LE SORTI DELL’EURO SI SCRIVONO NEL 2022

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La bolletta energetica alle stelle e il tentativo di “tapering” della Banca Centrale Europea rischiano di mettere a dura prova la tenuta dell’Unione monetaria con rialzi dei tassi e conseguenti timori sui debiti pubblici come il nostro. Chi ci ha guadagnato dall’introduzione dell’Euro sino ad oggi (sono passati giusto 20 anni) è stata indubbiamente la Germania. La ricchezza media degli italiani non è quasi cresciuta nello stesso periodo ma l’inflazione ha eroso circa un terzo del valore dell’Euro nel 2021. Oggi l’esigenza di tornare a far crescere le economie periferiche può spingere il governo dell’Unione all’emissione di bond europei in larga scala, che nel tempo potrebbero rimpiazzare i titoli di stato nazionali, almeno per le infrastrutture. Ma la strada è in salita. E il nostro spread ne risente…

 

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LA RICCHEZZA MEDIA DEGLI ITALIANI NON E’ CRESCIUTA…

Sono passati poco più di vent’anni dalla perdita della sovranità monetaria del nostro paese e, sebbene il nostro debito pubblico sia cresciuto sensibilmente, la sua sostenibilità è apparentemente migliorata, anche grazie ai massicci acquisti di titoli dì stato italiani da parte della banca centrale europea. Il regime di tassi bassi imposto dall’introduzione di una moneta forte ha inoltre indubbiamente favorito la riduzione della spesa pagata per il servizio di quel debito. Eppure nello stesso periodo la ricchezza media degli italiani ha fatto ben pochi passi in avanti: è cresciuta in vent’anni soltanto del 4,6%, passando da 159.300 a 166.300 euro, mentre quella di altri paesi europei è decisamente migliorata: la Francia ha visto nel ventennio una crescita del 24,1%, passando da 150.330 a 187.000 euro, e la Germania ha sperimentato addirittura una crescita (il 50% in più) doppia della Francia e oltre dieci volte dell’Italia, passando da 112.800 a 169.500 euro (in media del 2,5% annuo).

…E IL PRODOTTO INTERNO LORDO NEMMENO

Se poi volessimo parlare non di ricchezza, bensì di reddito, la crescita al netto dell’inflazione del prodotto interno lordo italiano (PIL) si è quasi azzerata, giungendo allo 0,9% nell’ultimo decennio e ha fatto poco meglio in quello precedente (2000-2010) con una crescita del 3,2%. Molto meglio era andata prima dell’introduzione della moneta unica: nel decennio precedente (1990-2000) il PIL era cresciuto del 17,3%, in quello prima ancora (1980-1990) del 26,9% e addirittura del 45,2% negli anni ‘80. Nel grafico l’andamento dell’ output globale lordo che vede un costante ridimensionamento dell’Europa:

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Dunque avete letto bene: al netto dell’inflazione! Cioè quella crescita del PIL italiano, che stava già indubbiamente riducendosi in termini assoluti dagli anni ‘80 al primo decennio del 2000 ma che comunque correva, al netto delle svalutazioni monetarie, nell’ordine del 3% medio annuo, è poi letteralmente crollata intorno allo zero assoluto (+4,1% in vent’anni, cioè lo 0,2% annuo) con l’introduzione dell’Euro e di tutti i suoi vincoli! E senza più alcuna svalutazione, numeri alla mano. Non sono opinioni: sono numeri, e come tali molto testardi!

Senza dubbio dobbiamo tenere conto del fatto che, se l’intera Europa ha fatto qualche passo indietro nella competenza internazionale nel medesimo ventennio di moneta unica, è stata soprattutto l’Italia nello stesso periodo a sbagliare quasi tutto quello che poteva. Ma occorre altresì notare il trasferimento netto di ricchezza operato dalla Germania a proprio favore all’interno dell’Unione Europea, cosa che fa pensare -ex-post- che le stringenti regole comunitarie sono servite più a questo, che a generare una crescita di ricchezza complessiva.

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DAL 2001 L’EURO SI E’ SVALUTATO DEL 44%

Ora nello stesso ventennio l’inflazione è senza dubbio scesa ai minimi storici, arrivando addirittura ad essere negativa negli anni successivi alla grande crisi finanziaria del 2008-2009. La media annua di tutto il periodo è stata pari all’1,73% producendo una svalutazione media del potere d’acquisto in Euro del 43,4% nel medesimo ventennio, come si può vedere dai due grafici qui riportati (uno in termini reciproci all’altro):

Se dividiamo quel quasi 44% di perdita di potere d’acquisto in Euro nei vent’anni, otteniamo un tasso annuo (non composto) di svalutazione di circa il 2,2% annuo. Come dire che la crescita in termini reali del nostro PIL si è più o meno azzerata, ma la perdita dì potere d’acquisto a seguito dell’inflazione dei prezzi ce l’abbiamo avuta ugualmente, e ha eroso all’incirca un terzo del valore monetario a nostre mani a inizio 2001. Dì nuovo, vorrei evitare pregiudizi: non sono opinioni a proposito della moneta unica, soltanto testardissimi numeri!

ORA PERO’ L’INFLAZIONE COMPLICA TUTTO

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Il vero problema però arriva senza dubbio quest’anno, dal momento che l’inflazione si è di colpo risvegliata ben oltre le medie storiche, arrivando nell’ultimo mese al 5% medio nella zona Euro (come si può vedere dal grafico qui sotto) e, ahimè, anche con la prospettiva di rimanere intorno a quei livelli piuttosto a lungo!

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Nello stesso mese di Dicembre infatti l’inflazione americana è arrivata al 7% ma soprattutto è cresciuta -più che proporzionalmente nell’Unione Europea- la bolletta energetica! Con la quasi certezza che ciò si rifletterà notevolmente sull’inflazione tendenziale dell’anno in corso, come si legge nel grafico qui accanto:

L’ENERGIA COSTA MOLTO DI PIU’

E questo proprio mentre le tensioni politiche con la Russia fanno ridurre le forniture da quest’ultima e lievitare le importazioni dì gas da petrolio liquefatto dagli U.S.A.:

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L’Unione Europea cioè non soltanto si è privata di un importante strumento deflattivo che poteva essere il più basso costo dell’energia importata dalla Federazione Russa a causa dell’adesione incondizionata alla posizione contrapposta degli Stati Uniti d’America, mettendosi di conseguenza nelle mani degli esportatori di gas americano (che deve peraltro essere prima rigassificato al suo arrivo nei nostri porti per venire utilizzato) ma rischia di aver perso, per Paesi come il nostro, il principale vantaggio che sembrava mostrare in termini di stabilità monetaria e difesa contro l’inflazione, a causa della bolletta energetica.

IL TAGLIO DEGLI ACQUISTI DA PARTE DELLA B.C.E.

Il Vero problema è infatti non è chiedersi quanto sia stato utile all’Italia aver fatto parte sino ad oggi dell’Unione Monetaria Europea, bensì sapere quanto a lungo la Banca Centrale Europea (BCE) potrà continuare ad acquistare i titoli di stato italiani tenendone bassi i tassi d’interesse di conseguenza.

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Nel 2020 la BCE ne ha acquistati per 175 miliardi (coprendo interamente il nostro deficit pubblico pari a 159 miliardi). Nel 2021 per 155 miliardi (coprendo il 92% del medesimo deficit pari a 167 miliardi). Nel 2022 ha in programma di acquistarne molti meno! Soltanto 63 miliardi di titoli (coprendo però solo il 60% del deficit pubblico italiano, stimato in 106 miliardi), oltre al reinvestimento in nuovi titoli della liquidità proveniente dai rimborsi dei titoli giunti a scadenza. Nel 2022 insomma la musica rischia di cambiare!

Mai cioè come negli ultimi due anni l’appartenere all’Unione monetaria europea ha giovato al nostro Paese (seppure in cambio di una notevole frenata alla nostra competitività). Ma oggi le sfide (soprattutto a seguito dell’inflazione) si moltiplicano proprio mentre la giostra che ha rinviato sino ad oggi molti problemi del nostro Paese (gli acquisti di BTP da parte della BCE) sembra giunta a fine corsa!

In conseguenza dei suddetti acquisti, nel 2021 la percentuale di debito pubblico detenuto dalla BCE e dalle istituzioni europee è arrivata al 28% e (pur nella previsione di un dimezzamento degli acquisti BCE nel 2022 su base annua) nel 2022 sarà almeno pari al 30% (prima della pandemia era stato soltanto il 16%).

RIDURRE IL DEBITO SENZA ALZARE LE TASSE ?

Pochi giorni fa (prima di Natale) si erano riuniti il nostro capo di governo (Mario Draghi) e quello francese, nonché presidente di turno dell’Unione Europea (Emmanuel Macron) convenendo su un progetto semplice ma ambizioso: “Ridurre il debito senza alzare le tasse”. Ma le ultime notizie in termini di inflazione importata rischiano di tagliare decisamente le gambe a quel progetto. Cosa farà l’Italia per rendersi appetibile nel piazzare i suoi titoli pubblici nel corso di quest’anno ? Riuscirà a sfoderare una crescita robusta dell’economia tale da far tornare in discesa il rapporto debito pubblico / prodotto interno lordo? Al momento sembra improbabile, anche a causa del crollo dei consumi dovuto al virus…

Oppure riuscirà l’Europa a recuperare un dialogo al suo interno tra “fondamentalisti” e “progressisti” affinché si prosegua ad emettere debito pubblico comunitario, ben oltre il programma “NEXT GENERATION EU” (finanziato peraltro solo per metà dal debito dell’Unione)? La sfida è solenne nei mesi che verranno, anche perché in uno scenario difficile come quello che si prospetta per il prossimo biennio e con gli strascichi delle ondate pandemiche, la possibilità di contrastare la mancata crescita con una maggior spesa infrastrutturale europea è una delle poche panacee rimaste a sostenere i pilastri dell’Unione.

MA QUANDO ARRIVANO GLI EUROBOND ?

La risposta a questo interrogativo è fondamentale per vedere l’Unione Europea finalmente consolidarsi con l’occasione, oppure arrivare in fretta a disgregarsi irrimediabilmente. Noi siamo ovviamente ottimisti! Nessuno ha davvero interesse a tornare indietro dì vent’anni. Pur con tutti i limiti e difetti che si possono elencare di quest’unione a metà. Né appaiono oggi plausibili scenari dì “Italexit” che pure, in senso astratto, potrebbero risultare a noi convenienti. Non siamo nemmeno lontanamente paragonabili al Regno Unito! Il grafico riportato segnala infatti la necessità di aggiornare al ribasso le stime di crescita al netto dell’ inflazione (il “deflatore” nel 2022 sarà ben maggiore di quello qui recentemente previsto):

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Motivo per cui ben difficilmente le forze politiche italiane potranno dare luogo ad una crisi istituzionale nell’anno appena iniziato. Il solito teatrino della politica per un po’ dì tempo si può giurare allora che stavolta non andrà in scena: senza gli acquisti della BCE e senza una crescita poderosa il debito pubblico italiano può solo crollare o ridursi. E nessuno dei due scenari è oggi accettabile.

Per questo motivo si può tranquillamente scommettere sulla stabilità politica italiana e sul “whatever it takes” per riuscire a far continuare il nostro Paese nella stabilità fino a fine legislatura, onde promuovere la crescita economica interna. Magari con l’estensione del PNRR, finanziato in parte, appunto, di nuovo dal debito comunitario… (anche per contrastare il mancato rinnovo del blocco delle rate prestiti bancari a 700mila PMI -€27 miliardi- e la fine delle garanzie pubbliche -Giugno ‘22- ai prestiti erogati a 2,5 milioni di aziende).

Stefano di Tommaso




RESILIENZA ITALIANA

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I media di tutto il mondo riportano in queste ore due picchi preoccupanti: l’inflazione registrata negli Stati Uniti d’America a Novembre (quasi il 7% – si dove tornare indietro al 1982 per ricordarne una maggiore), e i nuovi contagi da COVID. L’Italia al momento sembra al riparo da entrambi. Ma è addirittura il futuro dell’economia globale a rischio. E se l’inflazione continuasse a correre ma la crescita economica no, allora ci troveremmo presto nel peggiore degli scenari: la temuta “stagflazione” (stagnazione + inflazione). In tal caso la leggendaria capacità del nostro paese di “cavarsela” in qualche modo, insieme alle molte doti del governo in carica, potranno aiutare il paese a partorire un miracolo?

 

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LE CAUSE DEI TIMORI

L’andamento economico globale sta indubbiamente subendo nuovamente un freno per le conseguenze dell’imperversare della quarta ondata pandemica, caratterizzata dalla “variante omicron”, dal perdurare della scarsa offerta internazionale di materie prime, semilavorati, derrate alimentari e materiali combustibili. Ma fino ad oggi ciò non ha quasi mai creato problemi ai mercati finanziari perché gli idranti delle banche centrali di tutto il mondo hanno continuato a irrorare liquidità e i tassi sono rimasti bassi. Oggi il picco dell’inflazione e la constatazione del fatto che sia divenuta “strutturale” fanno temere interventi delle banche centrali che possono mandare K.O. le borse e spingere al ribasso gli investimenti.

Ed è oramai divenuto certezza che la possente ripresa economica che tutti speravano avrebbe caratterizzato l’anno successivo a quello dei “lockdown” (il 2020) si è trasformata in poco più di un mero rimbalzo, riuscendo sì a riportare il calendario sostanzialmente indietro di 2 anni (al 2019), ma con aggravanti e scarse prospettive di poter proseguire.

LE AGGRAVANTI RISPETTO AL 2020

Le principali aggravanti rispetto alla situazione pre-covid sono almeno tre: A) il maggior debito contratto tanto nel settore pubblico quanto nel privato per finanziare la ripresa, B) la possibile -anzi probabile- risalita dei tassi d’interesse conseguente all’inflazione dei prezzi e C) l’accresciuto allarme ambientale, che pone una serie di interrogativi su quanto esso inciderà sul costo dell’energia e dunque sull’inflazione.

Veniamo da una situazione quasi-idilliaca di inflazione e tassi d’interesse bassi, molta liquidità in circolazione (e quindi ovviamente di borse ai massimi livelli di sempre) e decisa ripresa economica. Ma oggi lo scenario sembra mutare verso il peggio. Altrove nel mondo, laddove sono stati raggiunti i livelli di Prodotto Interno Lordo cui si era arrivati prima del COVID, la ripresa stesa si è quasi appiattita. Per non parlare dell’inflazione, che negli U.S.A. ha raggiunto livelli che non si vedevano da quasi quarant’anni e che gode di una micidiale catena di trasmissione: il duetto Dollaro/Petrolio: quando scende il secondo sale il primo e viceversa.

LA SITUAZIONE ITALIANA

Negli ultimi mesi l’Italia ha accelerato le sue esportazioni e, per la natura delle sue filiere produttive, è riuscita a limitare i danni del maggior costo delle materie prime. Le agenzie di rating ci hanno promosso e la Borsa ha performato bene. Anche l’altissimo tasso di popolazione vaccinata ha impedito (sino ad oggi) che la nuova ondata pandemica frenasse l’economia. E gli investimenti delle imprese stanno ancora continuando a correre, nonostante la più elevata tassazione del mondo, con una ripresa della fiducia degli operatori certificata di recente da Markit: l’indice Pmi manifatturiero dell’Italia ha addirittura toccato a novembre un massimo storico.

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Nel terzo trimestre del 2021 infatti il livello del valore aggiunto dell’industria manifatturiera italiana è risultato del 3,2% superiore a quello del quarto trimestre 2019 antecedente il Covid-19, mentre gli altri maggiori Paesi dell’Eurozona non sono riusciti a fare altrettanto. La Spagna è ancora sotto dell’1,4% ai livelli pre-crisi, la Francia del 4,8% e la Germania del 5,5%. L’Italia ha solo un settore tra i primi cinque del proprio export vulnerabile alle carenze di componentistica globale: l’automobile. Ma pesa soltanto per il 7,5% nelle nostre esportazioni totali mentre è del 17% per la Germania.

Se quest’anno il Pil dell’Italia è stato trainato anche dai contributi all’edilizia (110% e dintorni) e dalla ripresa dei consumi, il 2022 potrebbe proseguire, beneficiando dell’attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Gli investimenti in digitalizzazione, ambiente, infrastrutture e sostegno sociale, possono aiutare l’Italia a ridurre il divario con il resto d’Europa in particolare nell’efficienza di Pubblica amministrazione e Giustizia, nonché nello sviluppo del Mezzogiorno.

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Ma l’asprezza dei giochi politici in corso per l’elezione del Presidente della Repubblica e la solita polemica pre-elettorale per elezioni politiche del 2023 (che potrebbe tornare a mordere già a partire dal prossimo anno) rivelano una certa difficoltà a far proseguire indisturbato l’attuale governo di unità nazionale.

LE CONDIZIONALITÀ EUROPEE

Inoltre lo “spread” (la differenza tra il costo del debito pubblico italiano e quello tedesco) ha già ripreso a correre, nonostante l’ottimo andamento dell’economia. Il finanziamento del debito pubblico italiano è stato infatti sino ad oggi garantito quasi soltanto dalla Banca Centrale Europea in attuazione del programma di acquisto dei titoli dì stato varato per contrastare l’emergenza pandemica (il c.d. P.E.P.P.). Ma questo avrà termine il prossimo 31 Marzo. Perché prosegua anche successivamente è probabile che dipenderà molto da una serie dì altre “condizionalità” che la Commissione Europea sta già preparando (dì fatto una riedizione riveduta e corretta del “Meccanismo Europeo dì Stabilità”, o MES che dir si voglia).

Il risultato della cosiddetta “cura Draghi” è sì insomma a un passo dall’essere colto, ma è anche tutt’altro che scontato. Il suo successo potrebbe aiutare il nostro paese a evolvere decisamente, ma il peso del debito dì Stato e l’ampiezza del deficit strutturale afferente le nostre finanze pubbliche lasciano supporre che ciò potrà avvenire soltanto se le condizioni economiche globali non continueranno a peggiorare e se la politica italiana non entrerà ancora una volta in fibrillazione con l’Unione Europea.

E I MERCATI AUMENTANO LA CAUTELA

I mercati finanziari di conseguenza non riescono ad esprimere (soprattutto per il nostro paese) previsioni affidabili, e oscillano tra ottimismo e pessimismo, su un sottofondo dì tensioni geopolitiche crescenti (che alimentano la forza del Dollaro) e tassi d’interesse dati per certo in crescita già dalla prossima primavera. Difficile dire cosa farà la nostra Borsa dopo Natale.

Sebbene infatti ci si attende che l’intonazione rimanga sostenuta, almeno fino all’estate, la volatilità delle sue quotazioni potrebbe continuare a crescere.

Stefano di Tommaso




LA MANOVRA ITALIANA, LE POSSIBILI REAZIONI EUROPEE E LO SCENARIO GLOBALE

Al di là di ogni polemica politica, partitica o finanziaria, al di là di ogni commento sulle posizioni assunte da questo o quell’intellettuale sulla qualità o sulla sostanza della manovra preconizzata dal nuovo governo giallo-verde italiano (ha 4 mesi di anzianità), persino al di là di ogni considerazione sul deficit che essa genera, non posso non affermare il mio grande interesse, sull’attenzione che essa ha generato nell’opinione pubblica -interna e internazionale- per vari motivi.

 

UNO SCOSSONE POSITIVO

Erano anni che l’opinione pubblica italiana non tornava a dibattere di cose serie, quali gli stimoli alla crescita economica, gli investimenti infrastrutturali, la competitività delle aliquote fiscali per le imprese, gli incentivi all’occupazione e la congruità delle normative imposte dagli euro-burocrati ai singoli Stati membri: finalmente si è acceso un dibattito che diverge sostanzialmente dalla demagogia di quelli che lo hanno preceduto e che fa sperare che si avvii un dialogo -anche a livello europeo- sulle ricadute di medio termine delle politiche fiscali e monetarie che oggi vengono ipotizzate. Non accadeva da anni e nessuno osava mettere in discussione una serie di “follie” che Bruxelles propagandava a vantaggio dei soliti noti (Germania e Francia).

Erano anni insomma che non ci si chiedeva quali manovre potranno sortire il migliore effetto sulla crescita economica del Paese posto che è finalmente chiaro a tutti che è soltanto quest’ultima che potrebbe salvare l’Italia dal baratro dell’insostenibilità del proprio debito pubblico. A prescindere dunque dal deficit di bilancio (che in qualche modo nel frattempo va certamente finanziato) la vera domanda che conta è tornata centrale: il rapporto tra debito e prodotto interno lordo (PIL) scende o sale? E perché scenda è finalmente chiaro a tutti che è il PIL che deve crescere, visto che il debito non scende da solo.

LA VERA NOVITÀ: STOP AL FISCAL COMPACT

Il nuovo governo sembra aver avviato un confronto con il Pese e con il resto del mondo sulle priorità del quadro programmatico e sulla qualità della spesa del denaro pubblico, dando precedenza a queste scelte piuttosto che al contenimento “a priori” del deficit, senza badare a cambiare l’indirizzo della spesa pubblica e la reale validità delle politiche economiche del passato (errate quasi per definizione, visti gli scarsi risultati). La vera novità sta dunque nell’intenzione di lasciare indietro il Fiscal compact e l’obbligo di tendere al pareggio di bilancio dando uno scossone alla filosofia di austerità fino ad oggi prevalente nella Commissione Europea, auspicandone chiaramente una diversa e più orientata a politiche fiscali espansive in vista delle prossime elezioni europee.

La scommessa della maggioranza che ci governa è perciò quella “trumpiana” che ha portato l’America ai risultati che vediamo: abbassare le tasse e aumentare la qualità della spesa pubblica (soprattutto investimenti in infrastrutture e occupazione) per generare crescita economica e far tornare la fiducia negli operatori economici. E visto che per perseguirla bisognava avere il coraggio di fare deficit e scontrarsi con la Commissione Europea, questo governo ha prestato il fianco a critiche e perplessità di ogni genere, qualcuna nemmeno a torto.

LE CRITICHE MOSSE AL GOVERNO

Le critiche mosse al momento della pubblicazione del DEF da più parti sono consistite infatti principalmente nell’incapacità di comunicare per tempo e correttamente la portata e la credibilità dell’iniziativa (anche questa comprovata dai fatti: i mercati hanno reagito male) nonché l’oggettività del miglioramento della qualità della spesa. Altri ancora hanno correttamente notato che questa manovra prevede inoltre troppi pochi tagli alla spesa pubblica improduttiva e ai carrozzoni di Stato, riconcorrendo una crescita che non è matematicamente certo potrà generarsi.

In effetti occorre notare che il “mainstream” ha alimentato l’idea errata che il DEF fosse stato pensato in tutt’altro modo dai ministri tecnici del governo e poi “ribaltato” all’ultimo momento dai due leader politici che ricoprono il ruolo di vice-premier: niente di più ingiusto. È stata casomai la misura del deficit che ne derivava che ha visto disalinneati i primi dai secondi (per soli 7 miliardi di euro contro i quasi mille di spesa).

UN PRECISO CALCOLO POLITICO

I vicepremier hanno sì inteso dare una spallata vera e propria all’accordo europeo che va sotto il nome di fiscal compact, ma per un preciso calcolo politico: la stessa vittoria giallo-verde è stata originata dal rigetto della maggioranza degl’Italiani verso le direttive comunitarie e i politici corrotti che le hanno irragionevolmente applicate, colpevoli di aver ottenuto benefici nel fare invadere il territorio da migranti più o meno clandestini disposti a tutto e di aver scavato con eccesso di spesa clientelare e tassazione la fossa nella quale è caduto il Paese.

Inoltre Salvini e Di Maio hanno capito che la loro pressione sulle istituzioni europee le spinge alla disfatta: se chiuderanno gli occhi verso il mancato ossequio al “fiscal compact” perderanno credibilità e lasceranno che molti altri paesi, Francia e Spagna in testa, facciano lo stesso (anzi lo stanno già facendo). Se faranno il contrario come potranno giustificare il resto d’Europa? E come potranno sperare di essere confermate al governo europeo tra pochi mesi fronte all’impopolarità di cui si macchierebbero? La risposta corretta potrebbe consistere in una serie di misure atte a finanziare a livello europeo gli investimenti infrastrutturali più importanti, magari con l’ausilio della Banca Centrale Europea (BCE) che potrebbe inoltre prolungare l’ombrello del Quantitative Easing (QE) oltre la fine dell’anno corrente, quantomeno fino a dopo le elezioni europee. Ma se così non accadesse e alle prossime elezioni non cambiasse nulla (cosa improbabile di per sè) Di Maio e Salvini godrebbero allora di un ampio appoggio popolare nel decidere l’uscita dell’Italia dalla “gabbia” europea, e forse non ne avrebbero nemmeno tutti i torti.

LA MINACCIA DELLO SPREAD

La minaccia dello Spread è perciò questa volta molto meno pesante di quanto lo è stata con Berlusconi (che non disponeva di una maggioranza assoluta) e di quanto è accaduto in Grecia, la cui economia è dieci volte più piccola dell’Italia. L’esito della crisi greca è inoltre poco d’esempio: dopo che la “Troika” (costituita dai rappresentanti della Commissione europea, della Banca centrale europea e del Fondo monetario internazionale.) è intervenuta, le condizioni materiali del popolo non sono migliorate, le principali infrastrutture sono finite nelle mani di tedeschi e francesi e il debito pubblico si è accresciuto fino al 170% del PIL (dal 140% dei tempi della crisi). La manovra sarebbe difficilmente replicabile senza che l’Italia, con una forte maggioranza popolare, decidesse prima di uscire dall’Euro.

LA PAROLA AI MERCATI

Ecco dunque che la parola torna ai mercati (cioè alle manovre della grande finanza), perché difficilmente il dibattito europeo avrà esiti consistenti prima delle elezioni. Riusciranno i mercati a piegare il Bel Paese e ne avrebbero davvero un beneficio? È possibile, anzi è probabile, che la risposta a entrambe le questioni sia negativa, principalmente a causa del fatto che i mercati sono già agitati per altri motivi: i tassi internazionali salgono (forse in misura eccessiva) e al tempo stesso il Dollaro si rafforza troppo sulle alte valute, anche perché i tassi americani continuano ad espandersi nei confronti di quelli europei (nel grafico qui sopra riportato lo spread Treasury-Bund a 10 anni). Una crisi italiana potrebbe innescarne una globale e un Euro troppo debole non piacerebbe agli Stati Uniti ma nemmeno a Russi e Cinesi.

Se dunque la BCE proseguisse nelle sue facilitazioni monetarie e con questo contribuisse ad ampliare il divario tra i tassi europei e quelli americani essa probabilmente farebbe un gran favore persino all’America, fornendole una scusa sensata per forzare una limatura del l’atteggiamento da falco della Federal Reserve. Il rischio ovviamente sarebbe quello di possibili fiammate d’inflazione a livello globale, che tuttavia sono relativamente improbabili stante l’aspettativa generale di una moderata crescita della domanda aggregata per consumi (con l’eccezione americana che però potrebbe aver già toccato il suo picco).

C’È SPAZIO PER L’OTTIMISMO


Se il petrolio non sfonderà i 100 dollari al barile (anche questo è al momento non ipotizzabile) e il biglietto verde non si avvicinerà alla parità con l’Euro ecco che la situazione rimarrebbe sotto controllo e anzi la prospettata frenata economica europea potrebbe trasformarsi in una ripresa positiva del ciclo. Ma se così non fosse anche le borse traballerebbero molto più di quanto stanno facendo oggi, perché la fine degli stimoli monetari globali, se può risultare appropriata in un’America la cui economia corre al 4% annuo e ha quasi raggiunto la piena occupazione, rischia invece di risultare assolutamente prematura in Europa o assolutamente controindicata in India e Cina.

Dunque c’è spazio per un po’ di ottimismo, per molta diplomazia e per tanta pazienza: nei prossimi mesi potrebbe non succedere assolutamente nulla e ciò, di per se, per i mercati sarebbe già un’ottima notizia…

Stefano di Tommaso




SE L’INFLAZIONE FRENA

Come sempre gli Stati Uniti stanno anticipando alcune tendenze di fondo (deregulation, diminuzione della pressione fiscale ma anche razionalizzazione della spesa pubblica, investimenti infrastrutturali, allargamento dei buyback azionari e dei piani di stock options, crescita salariale, riequilibrio della bilancia dei pagamenti) che non potranno non estendersi presto a buona parte del resto del mondo, a partire dalle altre due grandi nazioni del Nordamerica (Canada e Messico).

 

DOMANDA BASSA E OFFERTA ABBONDANTE CALMIERANO LA CRESCITA DELL’INFLAZIONE

Quanto avviene negli Stati Uniti ha effetti decisamente positivi sull’incremento dell’offerta di beni e servizi, perché tutto ciò accresce il reddito disponibile per i consumi, soprattutto quelli digitali e in servizi avanzati, mentre sul fronte della domanda di beni e servizi invece si intravede una correzione al ribasso a causa di molti fattori, dall’avanzata del commercio digitale al ritorno dei capitali verso le piazze finanziarie più “sicure”, ai dazi, alle sanzioni nei confronti di Cina e Russia, fino al conseguente e voluto ritorno della centralità del dollaro (usato come arma politica) alla progressiva ri-localizzazione delle produzioni industriali dai paesi (emergenti) a più alto sviluppo demografico verso quelli a crescita negativa.

Il fenomeno più evidente è l’ampiamente previsto rallentamento della produzione industriale cinese e, di conseguenza, il rallentamento della crescita dei prezzi di materie prime e forniture energetiche (gas e petrolio) che probabilmente avrà ripercussioni positive anche nel resto del mondo.

Anche per questi motivi Wall Street resta imperterrita sui valori massimi storici, nonostante sia dato per scontato l’ennesimo aumento dei tassi di interesse da parte della Federal Reserve.

Le aspettative sono buone per il prossimo futuro anche per l’Europa, sebbene l’Italia debba ancora dimostrare che non creerà problemi di credibilità istituzionale.

 

LE GUERRE DOGANALI MONTANO AD EST E SI PLACANO AD OVEST

Anche le paure legate alle cosiddette “guerre commerciali” che hanno riempito le testate dei giornali di tutto il pianeta sembrano stemperarsi, soprattutto per ciò che riguarda il Nordamerica e l’Europa, le cui dispute tariffarie paiono avviarsi verso soluzioni di accettabile compromesso, come peraltro era stato ampiamente anticipato su queste colonne, e con buona pace dei “soloni” della domenica che prefiguravano scenari apocalittici.

La più modesta realtà che si dispiega invece sembra quella di un presidente americano propenso (anche a scopi elettorali) a percepire il dividendo immediato di un rieqdella bilancia commerciale a americana tramite accordi bilaterali bonari, almeno nei confronti dell’Europa e del resto del Nord America, dal momento che con Russia e Cina è invece in atto un confronto politico ben più profondo; volto al ridimensionamento della loro influenza sui paesi emergenti limitrofi.

Il risultato dello scenario che si può cercare di anticipare per Settembre sui mercati finanziari sembra essere quello di una dinamica di inflazione assai meno preoccupante, cresciuta si ma oggi stabilizzata sostanzialmente attorno ai valori già visti (poco più del 2% in America e qualche centesimo in meno in Europa), se non addirittura in lieve ribasso, anche poiché l’impennata vista nella prima parte del 2018, fortemente influenzata dalla risalita dei prezzi di materie prime e derrate alimentari, sembra aver esaurito il suo vigore.


Anche in Italia l’inflazione è cresciuta insieme alla mini-ripresa economica, ma in misura decisamente inferiore al resto d’Europa, tanto a causa della scarsa dinamica salariale (la disoccupazione resta stabilmente sopra al 10%) quanto per la pressione fiscale, addirittura in lieve aumento.

Uno dei fattori che spingono al raffreddamento delle pressioni inflazionistiche è poi l’elevatissimo livello di indebitamento, tanto nel settore pubblico quanto nel privato, non soltanto in Cina ma anche in tutto il resto del mondo. Il de-leveraging che ne dovrebbe conseguire potrebbe costituire una polizza di garanzia contro l’avanzata dell’inflazione ancora per molti anni a venire.

 



IL COSTO DEL LAVORO NON SALE

Altro fattore di contenimento della possibile dinamica inflazionistica è il progressivo affievolimento dell’influenza delle battaglie sindacali sulle relazioni industriali, quantomeno quelle sull’incremento dei redditi, visto che la crescente automazione produttiva determina, per quelli di base, addirittura una pressione al ribasso e la crescita dei salari, casomai, riguarda le elevate specializzazioni in servizi, tecnologia e manutenzione degli impianti.

Ma il contenimento del costo del lavoro è anche dettato dalla progressiva rarefazione dei posti di lavoro nell’industria, nel commercio e nell’agricoltura a causa dell’automatizzazione dei processi e della logistica, mentre al contrario in tutto il mondo la forza lavoro si accresce per motivi demografici, per i milioni di immigrati che sono di recente sbarcati in Europa (costituiscono ampliamento dell’offerta di lavoro che accetta salari minimi anche per le attività più faticose) e per la progressiva maggior quota di lavoro femminile. Il risultato è garantito: il costo del lavoro incide sempre meno sul prezzo finale del prodotto o servizio.

LA MODERATA INFLAZIONE BILANCIA LA CONTRAZIONE DELLA LIQUIDITÀ

Per fortuna questi fattori, di per sè non una buona notizia per l’umanità, lo sono nell’indicare che l’inflazione può rimanere sotto controllo, e coincidono con l’esigenza del mondo occidentale e industrializzato di ridurre l’indebitamento complessivo, cosa che restringe il moltiplicatore del credito, proprio quando le banche centrali che cercano faticosamente di fare retromarcia negli stimoli monetari rischiavano di far collassare i mercati finanziari per rarefazione della liquidità complessiva in circolazione.

Il rischio che ad un rialzo dei tassi quasi ineluttabile segua anche una fiammata inflazionistica (azzerando dunque i rendimenti reali del reddito fisso) è percepito (in parte tutt’ora) come un macigno che incombe sul l’elevato livello complessivo raggiunto dalle quotazioni delle borse e dei titoli obbligazionari. Invece la mancata fiammata inflazionistica è una boccata d’ossigeno per le produzioni industriali e i mercati finanziari.

Ma se si osserva l’indice più accreditato per la misura della volatilità delle borse (l’indice VIX detto anche l’indice della paura) negli ultimi mesi esso è ugualmente schizzato verso l’alto e bisogna dunque chiedersi se esistono altri motivi, diversi dalla paura irrazionale di un crollo repentino dei mercati e dell’arrivo di una nuova recessione globale, per i quali abbia senso tale segnale.

L’INDICE DELLA PAURA POTREBBE AVER TOCCATO IL MASSIMO

L’analisi fondamentale fornisce invece buone notizie per le borse e per i tassi d’interesse, almeno per l’autunno in arrivo. Buone notizie anche per la prosecuzione della fortunata stagione riguardante i profitti industriali e in teoria esiste anche la possibilità che si verifichi una qualche riduzione degli stock di magazzino, ciò mentre l’investimento nell’automatizzaziine degli impianti produttivi, degli imballaggi e delle spedizioni difficilmente potrà registrare una battuta d’arresto, a causa dei forti incentivi fiscali (in tutto il mondo) e dei minori costi conseguenti.

IL DEFAULT DELL’ITALIA È IMPROBABILE

Cosa dire invece del timore che i mercati scatenino una caccia alle streghe sul debito dell’Italia? Chi mi ha seguito sino ad oggi deve prendere atto che non ci ho mai creduto davvero, sia perché la disistima che il “mainstream” dell’informazione pubblica nutre verso la nuova coalizione sembra mal riposta, come per il fatto che non esistono le condizioni oggettive perchè l’Europa possa permettersi di fare a meno dell’Italia nel processo di inevitabile convergenza politica dell’Unione. Tra l’altro ciò significherebbe un “casus belli” ulteriore nei confronti degli Stati Uniti d’America e forse il definitivo funerale dell’alleanza atlantica: uno scenario non solo poco realistico ma assolutamente non conveniente per nessuno dei protagonisti.

Dunque l’Italia subirà strattoni e limitazioni, ma alla fine potrebbe farcela tanto a superare la stagione dei rinnovi dei titoli di stato in scadenza quanto quella delle spese straordinarie per l’adeguamento delle proprie infrastrutture, giudicate da tutti oramai improcrastinabili. Come dire che il default italiano non è probabilmente dietro l’angolo.

 

Stefano Di Tommaso