AMAZZONIZZAZIONE DELL’ECONOMIA?

Siamo giunti alla fine del super-ciclo economico positivo decennale (2008-2018, sebbene in Europa ci si sia giunti per motivi politici soltanto cinque-sei anni più tardi) che ha spinto per altrettanto tempo le borse all’insù verso massimi storici senza precedenti, oppure ci sono altre forze che spingono verso una “normalizzazione” dell’economia che tutto sommato la consolida e la rende capace di non avvitarsi in una spirale inflazionistica (che inevitabilmente aprirebbe le porte ad una fase di recessione globale)?

 

Non potendo prevedere il futuro, la domanda non ha ovvie o scontate risposte, ma uno strumento per interpretare gli accadimenti di queste settimane potrebbe sintetizzarsi in una parola (o più probabilmente un vero e proprio concetto) che torna periodicamente a risuonare, pur senza alcuna certezza, nelle orecchie di molti economisti: l’ “amazzonizzazione” dell’economia.

L’IMMAGINE ESTERNA DI AMAZON, QUALE LEADER PIGLIA-TUTTO DEL COMMERCIO ELETTRONICO INCORPORA LE NUOVE TENDENZE GLOBALI

È noto che Amazon, leader mondiale del commercio elettronico, incorpora nell’immaginario collettivo l’idea stessa di effetto pratico della globalizzazione dei consumi risultante nella rottura al ribasso dei prezzi al dettaglio, dell’effetto disinflattivo che esso ha e nel cambiamento profondo della relazione tra domanda e offerta sul mercato del lavoro (che ovviamente provoca una contrazione dei salari).

Fino all’altro ieri infatti la maggior domanda di lavoro che sta materializzandosi a partire dal 2017 e che in molti casi si traduce in una crescita reale dei salari, avrebbe più o meno immediatamente provocato un’innalzamento corrispondente dei consumi e si sarebbe quindi potuto osservare il noto effetto inflattivo che consegue alla riduzione della disoccupazione, osservato dagli economisti on la cosiddetta “Curva di Phillips”.

IL ROVESCIAMENTO DELLA CURVA DI PHILLIPS

Tra il 2017 e il 2018 però, almeno negli Stati Uniti d’America (che spesso sono solo i precursori delle tendenze economiche globali) si è invece dovuto prendere atto del venire meno di quella forte relazione tra mercato del lavoro, consumi, prezzi e inflazione, che sembrava elementare e dunque anche inequivocabile (nel grafico qui sotto riportato, da leggersi da destra verso sinistra, l’inclinazione della curva sembra infatti rovesciata).

Per tentare di rispondere alla domanda sopra indicata, proviamo perciò a porcene un’altra: ma se per effetto della ripresa economica e della crescita globale dei redditi la disoccupazione scende un po’ ovunque nel mondo e se più o meno di conseguenza anche i salari crescono, per quale diavolo di ragione questo non si riflette nell’aumento dei consumi e, di conseguenza, nella crescita dei prezzi al dettaglio?

L’ESPLOSIONE DEL COMMERCIO ELETTRONICO

A una tale domanda si prestano centinaia di risposte possibili che spaziano dall’effetto di normalizzazione dei prezzi dovuto all’aumento del commercio internazionale e all’entrata sul mercato di merci provenienti dai paesi emergenti alla maggior efficienza produttiva dettata dalla digitalizzazione fino alla minor incidenza del consumo energetico.

Ma il punto è che l’individuare risposte corrette a questa domanda ci può rivelare le sorti dell’inflazione attesa e, di conseguenza probabilmente, quelle dei tassi di interesse, nominali e reali. E queste a sua volta sono tutt’altro che irrilevante ai fini degli andamenti dei mercati borsistici.

In altre parole se riusciamo a comprendere i meccanismi di inceppamento nella trasmissione della maggior domanda di beni e servizi ai prezzi dei medesimi (inflazione)possiamo trovare una chiave di risposta alla questione di tutte le altre questioni: il ciclo economico in corso sta esaurendosi oppure è magicamente destinato a prolungarsi, magari indefinitamente?

LE BORSE CONTINUERANNO A SCENDERE?

In una sorta di gioco all’auto-realizzazione delle aspettative, molti investitori hanno di recente diminuito i titoli azionari sul totale dei loro investimenti. Questo, insieme ad un processo di normale rotazione dei portafogli e insieme alle notizie allarmanti che sono state strombazzate dai media di tutto il mondo circa i pericoli di una guerra commerciale, hanno amplificato la volatilità delle borse e ridotto i loro livelli si o ad azzerare la crescita che avevano compiuto nel primo trimestre 2018.

Ma non possiamo chiederci come sta andando l’economia reale osservando i mercati finanziari. Sarebbe come indovinare la strada guardando dallo specchietto retrovisore: la cosa funziona soltanto se il veicolo va a marcia indietro (cioè in caso di recessione). Perché altrimenti non si può fare previsioni a partire dall’ultima derivata (le borse) ignorando le variabili fondamentali che possono muoverla.

E per tornare alle variabili fondamentali, la stagione della dichiarazione degli utili aziendali (e quindi dei dividendi) che sta per aprirsi sembra indicare tutt’altra direzione (estremamente positiva) rispetto alla presunta conclusione del ciclo economico espansivo. Così se questo è l’ennesimo fattore di confusione per interpretare l’andamento delle quotazioni delle borse, esso d’altro canto fornisce anche solide ragioni perché il processo di conversione dei redditi aziendali in investimenti, consumi e risparmio, possa agire in direzione dell’ulteriore crescita economica, anche per gli anni a venire, allontanando lo spettro della recessione.


LA MANCATA CRESCITA DELL’INFLAZIONE

Ma più di ogni altro fattore sono i rendimenti nominali quelli che (seppur pesantemente manovrati dalle banche centrali) esprimono il vero stato di salute dell’economia.

E al momento non possiamo che prendere atto che, pur risaliti di qualche frazione di punto (e nonostante gli sforzi di “forward guidance” della banca centrale americana), su scala globale i loro livelli sono vicini ai minimi di sempre, così come quello dell’inflazione.

Le statistiche infatti spesso non indicano il vero andamento dell’economia reale.

I consumi cambiano e la spesa della gente non si rivolge più come prima ai negozi fisici, ai beni voluttuari, all‘arredo o all’abbigliamento e ai suoi accessori, dal momento che l’abbigliamento formale non è più di moda e le abitazioni diventano minimaliste. Molte altre categorie di beni e servizi sono invece entrate prepotentemente a rubare loro la priorità, a partire dal benessere fisico e mentale (che in passato veniva in qualche modo pagato dallo stato), alla cura della persona, alla formazione continua, all’elettronica e all’informatica domestica, ai servizi online. Tutte spese divenute quasi “necessarie”, soprattutto con una famiglia a carico, che hanno trasformato il concetto di necessità e hanno di fatto ridotto la quota di extra-reddito disponibile per i consumi voluttuari.

I COSTUMI CAMBIANO E LE IMPRESE DEVONO ADEGUARSI

I grandi operatori di internet come Amazon, Facebook, Netflix e Google lo hanno capito benissimo e per primi, e “coccolano” il loro cliente con ogni genere di proposta, frutta e verdura a domicilio comprese (con consegna immediata) a prezzi nemmeno immaginabili dagli altri, complici il mercato dei capitali (che sussidia generosamente le loro perdite) e il basso livello di manodopera richiesto da quei servizi.

Sul fronte dell’occupazione questa tendenza porta a incrementare il numero di persone che lavorano sulla consegna di pacchi e pacchetti, a far crescere l’investimento informatico che ci sta dietro e l’occupazione conseguente, a incrementare l’acquisto di beni e servizi provenienti dall’altro capo del mondo e a ridurre le segreterie e le posizioni apicali in azienda dal momento che tutto si automatizza.

Anche la pubblica amministrazione tende a ridurre il proprio personale e a fare acquisti solo in rete, mentre e le piccole aziende che fornivano servizi specializzati a quelle grandi oggi trovano insidia nella concorrenza online degli stessi servizi.

Ma il fenomeno dell’espansione del commercio elettronico a ogni settore dell’economia non sembra fermarsi solo a questo. Se lo paragoniamo alla rivoluzione che è derivata dal l’avvento della grande distribuzione organizzata (GDO), il bello deve ancora venire !

Il fenomeno americano che ha preceduto Amazon infatti si chiama Walmart e sulla rivoluzione industriale che l’avvento di quest’ultima ha generato sono stati versati fiumi di inchiostro (soprattutto in America, ovviamente, ma in Europa ci sono stati fenomeni paragonabili come IKEA, ad esempio). L’impatto sulle sorti delle piccole e medie imprese è stato devastante ma in qualche caso anche estremamente positivo.

Stefano di Tommaso




BOOM DEI MINIBOND: AUMENTA LA LORO DURATA, SE NE RIDUCE IL COSTO E CRESCE IL NUMERO DI IMPRESE EMITTENTI

Continua a crescere il numero di Mini-bond emessi e sottoscritti (sia private placement che public offering) grazie al crescente numero di imprese che scelgono di prendere le distanze dai tradizionali canali bancari (tipici della nostra cultura) sperimentando opportunità di finanziamento alternative capaci di riservare molteplici vantaggi nonché quello di sconfiggere le timidezze e diffidenze che gli imprenditori ancora oggi nutrono verso i mercati finanziari.

 

Un fattore che potrebbe aver stimolato questo exploit, è quasi certamente la “caduta” di diversi istituti bancari (soprattutto a Nord-Est) che per decenni hanno monopolizzato e centellinato l’erogazione di risorse finanziarie.

Di seguito il grafico delle emissioni di Minibond quotati al comparto Extra Mot Pro della Borsa Italiana fino al 31.12.2016.

Se fino a quella data avevamo assistito a una crescita costante dello strumento, è nell’ultimo trimestre del 2017 che si è registrato un vero e proprio boom sui minibond, privilegiati soprattutto dalle Pmi rispetto alla Borsa e all’intervento del Private Equity anche grazie alla piena deducibilità degli interessi (entro i limiti del 30% del Reddito Operativo Lordo) e alla scarsa “invasivitá” dello strumento nella gestione e nella “governance aziendali.

Nel solo periodo Ottobre-Dicembre Il numero delle emissioni è fortemente cresciuto: quelle inferiori ai 50 milioni di euro sono state 28 per 147 milioni. Dato che ha portato ad un ammontare complessivo erogato nel 2017 a quota 1,805 miliardi e sono guidate principalmente dal comparto manifatturiero, seguite poi da quello del Food&Beverage, Utilities e Media & ICT.

Ma anche le operazioni di taglio molto grande (più di 150 milioni) sono aumentate, facendo registrare in totale a fine 2017 oltre 300 emissioni per più di 14 miliardi.

Parallelamente alla forte crescita registrata, si è assistito anche ad una contrazione del taglio medio dei bond (sceso a 7.3 Mio), nonché ad una cedola media scesa al 5.13% ed infne ad un “time to maturity” (durata) finalmente superiore ai 5 anni.

La riduzione del ticket evidenzia una maggiore attenzione ed interesse da parte delle PMI verso il mercato del debito e dei capitali riservato, fino a pochi lustri fa, alle sole realtà di maggiore dimensione. Difatti, se fino a pochi anni fa il campione emettente di minibond era presidiato da realtà con fatturato superiore ai 100 Mio., da pochi anni a questa parte, questo è cambiato radicalmente tanto da portare a 40 il numero complessivo delle società emittenti con ricavi inferiori ai 10 Mio. Anche la durata media è cresciuta, sebbene il maggior numero di operazioni si sia concentrato sulla scadenza dei 5 anni.

I Minibond vengono visti dall’imprenditore come alternativa all’ingresso di fondi di Private Equity per sostenere gli è investimenti rivolti allo sviluppo del business. Per ottenere un Minibond infatti resta essenziale poter esibire un buon Piano Industriale, il medesimo che risulta fondamentale per accedere agli altri strumenti del mercato dei capitali. E nel piano industriale può evidenziarsi un’ottima capacità finanziaria prospettica anche laddove gli ultimi bilanci fossero stati particolarmente avari di risultati.

I Minibond vengono visti dall’imprenditore come alternativa all’ingresso di fondi di Private Equity per sostenere gli è investimenti rivolti allo sviluppo del business. Per ottenere un Minibond infatti resta essenziale poter esibire un buon Piano Industriale, il medesimo che risulta fondamentale per accedere agli altri strumenti del mercato dei capitali. E nel piano industriale può evidenziarsi un’ottima capacità finanziaria prospettica anche laddove gli ultimi bilanci fossero stati particolarmente avari di risultati.

Un altro interessante aspetto dei Minibond é la presenza di possibili opzioni di riacquisto o rimborso, come mostrato da questa statistica:

Ecco di seguito una tabella dei principali investitori:

ASPETTI FISCALI E COSTI:

§ Deduzione dei costi inerenti l’emissione ‘per cassa’ (esempi: commissioni , costi società di rating, provvigioni di collocamento, costi Advisor, compensi legali e altri);

§ Richiesta codice ISIN a Banca d’Italia (in caso di dematerializzazione del titolo) e accentramento dei titoli presso un ente autorizzato: costo iniziale c.a. 2.000 € e di mantenimento c.a. 1.500€/anno

§ Certificazione bilancio di esercizio: circa € 15.000

§ Fee Advisor: Una Tantum tra 1% e 2.5% del collocato

§ Fee Arranger: Una Tantum tra 0.5% e 1.5% del collocato

§ Studio Legale: da € 15.000 a € 25.000

§ Emissione del Rating: da € 15.000 a € 20.000 per le PMI. Dal secondo anno -40%.

Di seguito l’elenco completo delle emissioni fino a 50 milioni di controvalore e la loro ripartizione per settori industriali di appartenenza:

 

Stefano di Tommaso

Giorgio Zucchetti




UN ANNO PIENO DI MATRICOLE IN BORSA

È presto per dirlo, ma le precondizioni ci sono tutte affinché anche quest’anno molte altre imprese possano trovare interessante richiedere l’accesso al listino di borsa. In Italia si parla di circa 50 matricole che approderanno ai cancelli della borsa (rispetto alle 39 del 2017) ma anche nel resto del mondo ci sono moltissime aziende che stanno scaldando i motori per un simile passo. Per questo motivo il 2018 potrebbe configurarsi come il nuovo anno record per le quotazioni.

 

Tra i nomi che circolano Valentino e Furla per la moda, IGuzzini nel design e i treni NTV che corrono col marchio Italo, di Montezemolo, Della Valle, Bombassei, Seragnoli e Intesa e Generali. Nell’industria si parla della Ansaldo Energia (controllata dalla cordata italo-cinese dov’è socia la Cassa Depositi e Prestiti), per il settore elettronico la Magneti Marelli (FCA) e la Octo Telematics (elettronica applicata alle assicurazioni) che oggi è controllata dai russi della Renova, nella “fintech” (informatica applicata al settore finanziario) la Nexi (sistemi di pagamento ex ICBP) e la SIA (carte di credito), nell’alimentare si parla da tempo della De Cecco, di Eataly di Farinetti, Guerra e Tamburi, e infine di Illy Caffè. Nel settore dei giochi la Rainbow (fatine Winx e cartoni Maggie&Bianca). Si parla anche di una possibile quotazione del Monte dei Paschi, oggi controllata dallo Stato che l’ha salvata dal fallimento.

Tra le motivazioni perché queste e tante altre storie d’impresa possano approdare quest’anno a Piazza Affari ve ne sono tra le più svariate, ma due di esse contano chiaramente più di tutte le altre : gli elevatissimi livelli di valutazione delle aziende che le borse stanno esprimendo (ora che si trovano quasi tutte ai massimi storici) e la grande liquidità che circola sui mercati finanziari, cosa che lascia presupporre una limitata difficoltà a reperire sottoscrittori per le Offerte Pubbliche Iniziali (Initial Public Offerings o IPOs) che precedono ciascuna quotazione. In Italia ad esempio la normativa sui Piani Individuali di Risparmio (i P.I.R. in gergo tecnico) ha fatto piovere molta liquidità sulle imprese minori quali quelle quotate all’Alternative Investment Market (A.I.M. per gli addetti ai lavori), il segmento della Borsa Italiana dedicato alle piccole e medie imprese.

È UN AFFARE PER CHI SOTTOSCRIVE?

Se per le imprese che decidono di fare il grande passo la prospettiva di valutazioni molto generose aiuta non poco nel prendere una decisione oggettivamente difficile, la,vera domanda è se sarà un affare per chi si troverà a sottoscrivere le emissioni di questi nuovi titoli.

Come sempre non ci sono certezze, ma se l’alternativa alle nuove proposte è quella di investire in altri titoli azionari della stessa dimensione aziendale già quotati in Borsa allora la risposta potrebbe più probabilmente essere un sì. L’allargamento del listino azionario può infatti sicuramente giovare alla diversificazione dei rischi dell’investimento in borsa e poi molte matricole riguardano nuovi settori dell’economia, incorporando perciò maggiori aspettative di crescita rispetto a quelle dei settori industriali più tradizionali.

QUOTAZIONI IN BORSA “EPOCALI” COME SAUDI ARAMCO, DELL E XIAOMI STANNO PER PARTIRE SUI MERCATI INTERNAZIONALI

Anche a livello internazionale ci sono per il 2018 grandi aspettative per le cosiddette IPOs: da quella più grande di tutti i tempi che ci si aspetta per l’approdo ai listini azionari della Saudi Aramco (l’azienda petrolifera più grande del mondo, appartenente alla corona Saudita) per la quale si parla di collocare in borsa una piccola minoranza del capitale sociale per l’importo di almeno 200 miliardi di dollari, fino al ritorno atteso di alcuni grandi nomi che in passato erano già quotati, come la Dell Computers, azienda uscita da Wall Street nel 2014 per fare il proprio turnaround e arrivare infine a incorporare la società di software EMC nel 2016, acquisita per la mirabolante cifra di 67 miliardi di dollari che però oggi conta per più dell’80% del suo valore totale, dal momento che è attiva nell’interessante business del cloud computing e della virtualizzazione dei documenti.

In casi come questo l’occasione per Dell di sostituire i 52 miliardi di dollari di debito con capitale di rischio che non comporta una spesa per interessi e che accetta livelli elevatissimi di valutazioni aziendali è di quelle da non lasciarsi sfuggire. Bisogna vedere se lo stesso potrà dirsi per i sottoscrittori di offerte come questa, sempre per il motivo che sono oramai due anni che Wall Street tocca quotidianamente nuovi massimi e che dunque le attese di elevati guadagni futuri sono decisamente ridotte, a meno che i profitti aziendali non continuino a crescere a livelli poderosi, cosa che peraltro sino ad oggi è puntualmente avvenuta, spiazzando i numerosissimi “gufi” che speravano di farsi un nome da “Guru” di borsa anticipando terribili crolli dei listini che non sono mai arrivati.

Molti altri grandi nomi dell’industria mondiale stanno però per aprire le ali della quotazione in borsa e la cosa è di per sé positiva per la crescita economica globale perché può aiutare gli investitori a diversificare il rischio e i listini a rinnovare il proprio “sangue”. È il caso ad esempio del colosso cinese Xiaomi, produttrice di telefoni cellulari e di una vasta gamma di altri oggetti elettrici ed elettronici di nuova generazione, valutata oltre 100 miliardi di dollari dalle quattro banche selezionate per la quotazione: Crédit Suisse, Deutsche Bank, Morgan Stanley e Goldmann Sachs. Ben oltre i 25 miliardi che avevano fatto scalpore qualche anno fa per la quotazione di Alibaba ma anche pari a un multiplo di oltre cinque volte il suo fatturato 2017, atteso intorno ai 20 miliardi di dollari !

LA DIFFUSIONE/DIFFICOLTÀ DELLA QUOTAZIONE DELLE “APP”

Forse le operazioni più ardite per l’approdo alle borse valori sono però quelle relative alle applicazioni sui telefoni cellulari, come Uber, Dropbox e Spotify, non tanto per gli importi (che sono meno significativi di quelli appena citati) ma per gli scabrosi precedenti nel settore, come ad esempio Snapshot i cui crolli subito dopo il giorno di quotazione hanno lasciato sul campo numerose vittime professionali. Il problema principale delle IPOs di questo genere è chiaramente quello della loro valutazione, tutta affidata a percezioni della possibile crescita esponenziale che lasciano negli investitori molti dubbi di validità.

Ciò nonostante il mondo delle “App” corre alla velocità della luce, macina risultati, profitti e innovazioni, come mostrano le tabelle qui riportate.

 

Sino a ieri questa oggettiva difficoltà di far dialogare il mercato dei capitali di rischio cui accedono le start-up innovative con quello delle borse, cui accedono i grandi operatori del risparmio gestito che cercano investimenti più tranquilli ha fatto spesso sì che molte operazioni siano passate dai fondi Venture Capital invece che dalle borse.

Oggi con le borse ai massimi e con la grande liquidità che è in circolazione il dubbio invece si pone. È il caso per esempio di Uber, arrivata ad essere valutata circa 70 miliardi di dollari, e poi caduta almeno di un terzo di quel valore a seguito degli scandali del suo fondatore e capo carismatico Davis Kalanick. Oggi, dopo la nomina di un nuovo CEO, si torna a parlare di quotarla, in quanto leader di un mercato (quello del Ride-Hailing cioè del taxi privato) che ci aspetta crescerà almeno di otto volte in pochi anni fino a raggiungere la spettacolare cifra di 285 miliardi di dollari a livello globale.

IN EUROPA SI QUOTANO SOPRATTUTTO PICCOLE E MEDIE IMPRESE

Certo non tutte le borse sono uguali: le principali borse mondiali registrano forse un minor numero di matricole rispetto a quelle europee (e mediamente di maggiori dimensioni) ma si trovano da tempo a veder crescere di più i propri indici, soprattutto a causa dell’avanzata dei profitti delle maggiori Blue Chips (le più grandi imprese quotate) che ne influenzano pesantemente i livelli.

In quelle stesse borse molte imprese quotate di minore dimensione o appartenenti a settori industriali meno “sexy” per gli investitori si sono invece rivalutate in borsa in misura decisamente più contenuta. Se questo può costituire un segnale di attenzione prospettica per le borse europee, che oggi sono al centro di ogni appetito ma sono popolate soprattutto di imprese più piccole e più tradizionali, d’altronde sono così “stellari” le valutazioni che vengono attribuite alle nuove mega imprese digitali americane o asiatiche che non si sa quali tra le due categorie di investimenti siano meno folli.

Ma con tutta la liquidità che c’è in giro e le scarse prospettive di ritorno che possono provenire dagli investimenti alternativi a quello azionario come il reddito fisso (i cui rendimenti restano bassi e le cui possibili perdite in conto capitale per i futuri rialzi dei tassi e dell’inflazione possono portare il conto finale in territorio negativo) o gli investimenti immobiliari o infine quelli in beni rifugio e opere d’arte, di certezze non ve ne sono proprio. Di speranze invece fin troppe, sebbene le prospettive di crescita economica globale sono oggi così positive (si parla di un +5%) che sarebbe oggettivamente strano il contrario.

Stefano di Tommaso




FINANZIARE UN’IMPRESA SENZA AVERE CREDITO

Quasi tutti gli imprenditori del mondo si sono chiesti, almeno all’inizio della propria avventura, come riuscire a finanziare il proprio business. Spesso il capitale sociale di partenza è minimo e le imprese neonate o recuperate da un dissesto appaiono difficilmente bancabili se non hanno ancora chiuso il primo bilancio oppure se le dimensioni sono troppo piccole. Molte nuove imprese magari rilevano attività esistenti e già avviate ma esse non sono normalmente “bancabili” se non possono parallelamente esibire adeguate garanzie patrimoniali a chi potrebbe finanziarle. Non c’è bisogno di perdersi d’animo in molti di questi casi perché spesso nelle attività di impresa esistono molteplici risorse nascoste o modalità alternative di fare affari che possono costituire una valida alternativa al debito bancario e sostenere l’impresa magari anche solo per qualche tempo.


LA CORRETTA DEFINIZIONE DI CAPITALE

Sicuramente un’impresa che nasce da zero -spesso una startup tecnologica- deve riuscire a dotarsi di un capitale di rischio di importo congruo con il proprio piano aziendale, sempre che ne faccia uno. Ecco, il piano aziendale è veramente importante perché se sviluppato correttamente fornisce indicazioni circa la necessità di cassa prospettica e spesso aiuta a reperire risorse chiarificando i rischi ed i rendimenti attesi dell’impresa. Quantomeno il piano aiuta a capire se il capitale di partenza sarà sufficiente a sostenere l’attività fino a quando non sarà possibile generare cassa ovvero accedere a nuove risorse finanziarie.

IL PIANO D’IMPRESA NON SI PUÒ DELEGARE DEL TUTTO AI CONSULENTI

Il piano però non è soltanto un foglio di calcolo, bensì la disamina approfondita delle variabili di partenza che determinano i risultati attesi e delle modalità di impiego delle risorse necessarie. Quando quelle variabili di partenza sono correttamente confrontate con la realtà e diventano ipotesi credibili alla base dello sviluppo numerico atteso, ciò che bisogna aggiungere sono la descrizione e la quantificazione dei rischi e delle modalità per delimitarne le conseguenze negative.

Un imprenditore “autentico” non può pensare di demandare a terzi il suo piano aziendale, bensì al massimo può farsi aiutare nel tracciarlo. Innanzitutto perché deve riuscire a comprendere se la sua attivitá aziendale consegue veri utili oppure genera perdite (cosa mai tanto scontata ex ante), e poi perché attraverso il piano egli inizia a prendere coscienza delle effettive necessità di investimento per sostenere l’attività (quanto può rendere l’impresa se si investe di più?) e infine per toccare con mano le esigenze di capitale circolante netto (che d’ora in avanti definiremo CCN, il cui importo deriva dalla somma algebrica del magazzino e del credito alla clientela, dedotto il credito di fornitura).

IL RUOLO DEL CAPITALE CIRCOLANTE NETTO

Più il CCN risulta elevato e più assorbe risorse finanziarie, che spesso non producono reddito. Più si riesce a ridurlo (magari aumentando vertiginosamente la velocità di rotazione delle scorte, oppure riducendo i tempi di incasso dalla clientela, o infine ottenendo per le ragioni più svariate dell‘ulteriore credito di fornitura) e meno risorse finanziarie serviranno all’impresa, soprattutto quando dovrebbe impiegarle altrove: nell’efficienza della produzione, nei sistemi di controllo e più che ogni altra cosa, nello sviluppo dei mercati di sbocco.

Il controllo efficiente del CCN è di solito il vero scoglio da superare per chiunque, tanto per il fatto che c’è sempre qualche modo ancora da scovare per ridurlo, quanto perché -se è fisiologico- c’è sempre qualche modalità alternativa per finanziarlo.

LE PIATTAFORME DI CREDITO ALTERNATIVE

Esistono infatti non solo le banche ma anche e soprattutto società di factoring di ogni genere (sino ai cosiddetti “marketplace” online) che si propongono alle imprese che vogliono smobilizzare i loro crediti commerciali verso imprese solide, e in qualche caso propongono persino di finanziare i loro fornitori (reverse factoring) e che in altre situazioni possono finanziare le consistenze di magazzino. Riuscire a coprire in questo modo le esigenze di CCN significa in molti casi trovare quelle risorse altrimenti non reperibili che fanno la differenza.

Volendo stressare al massimo il concetto (e chi non trova risorse alternative spesso non può fare altrimenti) è teoricamente possibile cedere la proprietà degli assets aziendali mantenendo l’uso di quelli più strategici e si può arrivare a ottenere risorse per gli investimenti portando il CCN a un valore negativo, cioè ottenendo più credito di fornitura di quanto ammonti la somma di crediti commerciali e magazzino. Con quella differenza l’impresa può teoricamente finanziare anche i propri investimenti, anche se ovviamente l’arrivare a finanziare l’impresa grazie ai fornitori è un atto estremo e può portare numerose conseguenze negative.

Ma è comunque astrattamente possibile, soprattutto quando lo si faccia per un breve periodo di tempo e per ragioni eccellenti.

IL RAGIONAMENTO DA “IMPRENDITORE SQUATTRINATO” AIUTA COMUNQUE

Un altro metodo per finanziarsi quando non si dispone di cassa è quello di ottenere da terzi senza pagare (in comodato, in noleggio o in cambio di altro) beni strumentali, spazi fisici o altre tipologie di strumenti di produzione (computers, veicoli ecc…). Se io prima pensavo che il capitale sociale di cui dovrei disporre in funzione del mio piano aziendale dovevo impiegarlo per acquisire tali beni e/o per finanziare il CCN ecco che, individuate forme diverse di reperimento di cassa, magari quel capitale potrebbe non servirmi più, o potrebbe servirne di meno o potrei pensare di investirlo meglio in altre direzioni.

Il ragionamento appena accennato, che io chiamo “dell’imprenditore squattrinato” vale infatti anche per chi non lo è davvero, ma può chiedersi se sta utilizzando nel modo migliore le risorse di cui dispone o se invece non varrebbe la pena di sostituire gli attuali metodi di finanziamento con alcuni di quelli indiretti qui citati per reperire risorse al fine di effettuare quegli investimenti che potrebbero risultare davvero strategici per il futuro del business. Molti imprenditori credono di aver fatto tutto il possibile ma dimenticano gli investimenti strategici o semplicemente non si arrischiano a farli perché non ritengono di disporre di sufficienti risorse. Ma si sono mai chiesti quanto è rischioso non farli?

LA NECESSITÀ DI CONTINUARE A CERCARE SOCI DI CAPITALE

Senza dubbio ciò che spesso risulta più odioso dal punto di vista dell’orgoglio dell’imprenditore è l’andare a reperire capitale da terzi investitori, mentre potrebbe da molti punti di vista risultare l’alternativa più sana per far soldi. Non necessariamente infatti allargare la compagine sociale significa aver fallito, anzi! Spesso è un problema strettamente psicologico o di mancata capacità di mettersi attivamente a ricercare i soggetti che potrebbero investire con lui. Le domande che questi ultimi faranno per decidere se investire nella sua impresa molto probabilmente risulteranno essere la miglior consulenza gratuita per un imprenditore che vuole ragionarci sopra.

Nuovi soci di capitale che disturbano perché possono voler dire la loro anche quando non hanno ragione o rischiare intralciare il business, spesso risultano comunque essenziali laddove i rischi del business risultino elevati ovvero poco razionali e dunque nessuna modalità di finanziamento (per quanto irrituale) è altamente indicata. Quando non sarebbe sano finanziarsi (anche indirettamente) la cosa da fare è raccogliere capitale di rischio, magari tramite piattaforme online (crowdfunding) o intermediari specializzati.

Senza parlare della necessità costante delle imprese di crescere e consolidare la propria posizione di mercato, per affrontare le sfide del futuro o anche solo per meglio remunerare degli investimenti che vanno comunque fatti a prescindere dalle dimensioni aziendali. Moltissime imprese italiane tralasciano di pianificare il proprio futuro.

LA NECESSITÀ DI PIANIFICAZIONE E ANALISI STRATEGICA

Qui però torna di attualità il piano aziendale e insieme ad esso la corretta definizione di rischio, rendimento, generazione di cassa e assorbimento di CCN: molte pratiche alternative di reperimento di risorse fuori del mercato dei capitali e del credito bancario possono generare oneri aggiuntivi, rischi e possibili vincoli strategici. Senza una visione strategica del mercato, della concorrenza, delle alternative di fornitura e dei mercati di sbocco, non si ottiene un’immagine nitida del proprio posizionamento e non si elaborano scenari alternativi. In tali casi pratiche come quelle citate, finalizzate al reperimento di risorse finanziarie “alternative”, possono risultare pericolose o più semplicemente possono indurre perdite economiche che non risultano recuperabili in tempi ragionevoli.

Molte imprese possono dunque “guardarsi dentro” e scoprire di disporre di tesori nascosti e capacità vitali inaspettate, ma nel farlo devono cercare di avere le idee chiare e la possibilità di generare valore per tutti i propri “stakeholders” nonostante tutto!

Stefano di Tommaso