IL DESTINO DI FCA

Non c’è dubbio che le sorti di Fiat Chrysler Automobiles sian0 state inscindibilmente legate per 14 intensi anni a Sergio Marchionne (oggi sostituito per motivi di salute), il manager che prima ha fatto riacquistare la Fiat agli attuali azionisti di controllo (Exor) da General Motors cui essi l’avevano praticamente venduta a rate, poi l’ha salvata e infine l’ha rilanciata, anche attraverso l’acquisizione della Chrysler e lo scorporo di alcune controllate, tra le quali la Ferrari e la Case New Holland.

 

Dal 2004 infatti i ricavi del gruppo (ivi considerando anche Ferrari e CNH, tecnicamente fuori dal perimetro ma controllate dagli stessi azionisti di riferimento e di cui Marchionne era divenuto capo supremo) sono passati da 47 a 141 miliardi di euro del 2017, con un risultato netto passato da -1,4 a +4,4 miliardi di euro e una capitalizzazione ascesa da 5,5 a più di 60 miliardi di euro mentre il debito netto si è ridotto di oltre 10 miliardi di euro arrivando a zero.

Nonostante però Marchionne avesse già attentamente pianificato la sua successione, è chiaro che nel percorso che lo ha portato a tali successi egli ha mostrato doti eccezionali e tutti oggi si chiedono se chi prenderà il suo posto riuscirà a mostrare altrettanta capacità, anche perché il valore espresso dal gruppo nel suo complesso in Borsa teneva conto di un ambiziosissimo piano di crescita pubblicato lo scorso primo giugno, dove Marchionne scommetteva sul decollo della redditività del gruppo.

IL PIANO DI MARCHIONNE RIUSCIRÀ A MANLEY?

Sulla scia del piano pubblicato da Marchionne la Morgan Stanley si era spinta a individuare “sette passi che potevano potenzialmente raddoppiare il valore del titolo“:

  • Lo spin-off o vendita di Magneti Marelli: più 1 euro per azione FCA,
  • Lo spin-off di Maserati e Alfa Romeo: più 3 euro per azione FCA,
  • Il raggiungimento del rating investment grade (tripla B o piu): più 1 euro per azione FCA,
  • L’ottimizzazione del ramo finanziario: più 2 euro per azione FCA,
  • L’uscita dal business a marchio Fiat in Europa e America Latina: più 3 euro per azione FCA,
  • La nuova struttura di reporting su Jeep e Ram : più 4-6 euro per azione FCA,
  • La plusvalenza sulla partecipazione Waymo con cui FCA collabora per la tecnologia della guida autonoma dei veicoli: più 2 euro per azione FCA.

Il totale del potenziale di creazione del valore su quel piano ammontava dunque a un range tra 16 e 18 euro in più, con una valutazione che all’epoca era arrivata a 20 euro per azione e oggi è scesa a poco più di 16 euro (poco più di 6 volte gli utili) senza contare le possibili ulteriori plusvalenze in Ferrari e CNH. Addirittura gli utili della FCA sarebbero cresciuti più che corrispondentemente, da 6,6 miliardi di euro previsti per quest’anno (2018) ai 16 del 2022 (dal 6% all’11% dei ricavi), lasciando ampio spazio a ulteriori potenziali rialzi anche perché erano stati annunciati 9 miliardi di investimenti nel settore delle auto elettriche che si stima rappresenteranno per il medesimo 2022 oltre il 60% del mercato.

LA VALUTAZIONE DEL GRUPPO

Se si guarda perciò all’utile previsto per l’anno prossimo infatti il valore di capitalizzazione espresso come moltiplicatore degli utili netti scende a 4,4 volte, per non parlare del rapporto tra il medesimo valore di capitalizzazione e il fatturato: meno di 1/4 di quest’ultimo! FCA era inoltre di recente stata oggetto di “attenzioni” da parte della sue-coreana Hyundai, che aveva dichiarato a tutti, in occasione della pubblicazione del piano industriale, di attendere un momento più favorevole per lanciare un’Offerta di Pubblico Acquisto. Ma tale momento potrebbe essere arrivato, visto che il titolo ha perso in modo decisamente sospetto il 20% del suo valore (da 20 a 16 euro) dallo scorso primo Giugno ad oggi e che lunedì, alla riapertura dei mercati, potrebbe esserci un’ondata di ulteriori vendite “cautelative”.

E’ infine altrettanto vero che tutto quel potenziale di rivalutazione non era espresso solo da un uomo, anzi il suo successore sarà proprio il maggior presunto contributore ai risultati prospettati: quel Manley che guida la divisione che cresce di più: quella dei SUV e delle Jeep e che in caso di OPA (che adesso potrebbe arrivare tempestivamente) il prezzo subirebbe un indubbio salto in avanti.

Dunque non ci sono poi così tante ragioni per vendere il titolo sulla scia di un ricambio manageriale inatteso, se non quella -incontrovertibile-dell’incertezza.

Stefano di Tommaso




PERCHÉ SCRIVERE IL PIANO AZIENDALE

E’ possibile per un’imprenditore mettere a punto il suo piano industriale senza aver colto fino in fondo le vere dinamiche del mercato cui si rivolge? Probabilmente no. Ma è altrettanto vero che oggigiorno l’essere in grado di redigere un piano aziendale è divenuta una competenza essenziale per ogni genere di dialogo tra l’imprenditore e il resto del mondo.

POCA LETTERATURA RELATIVA ALLE PICCOLE E MEDIE IMPRESE

La ricerca scientifica in tema di gestione delle aziende tende a polarizzare la sua attenzione verso i due estremi della scala dimensionale:

– Da un lato gli studi su strategia e struttura aziendali, dedicati principalmente alle grandi imprese che possono dedicare tempo e risorse all’analisi di mercato, alla costruzione di solidi vantaggi competitivi, e alla ricerca dell’efficienza di costo,

– Dall’altro lato le analisi e i manuali relativi alle Start-Up, cioè alle iniziative imprenditoriali che stanno nascendo, che spesso si concentrano su come ottenere la finanza necessaria per lo sviluppo, come gestire il mercato potenziale (la cosiddetta “lead generation”) e su come procurarsi un network di sub-fornitori.

Poca attenzione è invece normalmente dedicata alle piccole e medie imprese relativamente alla pianificazione aziendale, anche perchè nel resto del mondo queste ultime restano tali per un periodo di tempo relativamente breve, dopodiché o crescono o spariscono, oppure vengono assorbite da altre.

IL PROBLEMA È FORMALIZZARE LE PROPRIE IDEE E PERCEZIONI

In realtà ogni imprenditore, in erba o ereditiere che sia, dovrebbe chiedersi come fare per riuscire a produrre efficientemente e poi vendere i propri prodotti. E per farlo dovrebbe riuscire a prendere le misure del proprio mercato potenziale e avere un “piano” per sostenere la concorrenza, ampliare i propri margini e creare valore.

E spesso è così: sono pochi gli sprovveduti o i super-fortunati che non se lo chiedono e che non se ne fanno un’idea precisa. Ma sono ancor meno coloro che riescono a formalizzare e mettere per iscritto le risposte nell’ambito di un Piano Aziendale che risponda agli standard internazionali e che permetta all’impresa di dialogare correttamente con il mercato dei capitali, capace di mostrare su quali basi razionali riposano le prospettive economiche e finanziarie delineate nel Piano.

COSA DOVREBBE CONTENERE IL PIANO AZIENDALE

Vediamo allora perchè spesso non c’è un Piano Aziendale correttamente impostato (o è insufficiente a chiarire le dinamiche aziendali) e quali informazioni essenziali esso dovrebbe contenere:

– Innanzitutto esiste un tema di mantenimento del riserbo sulle idee di business dell’imprenditore, che se pubblicate potrebbero facilmente esssere copiate dalla concorrenza e, dunque, annacquate nella loro validità

– In secondo luogo molte imprese piccole e medie sono oggi guidate da persone con scarsa “cultura manageriale” e dunque nascono dal genio commerciale o produttivo di uno o pochi individui, ma poi in assenza di strategia e struttura fanno fatica a organizzarsi ed espandersi

– Ma quel che più conta è la capacità di focalizzare e dimostrare il ”vantaggio competitivo” dell’impresa, la sua capacità cioè di fare quel che le altre non sanno fare o non fanno altrettanto efficientemente (un concetto evidentemente complesso cui torneremo più avanti)

– Altro elemento essenziale di qualunque piano è una corretta disamina della realtà di mercato, delle esigenze che un determinato prodotto o servizio vanno a coprire (paragonandolo a come la concorrenza copre le medesime esigenze) della sostenibilità del costo che esso comporta per il consumatore (paragonandolo a quello proposto dalla concorrenza) e dello stadio del ciclo di vita del settore industriale in cui si situa l’azienda (vedi immagine)

L’analisi di mercato e competitiva spesso sono essenziali per una corretta definizione della strategia, ancorché difficili realizzare, o comportano un investimento talvolta fuori della portata dell’imprenditore di piccole dimensioni. Ma risultano essenziali per la definizione delle ipotesi alla base del piano, con cui oggettivare i risultati prospettici

– Laddove risulti arduo trovare riferimenti oggettivi per l’analisi del mercato attuale e potenziale nonchè della strategia aziendale ecco che può rivestire un ruolo fondamentale la capacità dell’impresa di essere parte di una “catena del valore” più ampia, attraverso alleanze, consorzi, collaborazioni stabili e con catene di distribuzione.

– Uno dei messaggi più importanti che reca il Piano Aziendale al suo lettore riguarda poi il cosiddetto piano operativo, ovvero l’insieme di: organigramma attuale e prospettico, ruoli e le competenze distintive, investimenti necessari, metodi e tempistica di sviluppo/attuazione delle iniziative. La qualità di questa narrativa è prioritaria per importanza persino alla bontà dei risultati attesi

– Esistono di conseguenza due capitoli finali (e fondamentali) del Piano Aziendale che discendono dai contenuti “obbligatori” sopra riportati: la dinamica economico-finanziaria prospettica e quella della creazione di valore che ne consegue.

LA DINAMICA DEL VALORE D’IMPRESA

Il problema strategico più importante al mondo per ogni impresa normalmente è quello di sancire la sua “autorevolezza”: più essa sarà considerata credibile, ben reputata e solida, e più quell’impresa potrà praticare prezzi elevati, avere una clientela fedele, fornitori che le fanno credito sulla parola, facilità nel dialogo con la concorrenza e rispetto da parte di tutti gli “stake-holder” .

Il Piano Aziendale dunque deve innanzitutto mirare ad affermare l’autorevolezza dell’impresa, perchè il concetto è evidentemente alla base della sua capacità di creare valore. Vediamo come:

– Prima ancora infatti di giudicare i risultati economici attuali e prospettici dell’impresa, è essenziale comprendere con quali proposte e a quale clientela attuale/potenziale l’impresa si rivolge. Dunque l’impresa deve essere capace di affermare la validità della sua “value proposition” (concetto che risponde alla domanda: “perchè i clienti dovrebbero scegliere il suo prodotto/servizio?”)

– Una volta chiarita la capacità dell’impresa di “offrire valore” alla clientela (per la qualità ed efficienza dei propri prodotti/servizi), si può arrivare a definire il suddetto “vantaggio competitivo” dell’impresa (cioè la capacità di differenziarsi dalla concorrenza e quella di mantenere questo vantaggio nel tempo)

– Infine la capacità di sostenere nel tempo un vantaggio competitivo nei confronti della concorrenza rappresenta la “prova” della possibilità per l’impresa di ottenere e mantenere i margini di guadagno sulla propria attività, elemento essenziale per la credibilità dei numeri prospettici che vengono di conseguenza sviluppati nella sezione economico-finanziaria del Piano Industriale.

Troppo spesso invece il Piano Aziendale affronta quasi esclusivamente il tema dello sviluppo economico-finanziario senza riuscire a spiegare su quali basi questo può reggersi!

Nel disegno qui sotto riportato si può trovare una sintesi dei concetti sopra espressi:

DAI RISULTATI ECONOMICI ALLA CREAZIONE DI VALORE

Una volta sancita con abbondanza di riscontri oggettivi (di mercato, di know-how e di efficienza) la capacità dell’impresa di riuscire a sostenere nel tempo una buona marginalità economica, il passaggio successivo è allora quello di partire dai conti economici prospettici messi a punto in precedenza, per andare a stimare i relativi stati patrimoniali di ciascun anno futuro.

L’impatto delle principali movimentazioni del conto economico sulle poste patrimoniali dell’esercizio precedente è ciò che permette di stimare l’evoluzione da un anno all’altro dello stato patrimoniale prospettico e, di conseguenza di costruire bilanci preventivi completi dei rendiconti finanziari, definiti come tabelle di confronto tra lo stato patrimoniale di un anno precedente con quello successivo.

L’analisi dei margini d’impresa (ed eventualmente il loro confronto con quelli della concorrenza), la stima della cassa che si genera nell’esercizio (visibile all’ultima riga del rendiconto finanziario) ed eventualmente altre analisi più complesse sulla variabilità stimata della redditività (il cosiddetto “beta”) attraverso l’applicazione della teoria del Capital Asset Pricing Model, porta a poter definire un valore d’impresa per ciascun anno di attività futura e, di conseguenza, a stimare per differenza la capacità della medesima impresa di creare valore nel tempo per i suoi azionisti.

Il concetto di misura della creazione di valore è molto aleatorio, perchè dipende fortemente anche da dinamiche spesso al di fuori del controllo di una determinata impresa (quantomeno nel breve periodo), quali l’andamento dei mercati finanziari e quello dell’appetibilità del settore industriale in cui essa opera (e dunque dei multipli di valore ad esso attribuiti).
Ma è comunque una delle indicazioni principali che discendono dal Piano Aziendale, di forte aiuto nell’ottenere credito e capitali per gli investimenti, nell’attirare le migliori risorse umane e nel comunicare capacità e solidità all’ambiente complessivo che circonda l’impresa.

L’ESTENSIONE DEL CONCETTO DI COMUNICAZIONE AZIENDALE

La capacità dell’impresa di asserire la propria capacità di creare valore è in fondo la quintessenza della trasparenza dell’impresa stessa nei confronti di tutti i suoi stakeholder e attesta fortemente la possibilità di orientare la propria comunicazione, intesa come capacità di dialogare autorevolmente con il mercato del credito, con quello dei capitali e con tutti coloro che devono poter contare sulla solidità dell’impresa per aver voglia di collaborare, o devono assicurare il credito di fornitura o devono assicurarsi della stabilità nel tempo della partnership con quell’impresa .

Riuscire a scrivere un Piano Aziendale permette dunque di fare comunicazione finanziaria proattiva e scevra da slogan e messaggi promozionali, di comunicare la solidità, la correttezza e l’attenzione alle variabili che davvero contano della strategia d’impresa, nonché di poter disporre di una base cui ancorare gli incentivi per I collaboratori, legati non più ai soli risultati economici, bensì al concetto più allargato di creazione di valore.

Va da sè che senza neanche redigere un Piano Aziendale, fare tutto ciò risulta molto più difficoltoso!

Stefano di Tommaso

 




FINANZIARE UN’IMPRESA SENZA AVERE CREDITO

Quasi tutti gli imprenditori del mondo si sono chiesti, almeno all’inizio della propria avventura, come riuscire a finanziare il proprio business. Spesso il capitale sociale di partenza è minimo e le imprese neonate o recuperate da un dissesto appaiono difficilmente bancabili se non hanno ancora chiuso il primo bilancio oppure se le dimensioni sono troppo piccole. Molte nuove imprese magari rilevano attività esistenti e già avviate ma esse non sono normalmente “bancabili” se non possono parallelamente esibire adeguate garanzie patrimoniali a chi potrebbe finanziarle. Non c’è bisogno di perdersi d’animo in molti di questi casi perché spesso nelle attività di impresa esistono molteplici risorse nascoste o modalità alternative di fare affari che possono costituire una valida alternativa al debito bancario e sostenere l’impresa magari anche solo per qualche tempo.


LA CORRETTA DEFINIZIONE DI CAPITALE

Sicuramente un’impresa che nasce da zero -spesso una startup tecnologica- deve riuscire a dotarsi di un capitale di rischio di importo congruo con il proprio piano aziendale, sempre che ne faccia uno. Ecco, il piano aziendale è veramente importante perché se sviluppato correttamente fornisce indicazioni circa la necessità di cassa prospettica e spesso aiuta a reperire risorse chiarificando i rischi ed i rendimenti attesi dell’impresa. Quantomeno il piano aiuta a capire se il capitale di partenza sarà sufficiente a sostenere l’attività fino a quando non sarà possibile generare cassa ovvero accedere a nuove risorse finanziarie.

IL PIANO D’IMPRESA NON SI PUÒ DELEGARE DEL TUTTO AI CONSULENTI

Il piano però non è soltanto un foglio di calcolo, bensì la disamina approfondita delle variabili di partenza che determinano i risultati attesi e delle modalità di impiego delle risorse necessarie. Quando quelle variabili di partenza sono correttamente confrontate con la realtà e diventano ipotesi credibili alla base dello sviluppo numerico atteso, ciò che bisogna aggiungere sono la descrizione e la quantificazione dei rischi e delle modalità per delimitarne le conseguenze negative.

Un imprenditore “autentico” non può pensare di demandare a terzi il suo piano aziendale, bensì al massimo può farsi aiutare nel tracciarlo. Innanzitutto perché deve riuscire a comprendere se la sua attivitá aziendale consegue veri utili oppure genera perdite (cosa mai tanto scontata ex ante), e poi perché attraverso il piano egli inizia a prendere coscienza delle effettive necessità di investimento per sostenere l’attività (quanto può rendere l’impresa se si investe di più?) e infine per toccare con mano le esigenze di capitale circolante netto (che d’ora in avanti definiremo CCN, il cui importo deriva dalla somma algebrica del magazzino e del credito alla clientela, dedotto il credito di fornitura).

IL RUOLO DEL CAPITALE CIRCOLANTE NETTO

Più il CCN risulta elevato e più assorbe risorse finanziarie, che spesso non producono reddito. Più si riesce a ridurlo (magari aumentando vertiginosamente la velocità di rotazione delle scorte, oppure riducendo i tempi di incasso dalla clientela, o infine ottenendo per le ragioni più svariate dell‘ulteriore credito di fornitura) e meno risorse finanziarie serviranno all’impresa, soprattutto quando dovrebbe impiegarle altrove: nell’efficienza della produzione, nei sistemi di controllo e più che ogni altra cosa, nello sviluppo dei mercati di sbocco.

Il controllo efficiente del CCN è di solito il vero scoglio da superare per chiunque, tanto per il fatto che c’è sempre qualche modo ancora da scovare per ridurlo, quanto perché -se è fisiologico- c’è sempre qualche modalità alternativa per finanziarlo.

LE PIATTAFORME DI CREDITO ALTERNATIVE

Esistono infatti non solo le banche ma anche e soprattutto società di factoring di ogni genere (sino ai cosiddetti “marketplace” online) che si propongono alle imprese che vogliono smobilizzare i loro crediti commerciali verso imprese solide, e in qualche caso propongono persino di finanziare i loro fornitori (reverse factoring) e che in altre situazioni possono finanziare le consistenze di magazzino. Riuscire a coprire in questo modo le esigenze di CCN significa in molti casi trovare quelle risorse altrimenti non reperibili che fanno la differenza.

Volendo stressare al massimo il concetto (e chi non trova risorse alternative spesso non può fare altrimenti) è teoricamente possibile cedere la proprietà degli assets aziendali mantenendo l’uso di quelli più strategici e si può arrivare a ottenere risorse per gli investimenti portando il CCN a un valore negativo, cioè ottenendo più credito di fornitura di quanto ammonti la somma di crediti commerciali e magazzino. Con quella differenza l’impresa può teoricamente finanziare anche i propri investimenti, anche se ovviamente l’arrivare a finanziare l’impresa grazie ai fornitori è un atto estremo e può portare numerose conseguenze negative.

Ma è comunque astrattamente possibile, soprattutto quando lo si faccia per un breve periodo di tempo e per ragioni eccellenti.

IL RAGIONAMENTO DA “IMPRENDITORE SQUATTRINATO” AIUTA COMUNQUE

Un altro metodo per finanziarsi quando non si dispone di cassa è quello di ottenere da terzi senza pagare (in comodato, in noleggio o in cambio di altro) beni strumentali, spazi fisici o altre tipologie di strumenti di produzione (computers, veicoli ecc…). Se io prima pensavo che il capitale sociale di cui dovrei disporre in funzione del mio piano aziendale dovevo impiegarlo per acquisire tali beni e/o per finanziare il CCN ecco che, individuate forme diverse di reperimento di cassa, magari quel capitale potrebbe non servirmi più, o potrebbe servirne di meno o potrei pensare di investirlo meglio in altre direzioni.

Il ragionamento appena accennato, che io chiamo “dell’imprenditore squattrinato” vale infatti anche per chi non lo è davvero, ma può chiedersi se sta utilizzando nel modo migliore le risorse di cui dispone o se invece non varrebbe la pena di sostituire gli attuali metodi di finanziamento con alcuni di quelli indiretti qui citati per reperire risorse al fine di effettuare quegli investimenti che potrebbero risultare davvero strategici per il futuro del business. Molti imprenditori credono di aver fatto tutto il possibile ma dimenticano gli investimenti strategici o semplicemente non si arrischiano a farli perché non ritengono di disporre di sufficienti risorse. Ma si sono mai chiesti quanto è rischioso non farli?

LA NECESSITÀ DI CONTINUARE A CERCARE SOCI DI CAPITALE

Senza dubbio ciò che spesso risulta più odioso dal punto di vista dell’orgoglio dell’imprenditore è l’andare a reperire capitale da terzi investitori, mentre potrebbe da molti punti di vista risultare l’alternativa più sana per far soldi. Non necessariamente infatti allargare la compagine sociale significa aver fallito, anzi! Spesso è un problema strettamente psicologico o di mancata capacità di mettersi attivamente a ricercare i soggetti che potrebbero investire con lui. Le domande che questi ultimi faranno per decidere se investire nella sua impresa molto probabilmente risulteranno essere la miglior consulenza gratuita per un imprenditore che vuole ragionarci sopra.

Nuovi soci di capitale che disturbano perché possono voler dire la loro anche quando non hanno ragione o rischiare intralciare il business, spesso risultano comunque essenziali laddove i rischi del business risultino elevati ovvero poco razionali e dunque nessuna modalità di finanziamento (per quanto irrituale) è altamente indicata. Quando non sarebbe sano finanziarsi (anche indirettamente) la cosa da fare è raccogliere capitale di rischio, magari tramite piattaforme online (crowdfunding) o intermediari specializzati.

Senza parlare della necessità costante delle imprese di crescere e consolidare la propria posizione di mercato, per affrontare le sfide del futuro o anche solo per meglio remunerare degli investimenti che vanno comunque fatti a prescindere dalle dimensioni aziendali. Moltissime imprese italiane tralasciano di pianificare il proprio futuro.

LA NECESSITÀ DI PIANIFICAZIONE E ANALISI STRATEGICA

Qui però torna di attualità il piano aziendale e insieme ad esso la corretta definizione di rischio, rendimento, generazione di cassa e assorbimento di CCN: molte pratiche alternative di reperimento di risorse fuori del mercato dei capitali e del credito bancario possono generare oneri aggiuntivi, rischi e possibili vincoli strategici. Senza una visione strategica del mercato, della concorrenza, delle alternative di fornitura e dei mercati di sbocco, non si ottiene un’immagine nitida del proprio posizionamento e non si elaborano scenari alternativi. In tali casi pratiche come quelle citate, finalizzate al reperimento di risorse finanziarie “alternative”, possono risultare pericolose o più semplicemente possono indurre perdite economiche che non risultano recuperabili in tempi ragionevoli.

Molte imprese possono dunque “guardarsi dentro” e scoprire di disporre di tesori nascosti e capacità vitali inaspettate, ma nel farlo devono cercare di avere le idee chiare e la possibilità di generare valore per tutti i propri “stakeholders” nonostante tutto!

Stefano di Tommaso




DIAVOLO DI UN CONSULENTE!

La crescita smisurata dell’industria dei servizi di consulenza manageriale non deve impedire lo sviluppo organizzativo e gestionale.

 

Lo spunto narrativo me lo ha fornito Warren Buffet: il solito, pedante, tradizionalista saggio capitalista che spesso e volentieri ci ricorda i buoni vecchi consigli della nonna, sempre validi appunto, come dimostra la strabiliante fortuna che egli ci ha costruito sopra nell’applicarli alla vita quotidiana.

LA MALEDIZIONE DI WARREN BUFFETT

Warren Buffett nell’ultima convention dei suoi azionisti (un vero e proprio festival, come riportato nel mio articolo: http://giornaledellafinanza.it/2017/05/07/la-woodstock-del-capitalismo/) se l’è presa con i consulenti e con le aziende che li reclutano, consapevoli entrambi di essere utili a individuare i veri argomenti-chiave che le imprese tecnologiche, manifatturiere e commerciali devono affrontare, ma colpevoli i primi di sfruttarli ai propri fini e per i propri profitti e i managers delle seconde di scansare le loro responsabilità utilizzando una forza-lavoro esterna, flessibile e capace di guardare alle dimensioni strategiche ma al tempo stesso mercenaria e teorica, impossibilitato anche ad agire come potrebbero invece fare dei funzionari interni all’azienda.

Difficile dargli torto: la pastetta del consulente e di chi lo ingaggia perché si dica che: “lo ha affermato tal de tali” e vecchia di generazioni ma sempre valida. I professori universitari ci hanno sempre ricavato lauti guadagni e i managers con la sedia che traballa ne hanno guadagnato ottimi parafulmini a futura memoria. Buffet fa notare che adesso ai consulenti sono affidate mansioni che in passato erano i dirigenti delle aziende stesse a svolgere.

L’INDUSTRIA DELLA REVISIONE HA INVASO QUELLA DELLA CONSULENZA

Come scrive John Gapper sul Financial Times: “la maledizione della consulenza si espande… quella che fino a qualche anno fa era una nicchia di mercato dominata da pochi grandi intellettuali partner di McKinsey, Boston Consulting e simili, oggi si è trasformata in un’industria che è sempre più collegata alla revisione contabile e che dunque allarga la sua base di clientela anche alle piccole e medie imprese…Il 44% delle entrate di Ernst&Young dell’anno scorso è arrivato dal lavoro di consulenza… Secondo Source Global Research, le entrate globali delle società di consulenza l’anno scorso sono cresciute del 7%, raggiungendo $133 miliardi… City UK afferma che, dei 2,2 milioni di persone che nel Regno Unito lavorano nel settore finanziario e in servizi professionali collegati, 477mila sono consulenti e 421mila banchieri”.

Ma se il business della consulenza si è “volgarizzato” perché macina ottimi risultati?

Innanzitutto perché la domanda di servizi di consulenza cresce insieme alla complessità stessa del sistema capitalistico-industriale: oggi per esempio quasi tutte le imprese hanno bisogno di far revisionare i bilanci per accedere al credito e ai capitali di rischio, capiscono di dover rivedere i propri sistemi informatici ma soprattutto si rendono finalmente conto di dover formulare una propria strategia di mercato che permetta loro di confrontarsi con la globalizzazione che avanza e che dunque le competenze interne non bastano più.

Ma cresce anche l’offerta di consulenza (e si struttura nella maggior parte dei casi in vere e proprie catene di montaggio), spesso complementare ai servizi di revisione contabile e di corretta applicazione e personalizzazione dei software utilizzati per tenere sotto controllo produzione, mercato e margini economici.
È un fiume in piena che assorbe ricchezza spesso più di quanta ne possa creare, investendo molte funzioni gestionali e tracimando talvolta anche in ogni possibile rivolo accessorio. Il problema è se ciò accade senza riuscire davvero a migliorare il management aziendale e a far mettere a punto un piano industriale vera degno di quell’appellativo, capace di verificare e indirizzare la creazione di valore per gli azionisti.

LA CONSULENZA NON PUÒ SOPPIANTARE IL MANAGEMENT

Per migliorare il management aziendale ci vogliono invece veri (e qualificati) managers, cioè decisori e persone di riferimento interne con un elevato grado di delega, un pregresso di successo e competenze acquisite in anni di studio post-universitario. Ma soprattutto ci vuole un vero “board of directors”, cioè un Consiglio di Amministrazione (CDA) che controlli spesso il management e lo indirizzi, alimentato da competenze diversificate e animato da personaggi che prescindano almeno in parte dalla famiglia del fondatore che troppe volte rimane unica azionista e che, per questo motivo, rischia di esprimere indirizzi “autoreferenziali”.

Un Piano Industriale, un Management terzo, la Revisione Contabile esterna e la presenza di un vero CDA risultano peraltro elementi essenziali se ci si vuole rivolgere al mercato dei capitali anche solo per ottenere Minibond e Finanza Strutturata, per non parlare della parte al capitale di Fondi e Investitori di Borsa.

Solo con queste premesse (a prescindere dunque dalle dimensioni aziendali) l’impresa può pianificare seriamente il proprio futuro. La consulenza andrebbe utilizzata dopo aver strutturato i suddetti organi aziendali, altrimenti è come comperare un Ferrari per scendere sotto casa a prendere il caffè. La Ferrari può essere strepitosa ma più lo è e più il suo utilizzo necessita di competenze “interne” !

UNA SOLUZIONE “PROFESSIONALE”

E per i suddetti motivi che alcune banche d’affari (come la mia) hanno deciso di proporsi sempre più spesso alle imprese per operazioni di aumento di capitale insieme a managers specializzati di settore (magari con un illustre passato in organizzazioni più importanti), per entrare in tal modo anche negli organi decisionali e assicurarsi che la crescita organizzativa dell’impresa vada di pari passo con l’incremento delle risorse disponibili e permetta di impiegarle nel migliore dei modi. Altrimenti c’è il rischio serio che le stesse mansioni gestionali vengano affidate alla consulenza, magari standardizzata.

In questo modo invece la consulenza può essere utilizzata ma con giudizio: affiancando la crescita organizzativa senza contrapposizione con lo sviluppo di competenze interne e senza impedirle. Bensì per fare solo quello che non è possibile fare altrettanto bene al proprio interno: l’analisi del contesto competitivo e strategico, lo sviluppo di nuove metodologie, l’adozione di prassi operative che si sono dimostrate vincenti altrove nel mondo.

 

Stefano di Tommaso