LA FORMIDABILE ASCESA DELLE NUOVE IMPRESE IN ITALIA – TERZA PARTE: LA VALUTAZIONE DELLE IMPRESE INNOVATIVE

La Compagnia Holding
Startup è bello. Soprattutto quando attraverso l’innovazione gli imprenditori in erba (giovani o anziani che siano) contribuiscono a renderci la vita migliore con le loro innovazioni, e con sistemi diversi per fare -più comodi o più velocemente o a più basso costo- ciò che facevamo prima con più fatica. L’America come al solito lo ha scoperto prima degli altri e ha sviluppato (soprattutto in California, che è l’America dell’America) un ecosistema idoneo a far nascere, crescere e portare in Borsa le iniziative migliori. Anche per questo le valutazioni sono più alte laggiù. A volte molto più alte: quando gli investitori fanno a gara per sottoscrivere quote di minoranza del tuo capitale soltanto perché sono molti e ben attrezzati a lavorare sulle innovazioni tecnologiche, non c’è da stupirsi se le valutazioni lievitano. Ma come si giunge a formulare queste ultime?

 

INAPPLICABILITA’ DEI NORMALI METODI DI STIMA DEL VALORE

E, in generale, come si fa a valutare un’impresa in erba? Una che non fattura ancora niente o quasi e che promette soltanto di cavalcare un’innovazione, un’intuizione, o un modo diverso di fare le cose? Con i metodi tradizionali non si va molto lontano: inutile parlare di moltiplicatore dei profitti (che per alcune startup non valgono nemmeno quando sono quotate in Borsa: si pensi al caso Tesla, che ha continuato ad accumulare perdite per oltre un quinquennio dopo essere sbarcata al NASDAQ eppure oggi vale oltre un trilione di dollari). Così come è improbabile usare il metodo dei multipli del margine operativo lordo se quest’ultimo ancora non c’è (o quasi); ancor peggio è parlare del patrimonio netto o del valore del brand, dal momento che -per definizione- devono ancora crescere. Forse un po’ meglio sarebbe stimare l’azienda sulla base dei flussi di cassa prospettici, ma con il limite che deriva dal fatto che all’inizio questi saranno negativi, e poi mancano quasi del tutto gli strumenti per identificarli con un minimo di realismo.

LE ALTRE METODOLOGIE

Ma se i metodi tradizionali per valutare un’azienda poco si adattano a quelle che devono ancora nascere, l’industria del “capitale di ventura” ha invece sviluppato delle altre metodologie che, pur ammettendo di essere tutt’altro che una scienza esatta, aiutano nell’esercizio mentale necessario a mettere a fuoco un valore ipotetico. Ovviamente sulla base innanzitutto del Piano di Business che la Startup sarà in grado di pubblicare. Di seguito potremo provare a farne una breve elencazione, anche allo scopo di esplorarli meglio, ma innanzitutto bisogna dare un’occhiata ai fattori più importanti che intervengono nel processo di valutazione di un’impresa innovativa che si accinge a prendere il volo.

GRANDI POTENZIALI E FORTI RISCHI

Il primo criterio che accomuna tutti i metodi di valutazione è quello relativo alle caratteristiche tipiche delle Startup: la potenzialità di generare molto valore in futuro e, possibilmente, capacità di accrescere quest’ultimo nonché la velocità di questa crescita. Si pensi a casi di scuola che oggi costituiscono il grosso del valore di capitalizzazione del listino di borsa americano: Apple, Microsoft, Amazon, Google, Facebook, Tesla… che hanno raggiunto valutazioni elevatissime (sono tutte sopra il trilione di dollari di capitalizzazione di borsa ) soprattutto a causa della loro grande capacità di crescere velocemente e arrivare a dominare ciascuna il proprio mercato.

Accanto alle forti potenzialità però si trovano anche grandi rischi. Le startup per definizione devono ancora mostrare la loro capacità di poter “funzionare” senza fermarsi per strada (come succede a molte di esse) per i motivi più banali: scarsa capacità di pianificazione, lite o separazione dei fondatori, eccesso di concorrenza, difficoltà nel processo di industrializzazione, incapacità di gestire adeguatamente la dinamica finanziaria… quelli qui elencati sono solo alcuni dei numerosissimi motivi per i quali le nuove iniziative non diventano degli “unicorni” (quelle ex-Startup che arrivano a valere almeno un miliardo di dollari).

NON GUARDATE AI PROFITTI FUTURI

In generale bisogna accettare il fatto che -anche le migliori- per un certo numero di anni a venire perderanno quattrini a tutto spiano e, in un certo senso, è anche logico che ciò possa accadere. Se l’impresa infatti ha successo e ha la possibilità di raggiungere il più ampio potenziale di mercato nel minor tempo possibile, dal punto di vista del mercato finanziario sarebbe un errore che il suo management si concentrasse sulla possibilità di portare a casa presto risultati economici positivi, perché ciò ne limiterebbe la capacità di creare molto valore.

Ovviamente ciò non può essere valido in eterno: tutte le imprese a un certo punto della loro vita iniziano a rallentare la crescita e, a quel punto, l’orizzonte di maggior creazione di valore perseguendo a tutti i costi obiettivi di crescita del fatturato incontrano due forti limiti: la capacità di procurarsi ulteriori risorse finanziarie per alimentare quella crescita (laddove i flussi di cassa prospettici non risultano sufficienti a pagare le rate dei debiti e a pagare dividendi a chi sottoscrive gli aumenti di capitale) e la possibilità che, a seguito del successo di mercato, si sviluppi una concorrenza tale da far assopire le speranze di trasformare il successo ottenuto in voluminosi profitti futuri. In fondo al lungo tunnel della crescita insomma i profitti devono pur sempre essere attesi: quanto non lo sono più non basta essere leader di mercato per essere capaci di generare valore per gli azionisti.

I PRIMI TRE FATTORI DI VALUTAZIONE : MANAGEMENT, CAPACITÀ DI CRESCERE E DIFENDIBILITA’ DEL BUSINESS

1) Per valutare perciò una Startup normalmente il primo fattore da considerare è la qualità dell’iniziativa ma anche quella delle persone che le danno vita. La corretta valutazione dell’esperienza, del “carisma” e delle capacità, complessive di cooperare tra tutti i protagonisti sono la base delle tecniche di stima del valore di mercato di una Startup.

2) Il secondo parametro da valutare per asserire la capacità di una Startup di assicurarsi un futuro radioso è la progressione possibile dei ricavi prospettici: la potenzialità di raggiungere presto il successo di mercato resta in molti casi un fattore imprescindibile per asserire la capacitò di quell’impresa di creare valore. E creare valore significa per la Startup essere capaci di generare in ogni istante del proprio percorso di sviluppo la percezione di un accrescimento del proprio valore prospettico, una percezione tale per cui chi si accinga ad acquistarne quote del capitale o a sottoscrivere aumenti di capitale sia disposto a valutarla ogni volta di più. E il primo fattore di verifica è la prima linea del bilancio: quella dei ricavi prospettici.

3) Il terzo e quarto fattore da monitorare nel leggere il piano di business sono fortemente complementari tra di loro: A) l’appetibilità e l’ampiezza del mercato potenziale (quando è possibile definirla) e B) la capacità (prospettica) di difendere il posizionamento di mercato che la Startup andrà a costruirsi e dunque le “barriere all’entrata” dei potenziali futuri concorrenti. Più queste ultime saranno elevate e maggiore sarà- il valore prospettico dell’impresa, atteso che il mercato potenziale che la Startup contribuirà a definire possa risultare sufficientemente ampio e promettente.

ALTRI DUE FATTORI: “TERMINAL VALUE” E ESIGENZE DI CASSA

Soprattutto se le risultanze del Piano di Business della Startup risulteranno positive e promettenti, un fattore di grande rilevanza per poter definire il valore prospettico della medesima consiste nel cosiddetto “Terminal Value”. Cioè quel valore che viene normalmente posto al termine della previsione esplicita dei flussi di cassa futuri e che si basa normalmente non più sulla previsione di altri flussi di cassa, bensì sulla comparazione con altre imprese (già mature) del mercato e con i loro multipli di valutazione.

I multipli a tal scopo più utilizzati sono i seguenti:

  • Rapporto Price-to-earnings (P/E)
  • Rapporto Price-earnings to growth (PEG)
  • Rapporto Price-to-book (P/B)
  • Rapporto Price to Sales (P/S)

Al temine di un periodo di previsione di crescita e sviluppo del mercato potenziale (che non può andare oltre i 5-10 anni, a seconda del mercato) ci sarà infatti una fase di consolidamento dei risultati raggiunti. L’impresa che ne risulterà sarà a quel punto sufficientemente grande da ridurre significativamente il proprio tasso di crescita e relativamente “matura” per essere comparata ad altre imprese oggi già mature del medesimo mercato.

Quel valore prospettico, elevatissimo perché derivante dall’ultimo anno di esplicita previsione del Piano, ma attualizzato ad oggi ad un tasso annuo molto elevato (dal 25% al 50% e a volte anche al 70%) che tenga conto dei notevoli rischi cui la Startup va incontro per arrivare fino a quel punto, è normalmente il primo metodo di valutazione utilizzato dagli investitori dei fondi specializzati nell’investimento del capitale di ventura (ed è per questo chiamato metodo del Venture Capital”).

L’ultimo (e il più difficile) elemento di discernimento che può derivare dalla lettera del Piano di Business messo a punto dagli animatori della Startup sono le esigenze finanziarie prospettiche, dal momento che qualora risultasse particolarmente cospicua la raccolta del capitale necessario ad effettuare tutti gli investimenti che richiede la strada che si intende percorrere, questo potrebbe essere un fattore di particolare attenzione che limita il valore potenziale del business!

Per capirci il caso Tesla è davanti agli occhi di tutti: per anni c’è stato un folto numero di osservatori che scommettevano sul fallimento di quest’ultima a causa degli ingentissimi investimenti che doveva effettuare per perfezionare il proprio piano industriale e dell’ancor più importante esigenza di capitale circolante che esso necessitava (ivi compresa la copertura delle perdite di periodo). E questo nonostante i suoi prodotti avessero già ottenuto un successo clamoroso e la società fosse già stat quotata in Borsa.

LA CHECKLIST

Spesso però chi valuta un’azienda (che intende raccogliere capitale nelle prime fasi della sua vita per sviluppare una significativa innovazione) non si basa soltanto sul Piano di Business, per quanto bene esso possa essere stato ideato.

Basandosi sull’assunto che soltanto una bassissima percentuale delle Startup realizza davvero la crescita dei ricavi e i guadagni previsti nel business plan, occorre contemperare -ai fini della valutazione- le proiezioni finanziarie che derivano dal Piano per la valutazione (in quando è molto probabile che si tratti di numeri poco realistici) con altri metodi di stima del valore, basati su quello che c’è già oggi. Stiamo parlando del cosiddetto “Metodo Berkus” dal nome di chi lo ha proposto per primo.

Egli ritiene che per valutare correttamente una startup sia necessario dare un valore economico a quei fattori che sono già inseriti nella Startup al momento della sua partenza e che, qualora risultino ampiamente positivi, ne riducano il rischio di fallimento. I 5 fattori di rischio per le startup secondo Berkus sono:

  • Proposta di Valore (Basic Value, ovvero Rischio prodotto)
  • Prototipo Funzionante (Technology, ovvero rischio tecnologico)
  • Qualità Manageriali del team (Execution, ovvero rischio di esecuzione)
  • Prodotto lanciato e/o venduto (Production and Sales, ovvero rischio relativo alla capacità effettiva di produrre e vendere)
  • Relazioni strategiche (Market, ovvero rischio di mercato e relativo alla concorrenza).
    A ciascuno di questi elementi si attribuisce un valore attuale (tipicamente 1/2 milione di Euro in caso di pieni voti per ciascuna categoria) ovvero un fattore di rischio.

Ciò significherebbe che il valore di partenza di un’iniziativa che ancora non fattura niente può andare da un minimo di 0,5 milioni ad un massimo di 2,5 milioni. Ovviamente ci sono Startup che, specialmente nelle elevate tecnologie e nel medicale, valgono -già in partenza- infinitamente di più, in funzione del valore del brevetto, o della tecnologia oppure di determinate privative di mercato (accordi esclusivi, joint venture, diritti di opzione così via).

Evidentemente in questi ultimi casi bisognerebbe riuscire ad attribuire un valore patrimoniale agli elementi suddetti apportati alla Startup e i valori risultanti dal metodo Berkus essere piuttosto considerati come valore dell’ “avviamento” al tempo zero, cui sommare il valore risultante dai suddetti elementi patrimoniali (anche immateriali).

Una seconda “check-list” può derivare dal fornire un peso massimo ai suddetti fattori di rischio per compilare una “tabella punti” (Scorecard) da utilizzare, ad esempio, per moderare il valore risultante dal cosiddetto “metodo del venture capital”.

I parametri principali del metodo Scorecard, in ordine di importanza e con il loro rispettivo peso, sono normalmente:

  • Forza del Team (da 0 al 30%)
  • Dimensione del Mercato (da 0 al 25%)
  • Prodotto/Tecnologia (da 0 al 15%)
  • Vendite/Marketing (da 0 al 10%)
  • Contesto Competitivo (da 0 al 10%)
  • Necessità di Ulteriori Investimenti (da 0 al 5%)
  • Miscellanea (da 0 al 5%)

Il totale delle percentuali realizzate costituisce la percentuale di valore prudentemente applicabile al valore risultante da altri metodi complessivi, in funzione dei fattori di rischio percepiti.

Stefano di Tommaso




L’ECONOMIA ACCELERA, O FRENA?

La Compagnia
La domanda può sembrare bislacca ma non è priva di fondamento, dal momento che ci sembra di assistere ad una sorta di “guerra delle statistiche”. L’economia italiana a leggere le prime pagine dei giornali non ha quasi mai avuto prospettive così floride, mentre i governi di tutto il resto del mondo sembrano essere sull’orlo di una crisi di nervi. Come interpretare il clamoroso divario? Per chi ha pazienza di arrivare a leggere l’articolo fino in fondo, un paio di spiegazioni ho provato a fornirle…

 

CINA E AMERICA FRENANO

Il Sole 24 Ore di Domenica 17 Ottobre‘21 titola a tutta pagina: “nel 2021 il Pil cresce oltre quota 6%“ mentre da ogni parte del mondo arrivano preoccupazioni e segnali d’allarme circa la brusca frenata che sta avendo l’economia mondiale. Da ultima quella della Cina, la cui economia è cresciuta meno delle attese nell’ultimo trimestre soltanto dello 0,2% sul trimestre precedente. L’economia americana, ad esempio, è di nuovo quasi al palo, come si può leggere inequivocabilmente dal grafico qui sotto riportato:

La Compagnia
Questo grafico, pubblicato da Bloomberg il 14 ottobre scorso ma riferito alla settimana precedente è addirittura superato: l’aggiornamento del 15 Ottobre rileva infatti che il medesimo indice è ulteriormente sceso di un altro 0,1% . Il cosiddetto “GDPNow”, relativo alla crescita economica Usa del terzo trimestre che due mesi fa era al 6%, oggi è all’1,2% e si teme che sia in ulteriore contrazione. Se poi vogliamo guardare al di quà dell’oceano nella vicina Germania, le prospettive non vanno molto meglio: l’attesa per fine anno del Pil tedesco sono già passate dal +3,7% al +2,4% e anche qui si teme di dover segnare presto altre riduzioni nell’ultimo periodo dell’anno.

L’ITALIA SI LIMITA AL RIMBALZO

In Italia siamo in un’isola felice allora? La risposta è francamente no, dal momento che l’eredità negativa che il governo Conte ci ha lasciato per il 2020 (quasi meno 9% del PIL e una serie infinita di problemi irrisolti e soltanto rinviati) forse la recupereremo soltanto verso la fine del 2022, come si può leggere dalle stime del Centro Studi di Confindustria, riportate nella tabella qui sotto:

La Compagnia
Stiamo infatti semplicemente rimbalzando dopo il tonfo dell’anno precedente, come farebbe persino un gatto morto lanciato dalla finestra. Altri Paesi nel mondo sono caduti meno di noi con il lockdown (ad esempio la Germania) e hanno fatto prima di noi il rimbalzo, guadagnando posizioni preziose nella competizione internazionale, quella che forse ai politici interessa poco ma all’economia nazionale invece si, dal momento che l’economia del nostro Paese si regge soprattutto sulle esportazioni.

Ma oggi quegli stessi paesi che hanno performato meglio di noi fino all’estate, hanno di nuovo il fiato corto, a causa di una combinazione di fattori negativi quali: l’inflazione, la scarsità i ritardi e i maggiori costi nella fornitura di materie prime e semilavorati, la nuova frenata dei consumi individuali e una maggior cautela negli investimenti industriali. Tutte cose che si può ragionevolmente temere siano presto in arrivo anche a casa nostra. Siamo soltanto sfasati dal punto di vista temporale e questo, per una volta, ci favorisce (almeno nelle statistiche).

UNO SFORZO MEDIATICO

È evidente tuttavia che Confindustria, come pure il Governo, stanno facendo uno sforzo per infondere ottimismo e invitano le imprese a investire il più possibile, segnalando la congiuntura favorevole. E’ un lodevole tentativo di propagare il rilancio (e soprattutto la sua percezione) cui deve andare il plauso degli Italiani se vogliamo tornare a sperare di dimenticare gli anni bui che ci hanno appena lasciato.

In effetti l’Italia era rimasta così tanto indietro negli anni precedenti che oggi è lecito sperare -con gli opportuni scivoli e incentivi- che la ripresa in corso non si fermi tanto in fretta. E poi stavolta le politiche economiche sembrano rivolte nella direzione più corretta, che è quella di favorire gli investimenti (essenziali per alleviare la disoccupazione) e di detassare le innovazioni e le ristrutturazioni.

Anche dal punto di vista del rilancio degli investimenti energetici, della transizione ecologica e dell’innovazione tecnologica le risorse del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) sembrano accompagnate da una indubbia mano forte nelle politiche del governo affinché le risorse europee non vengano sprecate ancora una volta.

I PROFITTI NON CRESCONO PIÙ

Dunque niente male. Ma l’economia globale lancia al tempo stesso segnali di forte preoccupazione, tali da rischiare di mandare all’aria buona parte degli sforzi in corso. Non soltanto l’economia ha frenato bruscamente in quasi tutto il resto del mondo già alla fine del terzo trimestre dell’anno, ma anche il sistema industriale, rappresentato innanzitutto dai colossi multinazionali quotati a Wall Street, mostra segnali di stanchezza, con la previsione di una decisa riduzione della crescita dei profitti alla fine di Settembre, che fino all’inizio dell’estate sembrava invece impetuosa, come si può leggere nel grafico qui riportato:

La Compagnia
I motivi della frenata sono numerosi ed eterogenei (dalla compressione dei margini industriali derivante dal rialzo dei costi -anche energetici- e dai ritardi nei processi produttivi, fino alla scarsità di disponibilità di manodopera qualificata e al rallentamento degli investimenti che ne consegue).

Pertanto difficilmente si può classificare tali motivi come “passeggeri”: sono soprattutto le filiere di fornitura di materie prime e semilavorati ad essere sempre più sotto pressione, anche in funzione delle tensioni geopolitiche, che con l’arrivo di Biden alla presidenza americana si sono soltanto moltiplicate, facendo temere il peggio per il prossimo futuro.

In effetti i tempi di attesa nelle forniture industriali non soltanto si sono dilatati moltissimo a partire dall’estate, ma hanno poi continuato ulteriormente a crescere, come si può leggere dal grafico qui riportato (relativo ai soli microchip, i quali però sono oramai dappertutto):

La Compagnia
A Settembre eravamo arrivati a quasi 22 settimane di arretrato e non ci sono al momento segnali di miglioramento, nonostante il rallentamento nel frattempo intervenuto nella produzione e dunque anche nei loro ordinativi. L’industria automobilistica, come pure quella degli elettrodomestici e degli articoli elettronici, è in ginocchio per questa ragione. E le consegne di prodotti finiti sono calate di circa un quinto del totale!

IL RISCHIO DI STAGFLAZIONE

Del pari, come non bastasse, il costo delle materie prime continua a crescere, come rivela il grafico qui riportato, relativo all’indice dei prezzi delle materie prime (il“Commodity Research Bureau BLS/U.S. Spot Raw Industrials Index”):

La Compagnia
Se ci aggiungiamo che l’indice medesimo è relativo ai prezzi espressi in Dollari americani, i quali si sono rivalutati anche loro, si può comprendere il livello di allarme che, oltralpe e oltreoceano, viaggia sulla bocca di tutti. Di seguito l’andamento dell’Euro contro il suddetto Dollaro, che si è rivalutato del 6-7%, dopo il doppio massimo (classica figura che segnala l’inversione di un trend) segnato durante l’estate:

La Compagnia
Per non parlare della recrudescenza pandemica in corso (di cui da noi stranamente non sembra esserci traccia), in certa misura ampiamente attesa per l’autunno (per fattori stagionali) ma che stavolta sembrava dovesse invece risparmiare almeno una parte della popolazione mondiale a causa dell’incremento di vaccinati. È evidente che -in tutto il mondo- i vaccini sono un bel business ma non funzionano sempre, e che di conseguenza le assenze sul lavoro e i ricoveri ospedalieri contribuiscono anch’essi a frenare la crescita economica e i profitti aziendali!

I timori complessivi fuori dei nostri confini nazionali insomma non sono soltanto relativi ad una possibile precoce inversione del ciclo economico, ma addirittura di arrivare a piombare in una vera e propria trappola da “stagflazione” (stagnazione+inflazione) che spiazzerebbe completamente la posizione delle banche centrali, fino a ieri i principali alfieri degli stimoli alla ricrescita economica. Come si può leggere dal grafico qui riportato, in Germania i prezzi all’ingrosso sono arrivati a crescere del 13% al 30 Settembre (e del 18% rispetto ai minimi dell’anno):

La Compagnia
In Italia invece il presidente di Confindustria -Carlo Bonomi- parla di “rischio prezzi per ora contenuto”! Cosa sta succedendo? L’ondata di buone notizie, persino talvolta false e tendenziose (come quella relativa alle materie prime) fa pensare ad un supporto senza quartiere all’attuale governo Draghi, già da tempo definito “il migliore di quelli possibili”, onde evitare di perdere i contributi europei.

LE RIFORME ANCORA DA FARE

Sono infatti 42 le riforme ancora da far passare in Parlamento negli ultimi due mesi e mezzo dell’anno, sperando che nel frattempo le tensioni politiche in crescita dopo le elezioni amministrative non arrivino a bloccarle del tutto. Senza quelle riforme è piuttosto probabile che succeda all’Italia ciò che la Commissione Europea ha già fatto con l’Ungheria di Orban: bloccare i fondi! E quelle riforme corrispondono ad una cura da cavallo per il nostro Paese, utile si, ma non priva di ripercussioni anche sociali (si pensi solo all’allungamento dell’età pensionabile, all’incremento degli estimi catastali e all’inasprimento delle normative sulla crisi di impresa).

D’altra parte con l’arrivo del nuovo governo in Germania gli acquisti di titoli di stato da parte della Banca Centrale Europea sono di nuovo messi in discussione e l’Italia è tornata ad essere un sorvegliato speciale. E Draghi vuole evitare che qualcuno al nord del continente pensi che non stia facendo tutto il possibile. La grancassa che stiamo ascoltando insomma sembra da un lato ricordare al resto d’Europa i clamorosi risultati di questo governo “di transizione” e dall’altro lato sembra preludere alla necessità di provocare ancora una volta uno scossone importante non appena si materializzeranno anche nelle statistiche le problematiche già viste all’estero, pur di mantenere la rotta sul fronte delle riforme necessarie per portare a casa i contributi europei!

Stefano di Tommaso




MERCATI SEMPRE MENO PREVEDIBILI

Di motivi per preoccuparsi ce ne sono molti: dalle cosiddette guerre commerciali di Donald Trump ai tassi di interesse che la FED banca centrale americana) vuol far risalire vendendo i titoli acquistati in passato, dalle supervalutazioni dei principali titoli tecnologici all’eccesso di programmi di buy-back (riacquisto azioni proprie) che stanno sostenendo i listini, dai timori per la continua espansione dei debiti di Paesi come il nostro all’eccesso di rialzo delle quotazioni di Dollaro e Petrolio…

L’elenco delle preoccupazioni che dovrebbero aggredire i gestori di portafogli potrebbe continuare a lungo, tenendo presente che tutto ciò sta letteralmente mettendo in ginocchio le economie dei Paesi Emergenti e i loro mercati finanziari. Ma, ciò nonostante, tutto sommato le principali borse dei Paesi OCSE fino ad oggi hanno retto bene, pur mostrando segni sempre più evidenti di convulsioni (volatilità in ascesa) e di incertezza.

ALLA LARGA DAI FINTI “GURU”

I sacri libri di testo affermano che è normale tutto ciò camminando per il viale del tramonto di uno dei più lunghi periodi di rialzo delle borse, e che di conseguenza è tempo di fare i preparativi per l’inverno dei mercati, facendo ruotare i portafogli verso titoli di aziende che producono più cassa, le cui quotazioni sono meno speculative e i cui valori intrinseci sono maggiori. Ma se volessimo dare retta queste indicazioni è probabile che ancora una volta rischieremmo di sbagliare, poiché sono almeno due anni che le borse sono alle stelle e i finti “guru” vanno ripetendo invano che crolleranno.

ANCORA UNA VOLTA CORRERANNO I TITOLI TECNOLOGICI?

La speculazione, che sembra essere il principale attore dei mercati in tutto il 2018, continua a privilegiare i cosiddetti titoli “growth” (alla lettera: “crescita”) che quindi sono costantemente sulle montagne russe ma non sono certo precipitati in basso. Ma anche perché viviamo in un momento di forte crescita economica che supera costantemente le previsioni dei vari Istituti di ricerca (a partire da quello del Fondo Monetario Internazionale) e conseguentemente i profitti aziendali non sono mai stati così grassi e perché l’inflazione stenta a decollare nonostante la decrescita costante della disoccupazione e, soprattutto, nonostante il forte incremento della bolletta energetica (che ne compone una buona parte).

ATTENTI AI TASSI

Chi non si sente pronto a forti emozioni e di esporsi al rischio di forti perdite in conto capitale dovrebbe -continuano i sacri testi- rivolgersi al mercato obbligazionario, puntando su ritorni molto più limitati ma più sicuri. Peccato che, con i tassi in salita, con la curva dei rendimenti che esprime i medesimi ritorni tanto per il brevissimo quanto per il lunghissimo termine e con i rendimenti reali apparentemente negativi che i mercati esprimono, nemmeno i titoli del reddito fisso sembrano promettere bene.

Dunque non è per niente facile orientarsi eppure, con un equilibrio sempre più precario, chi investe qualche scelta la deve fare, perché ancora una volta non è così sicuro che tenere denaro liquido sui conti correnti bancari sia una buona idea.

IL POSSIBILE “RALLY” ESTIVO

Anzi: secondo numerosi autorevoli commentatori e “strategist” delle principali case di investimento (coloro che indicano la linea da seguire agli operatori di portafoglio), c’è ancora spazio per i i principali mercati finanziari per riprendere a correre durante l’estate, sebbene tale corsa si sviluppi sempre più sul filo del rasoio.

Questo perché di denaro in circolazione ce n’è ancora parecchio e alcune banche centrali come quelle Europea, della Cina e del Giappone, stanno ancora immettendone altro, i buy-back continuano imperterriti (mossi dalle casse piene delle aziende) e il boom di petrolio e gas torna a far brillare l’intero settore delle energie da fonti rinnovabili e, soprattutto, perché la digitalizzazione dell’economia globale continua inesorabilmente a generare efficienza sui costi e, in definitiva, tanto valore, il quale mano mano si trasforma (anche) in valore azionario.


UN EQUILIBRIO ALTAMENTE INSTABILE

Il mondo va avanti, insomma, le tigri asiatiche ruggiscono e l’Occidente continua a trarne ampio beneficio, sebbene sia chiaro che l’equilibrio dei mercati finanziari sia sempre più a rischio, che la loro volatilità possa continuare a salire e che un loro significativo ridimensionamento sia sempre più prossimo.

Dal momento che sui mercati non si può continuare a far finta di niente si può cercare di trarre vantaggio dalla situazione cavalcando con gli strumenti derivati la possibilità di guadagnare dalla volatilità crescente, dalla sempre maggiore fragilità dei mercati e dall’ondata ribassista che prima o poi si svilupperà.

COSA FARE ALLORA?

Nel frattempo l’economia reale continua la sua corsa e dunque saranno soprattutto i titoli azionari di aziende pro-cicliche quelli che potranno beneficiarne di più, soprattutto se le loro quotazioni hanno di recente subíto un ridimensionamento. Così come sono ancora una volta i titoli delle imprese che sviluppano nuove tecnologie (come l’intelligenza artificiale, la robotica e i servizi di internet) quelli che potrebbero portare a casa nel breve termine i migliori risultati, sebbene si debba tenere presente che nel lungo termine solo alcune di quelle imprese resteranno vive.

Ci sono fondi di investimento che selezionano solo comparti industriali come questi: inutile dire che le loro quotazioni sono già cresciute moltissimo. Ma con l’ondata di ulteriori fusioni e acquisizioni (siamo giunti ai massimi storici) che si apprestano a “ridefinire” i singoli comparti industriali, il “fai da te” resta ampiamente sconsigliato.

Sui mercati obbligazionari invece è tutta da vedere se i tassi d’interesse continueranno a salire, in assenza (o quasi) di inflazione endemica (cioè non originata da fattori esterni come guerre o shock petroliferi). È persino possibile il contrario, almeno per i tassi a lungo termine, sebbene questo valga molto più per i titoli americani che per quelli europei, la cui divisa di conto potrebbe scivolare ulteriormente a seguito delle tensioni interne.

E’ facile perciò prevedere il contrario per il Dollaro, ma anche per il Franco Svizzero e la Sterlina Inglese, considerati paradisi più sicuri in caso di intemperie, anche se -ricordiamocelo- purtroppo di certezze sui mercati ce ne sono sempre meno!

Stefano di Tommaso




BORSE: LE VENDITE ARRIVANO DA LONTANO

I mercati finanziari stanno fronteggiando in queste ore uno dei momenti più contrastati e difficili da inizio anno. I giornali tendono a darne la colpa al successo politico dei partiti cosiddetti “populisti”, oppure alle sanzioni economiche e alle guerre commerciali dell’America, e così pure le autorità monetarie e di borsa vorrebbero provare a minimizzare i timori tentando di indicare prospettive migliori nelle loro previsioni di medio termine. Ma la verità dell’attuale congiuntura economica internazionale rischia purtroppo di superare la peggiore fantasia.

 

L’INFLUSSO DEL SUPER-DOLLARO

Il momento è divenuto difficile innanzitutto a causa del contesto generale valutario, che vede il super-dollaro e i suoi super-rendimenti di una Federal Reserve che non si preoccupa di fargli schiacciare praticamente ogni altra valuta e, soprattutto, di generare un effetto di risucchio dei capitali verso le piazze finanziarie considerate meno a rischio (a partire da New York). L’effetto dell’aumento dei tassi americani si somma poi alle politiche di “tapering”(cioè di marcia indietro dagli stimoli monetari) delle banche centrali creando un clima di attesa per ulteriori cali in borsa.

I CAPITALI FUGGONO DAGLI EMERGENTI MA NON VANNO A WALL STREET

I capitali dunque fuggono dalle altre valute e dai Paesi Emergenti ma non vanno a Wall Street. Preferiscono casomai i Treasuries (BTP a 10 anni americani) se non i veri e propri beni-rifugio. Il fenomeno della fuga dei capitali cioè, unito agli effetti dirompenti (anche perché troppo bruschi) di un fisiologico ritorno alla normalità dei mercati finanziari dopo la sbornia di liquidità che li aveva invasi, significa che quest’ultima sta letteralmente crollando un po’ ovunque (America compresa) e che quindi riuscire a vendere i titoli azionari detenuti dagli investitori risulta oggi parecchio più difficile.

LA MOSSA DELLA CINA

Per contrastare tale deriva la banca centrale della Cina ha appena deciso di far sbloccare dalle banche piccole e grandi dell’ex Celeste Impero riserve obbligatorie per l’equivalente (diretto e indiretto) di 500 miliardi di Dollari (si, avete letto bene: più del doppio del totale delle richieste americane per il riequilibrio della bilancia commerciale) nel tentativo di arginare la fuga dei capitali oltre confine e il crollo dei titoli obbligazionari espressi in Renminbi che farebbe crescere i tassi . Ha anche aggiunto che intende far indirizzare quella montagna di liquidità che si libera per le banche cinesi nella direzione della trasformazione in capitale dei debiti delle aziende più bisognose di supporto, allo scopo di assicurarsi che essa affluisca tutta e subito all’economia reale.

MA NON BASTA NEANCHE QUESTO

Ma la verità è che se anche altri Paesi (il Giappone in testa) procedessero con nuove iniziative di sostegno alla liquidità dei mercati finanziari, oggi nessuno si aspetta che essa basti a invertire davvero l’andamento generale, che vede un improvviso peggioramento delle prospettive per la quasi totalità dei Paesi Emergenti e, di riflesso, anche una forte incertezza per le borse più importanti, dove gli operatori hanno fiutato il rischio di un crollo globale dei titoli azionari e quello, conseguente, di una nuova possibile recessione.

I PROFITTI E I BUY-BACK AZIENDALI NON SONO SUFFICIENTI

Insomma, se fino a un paio di mesi fa poteva sussistere il dubbio se il calo della liquidità in circolazione sui mercati finanziari sarebbe stato compensato (o meno) dall’ottimo andamento dei profitti per le aziende industriali e dai massicci programmi di “buy-back” (alla lettera: “riacquisto azioni proprie”) varati da tutte le grandi imprese del mondo quotate in borsa, oggi quel dubbio si è trasformato in una certezza: assolutamente no! Profitti e buy-back non sono bastati a compensare un bel niente, visto che al calo della liquidità proveniente dalle banche centrali si sono sommate le fughe degli investitori istituzionali dai mercati borsistici e grigie prospettive di crescita per i Paesi Emergenti che a loro volta fanno pensare ad un calo dei consumi di questi ultimi.

IL RISCHIO DI IMPLOSIONE DELLA SPECULAZIONE CHE TIENE ALTI I LISTINI

Dunque un po’ in tutte le borse chi oggi ancora compra titoli sembra essere rimasto insomma soltanto quel famigerato “parco buoi” di antica memoria, che negli ultimi anni si è trasferito dalle stanze dei borsini ai monitor del “trading online” (le compravendite di titoli dal computer di casa), ma che arriva ogni volta troppo tardi a sentire che aria tira. E poi oggi una quota consistente della capitalizzazione complessiva delle borse è data dalla speculazione sui titoli cosiddetti “tecnologici”, che spesso esprimono moltiplicatori del reddito paragonabili a quelli che si vedevano poco prima dello scoppio della bolla speculativa delle “dot com” alla fine degli anni novanta. Il rischio di un loro ritracciamento su valori più congrui è concreto, ma potrebbe trascinare al ribasso tutta Wall Street. In Italia c’è meno speculazione sui titoli tecnologici (che sono quasi tutti stranieri) ma in compenso c’è l’effetto positivo dei cosiddetti P.I.R. (i piani individuali di risparmio, che godono di un consistente sgravio fiscale), ma anche il limite che gli investimenti di questi ultimi vanno in parte su un listino -l’A.I.M.- che è cresciuto piu degli altri e con una scarsa liquidità di fondo.

LO SPETTRO DI UNA NUOVA RECESSIONE

Il quadro complessivo è peggiorato dall’appiattimento della curva dei rendimenti (quelli a breve sono saliti allo stesso livello di quelli a lungo termine) che storicamente è sempre stato il segnale più attendibile dell’arrivo di una nuova recessione economica e dalla discesa generale delle aspettative di crescita dei consumi (se non addirittura un loro calo) anche in Occidente, dettate principalmente dai forti timori della gente di vedere la propria previdenza sociale (o integrativa) per molti motivi largamente insufficiente a garantire una serena vecchiaia o adeguate risorse per sostenere eventuali necessità di cure sanitarie. La risposta a tale certezza perciò è oggi quella di spendere meno e risparmiare di più. Ma non speculando in borsa con la volatilità che è risalita parecchio, bensì cercando titoli a lungo termine con basso rischio.

I DEBITI PUBBLICI NON HANNO FATTO IN TEMPO A SGONFIARSI

Tuttavia in questo quadro di fattori recessivi anche i debiti pubblici della maggior parte delle nazioni del mondo fanno oggi più paura di prima, dal momento che la minor crescita economica attesa rende più difficile che vengano rimborsati. La loro presenza poi costituirà una forte zavorra che frenerà l’avvio di nuove politiche fiscali, senza contare che la tassazione delle imprese è già scesa un po’ dappertutto a minimi storici e che anche sul fronte delle politiche monetarie, di spazio per un loro rilancio ne è rimasto poco alle banche centrali che non hanno fatto in tempo a svuotare i forzieri pieni di titoli recentemente acquistati.

IL POSSIBILE LANCIO DEI GRANDI PROGETTI INFRASTRUTTURALI

Dunque le “munizioni” per pensare di contrastare una nuova -probabile- recessione globale sembrano essere soltanto quelle dei grandi programmi di investimenti infrastrutturali, da finanziare principalmente con il cosiddetto “debasement” valutario, cioè con nuova stampa di denaro da parte delle banche centrali o con titoli emessi a lungo termine emessi da organismi sovranazionali che potrebbero essere rimborsati con i redditi derivanti da ciascun progetto.

L’operazione risulterebbe tecnicamente fattibile (anche perché l’inflazione pare restare bassa e sotto controllo persino adesso che i prezzi del petrolio volano) ma se l’iniziativa non verrà portata avanti presto e con molta decisione essa rischia di non bastare affatto a liberare l’orizzonte dai nuvoloni che si addensano. Donald Trump l’aveva addirittura annunciato prima di essere eletto e potrebbe ancora avere le maggioranze politiche per farlo, ma che ciò possa riuscire ad accadere presto anche in Europa (con i soliti tedeschi che frenano e i francesi che provano a specularci sopra) è tutto sommato piuttosto improbabile.

MA LA FIDUCIA È LA MERCE PIÙ PREGIATA E OGGI SCARSEGGIA

E se sui mercati finanziari la merce più pregiata è proprio la fiducia degli investitori, essa è da sempre anche la più difficile da conseguire. Ecco: l’aspettativa di nuovi massimi di borsa sembra essere esattamente ciò che manca in questo momento, in cui le imprese invece di guardare al futuro investendoci pesantemente usano le loro risorse per acquistare azioni proprie. Visto che la speculazione lavora anche al ribasso possiamo assistere ad un recupero delle borse dovuto alle ricoperture delle posizioni corte, ma i rischi complessivi sono alti e la tendenza di fondo sembra negativa.

Stefano di Tommaso