure numerose aziende hanno scelto la strada delle SPAC, tanto per la celerità e la non aleatorietà dell’operazione, quanto per l’assenza di costi iniziali.

QUALI VALUTAZIONI

Peraltro la valutazione di Piovan, se rapportata a un panel di titoli comparabili, è assolutamente nella media: al 18 settembre scorso l’Ev/Ebitda 2017 medio infatti per il comparto dei comparabili di automazione industriale era di 14,1, il p/e di 24,2. In questo basket sono compresi i seguenti titoli: Ag Growth (quotato a Toronto), Alfa Laval (Stoccolma), Ats (Toronto), Bobst (Zurigo), Gea Group (Francoforte), Hillenbrand (New York), John Bean (New York), Krones (Francoforte). La media dei titoli di società di engineering italiane esprimeva invece, sempre al 18 settembre scorso, un multiplo Ev/Ebitda di 14,1 e un p/e di 26,3 volte. Di questo secondo basket fanno parte tutte società quotate a Piazza Affari: Biesse, Carel, Datalogic. ElEn, G.I.M.A.TT, Ima, Interpump, Prima industrie. Ovviamente nell’ultimo mese quasi tutte le borse hanno visto ridurre le loro quotazioni, e in particolare quella di Milano.

HANNO RINVIATO LA QUOTAZIONE

Ad aver rallentano sulla decisione di quotarsi in Borsa nel 2018 sono state numerose aziende, anche di grandi dimensioni: da Sigaro Toscano, parte dell’ex monopolista di Stato del tabacco, controllata dalla famiglia Montezemolo, che ha rinviato la quotazione proprio la scorsa settimana.

Per la stessa ragione (baraonda sui mercati) lo scorso 29 maggio aveva rinunciato alla quotazione la Public Utility della Regione Toscana Estra.

Grande dietrofront anche quello del colosso della ristorazione e distribuzione delle specialità alimentari italiane Eataly, che ha posticipato al 2019 la decisione in merito all’Ipo.

Per non parlare della controllata di Fiat Chrysler nelle tecnologie elettroniche: Magneti Marelli. Valutata 5-6 miliardi di Euro, sta prendendo in considerazione una alternativa alla Borsa con il fondo americano Kkr. In stand-by anche Alpitour (dove ha di recente investito Tamburi e Associati e Nexi (la risultante dell’unione tra Cartasì e ICBP).

Per le cliniche della famiglia Garofalo (GHC), l’IPO sull’Mta invece sembra che ci sarà a breve e il collocamento di azioni sarà tutto in aumento di capitale (riservato agli istituzionali), puntando a un flottante del 25% da momento che il programma prevede a crescita basata su acquisizioni. I vertici della società hanno infatti dichiarato: “nonostante la turbolenza dei mercati, considerando la valenza strategica del programma di acquisizioni e di crescita del Gruppo, GHC continua il suo percorso verso la quotazione e non ci sarà vendita di azioni da parte dei soci di controllo” ( la stessa famiglia Garofalo ).

Il mercato oggi è divenuto estremamente selettivo nel recepire nuove azioni da quotare al listino talchè sono avvantaggiate le aziende dotate di chiaro vantaggio competitivo, elevata e credibile crescita e forte attività di export. Aggiungeremmo poi che vogliano accettare -in tale congiuntura- anche di vedere ridotta significativamente la valutazione attribuita loro dal mercato, come dimostra il caso Piovan.

IL MERCATO È ANCORA RICETTIVO PER LE IMPRESE MIGLIORI

Sul fronte delle valutazioni di coloro che investono, sono dunque ancora potenzialmente ricettivi a chi offre opportunità interessanti. Perciò riteniamo che gli imprenditori con simili caratteristiche non dovrebbero farsi spaventare dall’incertezza e avviare ugualmente percorsi di quotazione, tenendo conto del fatto che non si approda alla Borsa per qualche settimana, ma guadando al futuro e tenendo conto anche di tutti gli altri vantaggi di chi non è interessato a cedere la propria azienda.

Questo tanto più se i timori di una nuova crisi del credito nel nostro Paese sono fondati. Molte banche infatti, a fronte del calo del loro rating e delle prospettive di deterioramento di quello delle aziende clienti, potrebbero essere costrette a chiedere al mercato nuovi aumenti di capitale, riducendo, sino a quando non li avranno effettuati, l’erogazione di prestiti alla clientela. La crescita e l’internazionalizzazione invece -si sa- vanno finanziati. E l’ottenimento di capitali freschi da chi non li chiederà indietro dopo 4-5 anni è il modo migliore per fare programmi in tal senso.

Stefano di Tommaso




IN BORSA PER $100 MILIARDI XIAOMI, L’APPLE CINESE

Esiste una “nuova Cina” dove la realtà può ampiamente superare l’immaginazione, al limitare della rivoluzione maoista con le più ardite fantasie del capitalismo più sfrenato, il cui paradigma socio-economico è forse ancora più difficile da assimilare per noi occidentali del Vecchio Continente di quanto possa esserlo la California della Silicon Valley.

 

La prova del fatto che esiste questa iper-Cina è la fantasmagorica quotazione in borsa della cosiddetta “nuova Apple”, Xiaomi: la start-up tecnologica più celebre dell’ex-Celeste Impero. Partita nel 2010 e già da tempo divenuta “Unicorno” (come si dice nel gergo dei capitalisti di ventura quando una nuova società supera il valore di un miliardo di dollari), gli esperti che ne hanno curato lo sbarco sul listino della borsa dì Hong Kong ne hanno decretato il successo attribuendole una capitalizzazione della bellezza di 100 miliardi di dollari (si, avete letto bene) dopo che le aspettative per il bilancio di quest’anno la rivelano in perdita per oltre un miliardo di dollari, sebbene sia giunta in soli 7 anni a un fatturato di 18 miliardi.

FIGLIA DELLA NUOVA CINA : CAPITALISTA E SUPER-TECNOLOGICA

Dalle nostre parti sarebbe forse bastato che arrivasse a perdere soltanto un milione perché le bande gialle di precipitassero a sirene spiegate ai suoi cancelli ad arrestarne il titolare con l’accusa di bancarotta, magari nelle more di riscuotere qualche credito verso lo Stato e di esserne scagionato! Ma nella Cina sud-orientale dalle grandi metropoli del futuro, la cui società civile esprime questo nuovo paradigma iper-pluto-digitale no, non è bastato che Xiaomi arrivasse a perdere un miliardo per impedirne la quotazione in borsa delle sue azioni, facendone ricchi i soci della prima ora, e permettendole di raccogliere sul mercato oltre una decina di miliardi di dollari di nuove risorse, che saranno tutti reinvestiti per crescere e (forse un giorno) prosperare.

Super tecnologica, avanzatissima non soltanto per le monorotaie che sfrecciano alla velocità del suono sopra le sue nuove città, futuristica persino nei sistemi di pagamento con i telefoni cellulari e strapiena di quei dollari che i fondi di investimento di “venture capital” della Silicon Valley d’oltre-oceano le hanno messo in tasca per sviluppare nuove tecnologie e nuove imprese, in quella Cina del futuro divenuto realtà può oggi esistere ed esprimere forte valore la più estrema di tutte le aziende che hanno scelto di provare a percorrere nuove strade, persino quando esse incrociano quelle di colossi globali come Apple o Samsung con prodotti più competitivi.

Agli investitori che si chiedono se Xiaomi valga davvero 100 miliardi di dollari, il mercato finanziario sembra aver risposto subito: al momento dell’annuncio le azioni delle più dirette concorrenti di Xiaomi come ZTE e Lenovo sono crollate! Ad accompagnarla sul mercato finanziario come sponsors si annoverano peraltro i più grandi nomi della finanza mondiale come Goldman Sachs, Morgan Stanley, Credit Suisse, Deutsche Bank, JP Morgan Chase e altre 6 banche cinesi.

ALL’INSEGNA DELLA FANTASIA E DELL’UMILTA’

Nota anche con il marchio MI che contraddistingue i suoi prodotti di ottima qualità, venduti in tutto il mondo a prezzi stracciati, Xiaomi è un’espressione cinese che sta a indicare l’umiltà del miglio (il cibo dei poveri di una volta) e che, nelle intenzioni di Lei Jun, il visionario fondatore che ha tratto la sua ispirazione imprenditoriale leggendo una biografia di Steve Jobs (il più noto tra i fondatori di Apple) avrebbe dovuto indicare lo spirito con il quale le nuove generazioni asiatiche avrebbero potuto inseguire il loro riscatto industriale. Quel che è successo poi è stato l’esatto opposto!

In Occidente fino ad oggi per le start-up di successo è prevalso un “modello di business” completamente diverso da quello di Xiaomi: estremamente focalizzate su una particolare tecnologia, con una proprietà molto diffusa e con un percorso evolutivo facilmente prevedibile e rassicurante.

Mentre la campionessa cinese di creazione di valore dopo Alibaba (che però si è quotata nel 2014, in un contesto di mercato molto più favorevole) sembra essere proprio tutto il contrario: controllata da un gruppo ristretto di azionisti, dalle iniziative deliberatamente imprevedibili e tentacolare nei suoi numerosissimi e diversissimi prodotti che uniscono design, tecnologia e fantasia, Xiaomi è riuscita a definire un nuovo modello di business che (al momento) non ha avuto bisogno di mostrare profitti e focalizzazione per risultare vincente.

Certo, in Occidente la mano pubblica eroga ben pochi sussidi alle nuove imprese che vogliono inseguire le loro fantasie, mentre nella Cina statalista di qualche anno fa, che doveva a tutti costi esprimere investimenti e piena occupazione per inseguire il primato della crescita economica e del progresso digitale, trovare le risorse iniziali per provarci è stato forse più facile.

E così quando si è trattato di incrementare le dimensioni aziendali Lei Jun ha preferito crearsi una rete di fornitori strategici terziarizzati, piuttosto che provare a investire direttamente nelle strutture, affinché anch’essi potessero godere del medesimo supporto statale e risparmiarsi i mal di testa della crescita interna.

DAI PRODOTTI AI SERVIZI ALL’ECOSISTEMA “MIUI”

Xiaomi oltre che aver prodotto negli ultimi sette anni oltre 190 milioni di telefoni cellulari, si è messa a fare proprio di tutto: dai computer portatili alle biciclette, agli aspirapolveri-robot che puliscono la casa, alle vaporiere per il riso, alle lampade intelligenti, ai giocattoli, fino ad erogare servizi finanziari. E il prossimo passo consiste nel fornire a tutti questi strumenti un‘interconnessione intelligente per tenerli sotto controllo e fare dell’insieme dei propri prodotti a marchio un “ecosistema” simile a quelli sviluppati dalle altre grandi aziende del settore tecnologico, come Apple, Sony, Samsung eccetera.

Anzi: è proprio dai servizi a valore aggiunto che la sua fedelissima base di clientela (giovane, motivata e rampante) è disposta a pagare a Xiaomi.
È dai suoi 9 milioni milioni di “fans” che partecipano in continuazione ai “forum MIUI” (MIUI è il nome del sistema operativo proprietario di Xiaomi, sebbene sia comunque basato su Android) contribuendo a fornire idee e soluzioni che arrivano per la maggior parte a Xiaomi i ricavi da servizi che rappresentano i maggiori margini di guadagno, i quali invece scarseggiano nella produzione di cellulari (sono stimati intorno ad un mero 1%) e degli altri oggetti da questa venduti, sui quali ha dichiarato che non marginerà mai più del 5%.

Come dire che Xiomi ha venduto fino ad oggi centinaia di milioni di prodotti senza guadagnarci affatto per poi arrivare a conquistare una fetta di mercato cui è stata capace di vendere servizi a valore aggiunto su internet. Una strategia paragonabile più a quella di Google che di Apple, sebbene possa essere percepita ancora più estrema e pericolosa (quando il boom delle tecnologie digitali dovesse mostrare segni di stanchezza).

IL PROPRIO VENTURE CAPITAL TECNOLOGICO

Xiaomi cavalca tuttavia con molta intelligenza l’onda favorevole di entusiasmo sulla quale essa poggia le sue fortune: sino ad oggi non solo ha venduto centinaia di milioni di prodotti ma soprattutto ha “esternalizzato” il suo ufficio Ricerca & Sviluppo “incubando” al proprio interno la nascita di 29 nuove aziende dotate di idee di prodotto brillanti e in qualche modo interconnesse alle proprie e, soprattutto, “sponsorizzando” altre 55 start-up le quali, evidentemente ancora più meritevoli di attenzioni e capitali, sono state finanziate da Xiaomi ma sono rimaste indipendenti!

Al di là dell’ottimo intento socio-economico la società ha fatto bene i suoi conti, ottenendo dall’iniziativa un flusso impetuoso di idee di prodotto che le ha permesso di contenere i costi interni e di cavalcare il suo successo.


Ma anche in questo l’ancora quarantenne Lei Jun -le cui fortune personali sono oggi valutate quasi 13 miliardi di dollari- ha voluto seguire il modello di Steve Jobs: non copiare la Apple bensì il suo fondatore, innovando continuamente e infrangendo ogni vecchia abitudine (ma anche procurandosi le risorse per farlo)!

Stefano di Tommaso




BOOM DEI MINIBOND: AUMENTA LA LORO DURATA, SE NE RIDUCE IL COSTO E CRESCE IL NUMERO DI IMPRESE EMITTENTI

Continua a crescere il numero di Mini-bond emessi e sottoscritti (sia private placement che public offering) grazie al crescente numero di imprese che scelgono di prendere le distanze dai tradizionali canali bancari (tipici della nostra cultura) sperimentando opportunità di finanziamento alternative capaci di riservare molteplici vantaggi nonché quello di sconfiggere le timidezze e diffidenze che gli imprenditori ancora oggi nutrono verso i mercati finanziari.

 

Un fattore che potrebbe aver stimolato questo exploit, è quasi certamente la “caduta” di diversi istituti bancari (soprattutto a Nord-Est) che per decenni hanno monopolizzato e centellinato l’erogazione di risorse finanziarie.

Di seguito il grafico delle emissioni di Minibond quotati al comparto Extra Mot Pro della Borsa Italiana fino al 31.12.2016.

Se fino a quella data avevamo assistito a una crescita costante dello strumento, è nell’ultimo trimestre del 2017 che si è registrato un vero e proprio boom sui minibond, privilegiati soprattutto dalle Pmi rispetto alla Borsa e all’intervento del Private Equity anche grazie alla piena deducibilità degli interessi (entro i limiti del 30% del Reddito Operativo Lordo) e alla scarsa “invasivitá” dello strumento nella gestione e nella “governance aziendali.

Nel solo periodo Ottobre-Dicembre Il numero delle emissioni è fortemente cresciuto: quelle inferiori ai 50 milioni di euro sono state 28 per 147 milioni. Dato che ha portato ad un ammontare complessivo erogato nel 2017 a quota 1,805 miliardi e sono guidate principalmente dal comparto manifatturiero, seguite poi da quello del Food&Beverage, Utilities e Media & ICT.

Ma anche le operazioni di taglio molto grande (più di 150 milioni) sono aumentate, facendo registrare in totale a fine 2017 oltre 300 emissioni per più di 14 miliardi.

Parallelamente alla forte crescita registrata, si è assistito anche ad una contrazione del taglio medio dei bond (sceso a 7.3 Mio), nonché ad una cedola media scesa al 5.13% ed infne ad un “time to maturity” (durata) finalmente superiore ai 5 anni.

La riduzione del ticket evidenzia una maggiore attenzione ed interesse da parte delle PMI verso il mercato del debito e dei capitali riservato, fino a pochi lustri fa, alle sole realtà di maggiore dimensione. Difatti, se fino a pochi anni fa il campione emettente di minibond era presidiato da realtà con fatturato superiore ai 100 Mio., da pochi anni a questa parte, questo è cambiato radicalmente tanto da portare a 40 il numero complessivo delle società emittenti con ricavi inferiori ai 10 Mio. Anche la durata media è cresciuta, sebbene il maggior numero di operazioni si sia concentrato sulla scadenza dei 5 anni.

I Minibond vengono visti dall’imprenditore come alternativa all’ingresso di fondi di Private Equity per sostenere gli è investimenti rivolti allo sviluppo del business. Per ottenere un Minibond infatti resta essenziale poter esibire un buon Piano Industriale, il medesimo che risulta fondamentale per accedere agli altri strumenti del mercato dei capitali. E nel piano industriale può evidenziarsi un’ottima capacità finanziaria prospettica anche laddove gli ultimi bilanci fossero stati particolarmente avari di risultati.

I Minibond vengono visti dall’imprenditore come alternativa all’ingresso di fondi di Private Equity per sostenere gli è investimenti rivolti allo sviluppo del business. Per ottenere un Minibond infatti resta essenziale poter esibire un buon Piano Industriale, il medesimo che risulta fondamentale per accedere agli altri strumenti del mercato dei capitali. E nel piano industriale può evidenziarsi un’ottima capacità finanziaria prospettica anche laddove gli ultimi bilanci fossero stati particolarmente avari di risultati.

Un altro interessante aspetto dei Minibond é la presenza di possibili opzioni di riacquisto o rimborso, come mostrato da questa statistica:

Ecco di seguito una tabella dei principali investitori:

ASPETTI FISCALI E COSTI:

§ Deduzione dei costi inerenti l’emissione ‘per cassa’ (esempi: commissioni , costi società di rating, provvigioni di collocamento, costi Advisor, compensi legali e altri);

§ Richiesta codice ISIN a Banca d’Italia (in caso di dematerializzazione del titolo) e accentramento dei titoli presso un ente autorizzato: costo iniziale c.a. 2.000 € e di mantenimento c.a. 1.500€/anno

§ Certificazione bilancio di esercizio: circa € 15.000

§ Fee Advisor: Una Tantum tra 1% e 2.5% del collocato

§ Fee Arranger: Una Tantum tra 0.5% e 1.5% del collocato

§ Studio Legale: da € 15.000 a € 25.000

§ Emissione del Rating: da € 15.000 a € 20.000 per le PMI. Dal secondo anno -40%.

Di seguito l’elenco completo delle emissioni fino a 50 milioni di controvalore e la loro ripartizione per settori industriali di appartenenza:

 

Stefano di Tommaso

Giorgio Zucchetti




STRATEGIE E MARKETING PER LE PICCOLE AZIENDE

Le grandi macro tendenze (globalizzazione, digitalizzazione, diffusione dell’intelligenza artificiale, demografia e invecchiamento della popolazione…) senza dubbio influiscono più velocemente e più pesantemente di quanto si possa comunemente ritenere su qualsiasi attività d’impresa e ogni genere di azienda dovrebbe tenerne conto per aggiustare continuamente il tiro e chiedersi se I propri prodotti sono ancora competitivi e se, opportunamente reinventati e manipolati, hanno ancora spazio per crescere.
La necessità di rivedere la competitività e l’attrattivitá dei prodotti porta quasi sempre con se la conseguenza di dover rivedere radicalmente anche la strategia e la struttura della culla dove essi nascono e si realizzano: l’azienda. Ma fare strategia d’azienda è da sempre un’attività complessa e poco idonea al modo di pensare ed agire delle piccole e medie imprese. Di seguito vi propongo una breve “guida galattica per autostoppisti” per indirizzare anche I più piccoli imprenditori verso l’impostazione di una riflessione strategica di fondo.

 

Molto spesso quando si parla di strategie aziendali il pensiero vola subito a ciò che fa il dirigente tipico delle grandi multinazionali: esamina moltitudini di dati e analisi di mercato per cogliere delle indicazioni tendenziali, le confronta con le possibilità dell’impresa di adeguarsi e creare o modificare la propria offerta, analizza I dati gestionali per valutare le possibili manovre e individuarne I costi e le economie di scala, per poi procedere con la definizione di piani operativi da sottoporre al consiglio di amministrazione o a qualche comitato esecutivo.

Tutta roba inarrivabile per la piccola e media impresa che spesso si pone sí il problema di guardare più in là del proprio naso, ma non ha alcuno degli strumenti appena citati: non ha studi di mercato (anche perché costano), non ha laboratori di ricerca e sviluppo né sistemi di elaborazione dei dati industriali o gestionali che permettano di evincere delle tendenze, non ha mai fatto piani e programmi formalizzati e non ha nemmeno un consiglio di amministrazione o un comitato di dirigenti che si riunisce periodicamente.

Eppure esistono modi più semplici per affrontare ugualmente l’argomento della verifica della posizione strategica dell’impresa, del modello di business e della soddisfazione della sua clientela, quantomeno allo scopo di comprendere quali elementi della formula imprenditoriale generano davvero valore nell’attività caratteristica di produzione e vendita di beni e servizi alla clientela.

IL PRIMO PASSO

Il primo punto da chiedersi nel cercare di mettere a fuoco le questioni fondamentali che anche un piccolissimo imprenditore dovrebbe porsi, riguarda la più importante delle domande: cosa vuole il mio cliente e come può soddisfare le sue richieste in alternativa a ciò che gli propone la mia impresa?

I clienti acquistano I miei prodotti perché vi percepiscono un valore. Comprendere quali sono gli acquirenti dei miei prodotti e come si differenziano da quelli della concorrenza, quali caratteristiche geografiche, sociali e quali aspettative di servizio esso hanno risulta fondamentale per comprendere quale valore essi trovano nella mia impresa e nei miei prodotti.

La questione è la più semplice cui si possa pensare nel cercare di asserire una formulazione strategica al riguardo della propria impresa, ma anche la più fondamentale. Rispondervi correttamente significa comprendere meglio possibile tanto I bisogni fondamentali della mia clientela quanto riuscire a interpretare correttamente l’arena competitiva e di conseguenza I punti di forza della mia offerta rispetto a quelli dei miei concorrenti.

Ogni imprenditore che segue attivamente la gestione della propria azienda conosce, oltre ogni ragionevole dubbio, le caratteristiche della concorrenza e il panorama di prezzi e proposte che risultano succedanei o complementari alle proprie. Tuttavia è attraverso la comparazione di tali nozioni con quelle della segmentazione della clientela e dell’articolazione delle sue esigenze e l’approfondimento del livello di loro soddisfazione che un imprenditore può iniziare a mettere a fuoco il primo passo della propria analisi strategica. E più riesce ad articolare le risposte a tali domande, a tali comparazioni e alla verifica dei risultati, più egli riesce a porre le basi per un corretto inquadramento di ciò che ne può conseguire in termini di strategia e struttura.

IL SECONDO STADIO

Il secondo passo è quello della messa a fuoco delle caratteristiche della propria offerta rispetto a quelle della concorrenza e rispetto a ciò che supponiamo che il cliente desidererebbe. Per quanto piccola e destrutturata possa risultare la mia azienda io posso sempre riuscire a descrivere nel modo più accurato le caratteristiche della mia offerta, dei miei prodotti, dei servizi che vi risultano collegati e del livello di prezzo nella quale li posiziono rispetto alla concorrenza. La risposta a tale questione comporta anch’essa una formalizzazione del mio posizionamento ma, nella misura in cui riesco a comparare la mia offerta con le alternative a disposizione del mio cliente e con il livello di soddisfazione che vi è collegato posso iniziare ad affermare un concetto fondamentale nella definizione della mia strategia: la mia “Value proposition” (il valore della mia proposta).

Il concetto di value proposition e di come si può pensare di migliorarla risulterà a breve di fondamentale spessore per indicare uno dei punti essenziali di qualunque formula strategica: l’analisi dei miei punti di forza e di debolezza, attraverso i quali riuscirò a delineare il mio vantaggio competitivo. Quando se ne parla non si pensa soltanto al motivo per il quale si può ricaricare un margine sul costo dei fattori di produzione, ma all’intera sfera dei valori percepiti dalla clientela che fanno sì che essa sia disposta a riconoscermi un adeguato valore e dunque a pagarne il prezzo.

Il valore “consegnato” alla clientela promana da ogni angolo dell’organizzazione aziendale: dal suo posizionamento geografico e commerciale al suo marchio e alla competenza che essa esprime, fino alla durevolezza della soddisfazione della propria clientela, alla difficoltà di rimpiazzarne prodotti e servizi, alla velocità di adeguamento della propria offerta alle variazioni delle esigenze di mercato, e contemporaneamente alla sicurezza, eticità e validità intrinseca della propria offerta.

Quel valore fornito insieme a prodotti e servizi dipende spesso anche dalla capacità delle persone-chiave dell’organizzazione aziendale, che possono andare dallo storico commesso di bottega all’ingegnere dei sistemi di manutenzione, dalla storicità delle figure commerciali di riferimento ad un’aggressiva campagna di comunicazione. È spesso un insieme di fattori ma è importante individuarli quantomeno per non rimuoverli inavvertitamente.

IL TERZO E PIÙ DIFFICILE PASSAGGIO

Seguendo le considerazioni sopra riportate abbiamo visto che ragionamento strategico risulta di vitale importanza per ogni genere di impresa e può esplicarsi talvolta anche solo con considerazioni qualitative e generiche, quindi persino in assenza di dati gestionali e verifiche di mercato. Spesso tuttavia il successo pratico che può derivare dal mettere in pratica le considerazioni sopra riportate dipende anche da un altro essenziale fattore : la capacità dell’impresa di erigere valide barriere all’entrata della concorrenza.

Ogni impresa ha elementi di unicità e delle caratteristiche particolari, che si riflettono tanto nel fascino che essa può promanare quanto nella qualità dei suoi prodotti e servizi, nel livello di qualità dei medesimi. Ma se quegli elementi sono facilmente riproducibili dalla concorrenza, se gli investimenti necessari a qualcun altro per avere successo nell’aggredire il mio mercato sono bassi, se ci sono validi sostituti dei miei prodotti e servizi allora io devo fare qualcosa per incrementare l’unicità della mia proposta, la dipendenza della mia clientela, la difficoltà di essere facilmente sostituibile.

Il tema è di grande importanza perché oggigiorno l’arena competitiva evolve così velocemente che non è letteralmente possibile fare programmi e investimenti se non si riesce a configurare un orizzonte temporale sufficiente nel quale I nostri prodotti possono avere successo per trovare un ritorno adeguato agli sforzi e ai denari impiegati.

A volte non si tratta perciò di mere tattiche per poter mantenere prezzi elevati in presenza di validi ed economici sostituti, o di arguzie di breve termine per riuscire a mantenere artificialmente degli spazi di mercato che in realtà non esistono più. Qualsiasi organizzazione aziendale deve riuscire a dotarsi di una propria unicità e di un suo “fascino” implicito che può permetterle di esprimere valore nel tempo. Se non ci riesce, anche laddove la velocità di rinnovamento del mercato non sia alta, c’è ugualmente il rischio che quest’ultimo evapori perché magari è il personale che trova facile spostarsi altrove o perché non si riesce a finanziare il rinnovamento.

La costruzione di valide barriere all’entrata della concorrenza quasi mai è solo questione di quattrini. Molto spesso è il risultato di una strategia vincente e di un ragionamento strategico integrato, ma quasi sempre è un fattore vitale. Anche laddove esse non sembrano essenziali, riuscire a erigere difese strategiche risulta essenziale per avere un orizzonte temporale adeguato a limitare I danni di un attacco esterno, di un esodo interno o di un brutale rimpiazzo dovuto a tecnologie innovative o a concorrenza sleale. Ci sono mille ragioni per le quali la concorrenza può farci dei danni, ma se si sono riuscite a costruire valide “barriere all’entrata” si avrà probabilmente il tempo di reagire o di ridimensionare utilmente l’azienda.

IL “TICKET MINIMO” DEL BUSINESS

A volte fanno parte di tale ragionamento le necessarie dimensioni minime aziendali per poter chiudere il cerchio di una idonea proposizione di valore alla clientela. Capita che se sono troppo piccolo non riesco ad esprimermi e nemmeno riescono ad esprimere valore, con la mia organizzazione, I miei prodotti. Se non riesco ad avere una diffusione capillare della distribuzione, se non riesco ad esprimere autorevolezza, se non riesco a fare adeguati investimenti, se non riesco a trovare efficienza nella produzione, allora tutti gli altri ragionamenti rischiano di passare in secondo piano perché sono privo di alcune leve fondamentali per riuscire a sostenere la competizione.

Il ragionamento è di assoluta ovvietà e, pur tuttavia, molte imprese italiane ricadono in tale fattispecie di mancanza di adeguate dimensioni aziendali. Per motivi storici, familiari o di difficoltà di trovare risorse adeguate alla crescita. In quei casi ove si riscontra l’impossibilità di raggiungere le dimensioni minime aziendali per poter mettere in campo una strategia, allora l’urgenza è quella di individuare un network di collaborazioni, una rete di imprese, un possibile acquirente del business o I necessari capitali per la crescita. In molti casi gli imprenditori decidono di vendere per questi motivi, o perché si intravedono all’orizzonte le necessità di spostare la competizione su scala globale, o anche solo perché la distribuzione è diventata inefficace se non si investe di più.

Molte imprese (anche decisamente grandi) che si rivolgono alle banche d’affari per trovare risposta alle loro problematiche strategiche arrivano a dare loro un doppio mandato : da un lato per la quotazione in borsa (o il reperimento di capitali per altra strada) e dall’altro per la vendita del business (il cosiddetto “dual tracking”).

Ma anche I ragionamenti relativi alla misurazione delle dimensioni minime aziendali necessarie non sono poi così ovvi. Esistono ed esisteranno sempre delle strategie di “nicchia”. Esistono ed esisteranno sempre degli ambiti speciali, delle situazioni particolari e delle nuove esigenze che possono essere soddisfatte con vecchi prodotti. Anzi: è proprio in questi casi che trionfa il pensiero strategico e che può persino arrivare a superare il problema dimensionale. E’ per questo che è così importante!

Stefano di Tommaso