LA MANOVRA ITALIANA, LE POSSIBILI REAZIONI EUROPEE E LO SCENARIO GLOBALE

Al di là di ogni polemica politica, partitica o finanziaria, al di là di ogni commento sulle posizioni assunte da questo o quell’intellettuale sulla qualità o sulla sostanza della manovra preconizzata dal nuovo governo giallo-verde italiano (ha 4 mesi di anzianità), persino al di là di ogni considerazione sul deficit che essa genera, non posso non affermare il mio grande interesse, sull’attenzione che essa ha generato nell’opinione pubblica -interna e internazionale- per vari motivi.

 

UNO SCOSSONE POSITIVO

Erano anni che l’opinione pubblica italiana non tornava a dibattere di cose serie, quali gli stimoli alla crescita economica, gli investimenti infrastrutturali, la competitività delle aliquote fiscali per le imprese, gli incentivi all’occupazione e la congruità delle normative imposte dagli euro-burocrati ai singoli Stati membri: finalmente si è acceso un dibattito che diverge sostanzialmente dalla demagogia di quelli che lo hanno preceduto e che fa sperare che si avvii un dialogo -anche a livello europeo- sulle ricadute di medio termine delle politiche fiscali e monetarie che oggi vengono ipotizzate. Non accadeva da anni e nessuno osava mettere in discussione una serie di “follie” che Bruxelles propagandava a vantaggio dei soliti noti (Germania e Francia).

Erano anni insomma che non ci si chiedeva quali manovre potranno sortire il migliore effetto sulla crescita economica del Paese posto che è finalmente chiaro a tutti che è soltanto quest’ultima che potrebbe salvare l’Italia dal baratro dell’insostenibilità del proprio debito pubblico. A prescindere dunque dal deficit di bilancio (che in qualche modo nel frattempo va certamente finanziato) la vera domanda che conta è tornata centrale: il rapporto tra debito e prodotto interno lordo (PIL) scende o sale? E perché scenda è finalmente chiaro a tutti che è il PIL che deve crescere, visto che il debito non scende da solo.

LA VERA NOVITÀ: STOP AL FISCAL COMPACT

Il nuovo governo sembra aver avviato un confronto con il Pese e con il resto del mondo sulle priorità del quadro programmatico e sulla qualità della spesa del denaro pubblico, dando precedenza a queste scelte piuttosto che al contenimento “a priori” del deficit, senza badare a cambiare l’indirizzo della spesa pubblica e la reale validità delle politiche economiche del passato (errate quasi per definizione, visti gli scarsi risultati). La vera novità sta dunque nell’intenzione di lasciare indietro il Fiscal compact e l’obbligo di tendere al pareggio di bilancio dando uno scossone alla filosofia di austerità fino ad oggi prevalente nella Commissione Europea, auspicandone chiaramente una diversa e più orientata a politiche fiscali espansive in vista delle prossime elezioni europee.

La scommessa della maggioranza che ci governa è perciò quella “trumpiana” che ha portato l’America ai risultati che vediamo: abbassare le tasse e aumentare la qualità della spesa pubblica (soprattutto investimenti in infrastrutture e occupazione) per generare crescita economica e far tornare la fiducia negli operatori economici. E visto che per perseguirla bisognava avere il coraggio di fare deficit e scontrarsi con la Commissione Europea, questo governo ha prestato il fianco a critiche e perplessità di ogni genere, qualcuna nemmeno a torto.

LE CRITICHE MOSSE AL GOVERNO

Le critiche mosse al momento della pubblicazione del DEF da più parti sono consistite infatti principalmente nell’incapacità di comunicare per tempo e correttamente la portata e la credibilità dell’iniziativa (anche questa comprovata dai fatti: i mercati hanno reagito male) nonché l’oggettività del miglioramento della qualità della spesa. Altri ancora hanno correttamente notato che questa manovra prevede inoltre troppi pochi tagli alla spesa pubblica improduttiva e ai carrozzoni di Stato, riconcorrendo una crescita che non è matematicamente certo potrà generarsi.

In effetti occorre notare che il “mainstream” ha alimentato l’idea errata che il DEF fosse stato pensato in tutt’altro modo dai ministri tecnici del governo e poi “ribaltato” all’ultimo momento dai due leader politici che ricoprono il ruolo di vice-premier: niente di più ingiusto. È stata casomai la misura del deficit che ne derivava che ha visto disalinneati i primi dai secondi (per soli 7 miliardi di euro contro i quasi mille di spesa).

UN PRECISO CALCOLO POLITICO

I vicepremier hanno sì inteso dare una spallata vera e propria all’accordo europeo che va sotto il nome di fiscal compact, ma per un preciso calcolo politico: la stessa vittoria giallo-verde è stata originata dal rigetto della maggioranza degl’Italiani verso le direttive comunitarie e i politici corrotti che le hanno irragionevolmente applicate, colpevoli di aver ottenuto benefici nel fare invadere il territorio da migranti più o meno clandestini disposti a tutto e di aver scavato con eccesso di spesa clientelare e tassazione la fossa nella quale è caduto il Paese.

Inoltre Salvini e Di Maio hanno capito che la loro pressione sulle istituzioni europee le spinge alla disfatta: se chiuderanno gli occhi verso il mancato ossequio al “fiscal compact” perderanno credibilità e lasceranno che molti altri paesi, Francia e Spagna in testa, facciano lo stesso (anzi lo stanno già facendo). Se faranno il contrario come potranno giustificare il resto d’Europa? E come potranno sperare di essere confermate al governo europeo tra pochi mesi fronte all’impopolarità di cui si macchierebbero? La risposta corretta potrebbe consistere in una serie di misure atte a finanziare a livello europeo gli investimenti infrastrutturali più importanti, magari con l’ausilio della Banca Centrale Europea (BCE) che potrebbe inoltre prolungare l’ombrello del Quantitative Easing (QE) oltre la fine dell’anno corrente, quantomeno fino a dopo le elezioni europee. Ma se così non accadesse e alle prossime elezioni non cambiasse nulla (cosa improbabile di per sè) Di Maio e Salvini godrebbero allora di un ampio appoggio popolare nel decidere l’uscita dell’Italia dalla “gabbia” europea, e forse non ne avrebbero nemmeno tutti i torti.

LA MINACCIA DELLO SPREAD

La minaccia dello Spread è perciò questa volta molto meno pesante di quanto lo è stata con Berlusconi (che non disponeva di una maggioranza assoluta) e di quanto è accaduto in Grecia, la cui economia è dieci volte più piccola dell’Italia. L’esito della crisi greca è inoltre poco d’esempio: dopo che la “Troika” (costituita dai rappresentanti della Commissione europea, della Banca centrale europea e del Fondo monetario internazionale.) è intervenuta, le condizioni materiali del popolo non sono migliorate, le principali infrastrutture sono finite nelle mani di tedeschi e francesi e il debito pubblico si è accresciuto fino al 170% del PIL (dal 140% dei tempi della crisi). La manovra sarebbe difficilmente replicabile senza che l’Italia, con una forte maggioranza popolare, decidesse prima di uscire dall’Euro.

LA PAROLA AI MERCATI

Ecco dunque che la parola torna ai mercati (cioè alle manovre della grande finanza), perché difficilmente il dibattito europeo avrà esiti consistenti prima delle elezioni. Riusciranno i mercati a piegare il Bel Paese e ne avrebbero davvero un beneficio? È possibile, anzi è probabile, che la risposta a entrambe le questioni sia negativa, principalmente a causa del fatto che i mercati sono già agitati per altri motivi: i tassi internazionali salgono (forse in misura eccessiva) e al tempo stesso il Dollaro si rafforza troppo sulle alte valute, anche perché i tassi americani continuano ad espandersi nei confronti di quelli europei (nel grafico qui sopra riportato lo spread Treasury-Bund a 10 anni). Una crisi italiana potrebbe innescarne una globale e un Euro troppo debole non piacerebbe agli Stati Uniti ma nemmeno a Russi e Cinesi.

Se dunque la BCE proseguisse nelle sue facilitazioni monetarie e con questo contribuisse ad ampliare il divario tra i tassi europei e quelli americani essa probabilmente farebbe un gran favore persino all’America, fornendole una scusa sensata per forzare una limatura del l’atteggiamento da falco della Federal Reserve. Il rischio ovviamente sarebbe quello di possibili fiammate d’inflazione a livello globale, che tuttavia sono relativamente improbabili stante l’aspettativa generale di una moderata crescita della domanda aggregata per consumi (con l’eccezione americana che però potrebbe aver già toccato il suo picco).

C’È SPAZIO PER L’OTTIMISMO


Se il petrolio non sfonderà i 100 dollari al barile (anche questo è al momento non ipotizzabile) e il biglietto verde non si avvicinerà alla parità con l’Euro ecco che la situazione rimarrebbe sotto controllo e anzi la prospettata frenata economica europea potrebbe trasformarsi in una ripresa positiva del ciclo. Ma se così non fosse anche le borse traballerebbero molto più di quanto stanno facendo oggi, perché la fine degli stimoli monetari globali, se può risultare appropriata in un’America la cui economia corre al 4% annuo e ha quasi raggiunto la piena occupazione, rischia invece di risultare assolutamente prematura in Europa o assolutamente controindicata in India e Cina.

Dunque c’è spazio per un po’ di ottimismo, per molta diplomazia e per tanta pazienza: nei prossimi mesi potrebbe non succedere assolutamente nulla e ciò, di per se, per i mercati sarebbe già un’ottima notizia…

Stefano di Tommaso




CHE FINE HA FATTO LA CURVA DI PHILLIPS?

Per la teoria economica la curva di Phillips, dalla sua formulazione iniziale (1958) in avanti, non era mai stata messa in discussione sino a qualche mese fa. Teorie come quella sulle aspettative razionali (NAIRU) (non-accelerating inflation rate of unemployment) sono nate per cercare di spiegare la stagflazione. Oggi sembra accadere l’opposto della stagflazione: l’economia cresce ma con bassa inflazione.

 


Ma la teoria del livello naturale di disoccupazione, che distingue tra curve di Phillips di breve o di lungo periodo, nasceva dalla considerazione che con una disoccupazione effettiva al di sotto di esso, l’inflazione accelera, con una disoccupazione al di sopra di esso decelera. Tutto sta nel comprendere se esiste un tasso naturale di disoccupazione (o NAIRU), cosa oggi messa in discussione dai fatti. Sembrava a tutti una grande ovvietà il fatto che esista un meccanismo di azione e reazione degli eventi economici che crea una relazione inversa tra il tasso di disoccupazione e l’inflazione dei prezzi: vediamo il perché. IL CONCETTO SOTTOSTANTE Se la disoccupazione scende vuol dire che la domanda di lavoro (quella delle imprese che assumono personale) sale più dell’offerta di lavoro (quella di chi cerca un impiego). Ma se la domanda di un bene o un servizio supera l’offerta allora si creano le condizioni perché possa salire il prezzo di quel bene o quel servizio. In caso di crescita della domanda di lavoro da parte delle imprese si può dunque ritenere che la relativa retribuzione possa incrementarsi, con l’ovvio limite che quest’ultima dipende ovviamente anche da altri fattori (la disoccupazione pre-esistente, la precarietà del lavoro stesso e gli oneri sociali che si sommano al costo del lavoro). In un mondo normale la tendenza ad un incremento dei salari porterebbe ad una crescita dei consumi e, in ultima analisi, ad una risalita dei prezzi della maggior parte dei beni e servizi, come diretta conseguenza dell’incremento dei consumi. Ma quello in cui stiamo vivendo oggi evidentemente non funziona più così: con la ripresa economica che un po’ in tutto il pianeta si è manifestata negli ultimi anni la disoccupazione è scesa, i consumi sono tornati a crescere, ma lo stesso non è accaduto ai prezzi della maggior parte di beni e servizi ricompresi nel “paniere” statistico con il quale si misurava l’inflazione. LE RAGIONI DELLA MANCATA FIAMMATA INFLAZIONISTICA  Le ragioni di tale vistoso fenomeno di “decoupling” tra occupazione e inflazione sono incerte e altresì probabilmente numerose ed eterogenee: – dall’incremento del commercio elettronico che permette a chiunque, con un semplice “clic” sul telefonino, di acquistare beni e servizi provenienti dall’altra parte del mondo (e in particolare dai cosiddetti “Paesi Emergenti”, dove la manodopera costa molto meno e dove la sovracapacità produttiva è ampia),

– alla disponibilità di posti di lavoro temporanei e/o precari, che costringe il lavoratore ad accantonare parte di quanto guadagna per i momenti in cui sarà disoccupato, rimandando la spesa per consumi a tempi migliori,

– per passare poi alla riduzione della copertura sanitaria e previdenziale da parte dello Stato, che orienta il denaro guadagnato dal lavoratore verso capitoli di spesa (sanità e assicurazioni private) che in precedenza erano coperti dalla mano pubblica,

 – fino a tenere conto del crescente grado di automazione della produzione e dei servizi, che ne ha spesso calmierato il costo. Un minimo l’inflazione si è vista a causa della forte impennata dei prezzi delle materie prime, per la massiparte espressi in Dollari che di recente si sono rivalutati, e segnatamente quello del Petrolio, quasi raddoppiato in due anni, ma in un’economia globale sempre più digitalizzata questo fattore conta progressivamente di meno, tant’è che l’inflazione non è cresciuta proporzionalmente. Ma soprattutto l’inflazione non ha affatto risentito della maggior occupazione e della (relativa) ripresa dei consumi. IL CASO DEL GIAPPONE  Un po’ in tutto il mondo è dunque oramai acclarato che la disoccupazione scende ma l’inflazione non riparte, in particolar modo negli Stati Uniti d’America ma con punte quasi parossistiche come in Giappone dove la banca centrale ha immesso una montagna di liquidità acquisendo quasi il 90% dei titoli del debito pubblico nazionale, giunto a livelli record:


In altri tempi e in altri luoghi ciò avrebbe scatenato l’inflazione ma in Giappone invece l’economia è cresciuta l’anno scorso di quasi il 2% e, misurata con parametri diversi dall’inflazione e tenuto conto della specificità di quel Paese, essa tende non solo a crescere ma addirittura a surriscaldarsi. Ciononostante l’inflazione non si manifesta quasi. Si vedano i due grafici qui riportati (dove si vede un tasso di disoccupazione tornato ai livelli di vent’anni addietro):

 

E questo accade in un Paese dove la percentuale di occupati sul totale della popolazione è tra i più alti del mondo: in Giappone lavorano quasi 67 milioni di persone su un oltre 127 milioni: quasi il 53% mentre in italia siamo a poco più di 23 milioni di occupati su una popolazione di poco più di 59 milioni, pari al 39%. IL GIAPPONE E’UN POSSIBILE PRECURSORE  Il caso giapponese potrebbe aver solo anticipato la tendenza che magari si svilupperà anche negli altri paesi OCSE, con il rischio tuttavia che la mancata crescita dell’inflazione alimenti la bolla speculativa dei valori mobiliari e immobiliari (con tutti i rischi che ne conseguono) , stante anche la progressione della concentrazione della ricchezza in poche forti mani.

Probabilmente l’attuale inconsistenza dell Curva di Phillips corrisponde ad un progressivo impoverimento dei ceti più bassi della popolazione dei paesi più sviluppati, ma questo fatto, come dimostra il colossale lavoro di ricerca di Thomas Piketty è ancora difficile da dimostrare.

 

Stefano di Tommaso




GLI OPERAI ITALIANI LICENZIATI DALLE MULTINAZIONALI AMERICANE CON CHI DEVONO PRENDERSELA?

La storia degli ultimi quattordici anni parla chiaro sull’incapacità dello stabilimento (che occupava fino alla fine degli anni novanta 2500 persone) di incontrare i criteri di efficienza nei costi e di produttività che necessitano con l’arrivo della globalizzazione:

•già nel 2004 Embraco annuncia 812 esuberi. L’azienda apre uno stabilimento in Slovacchia e riduce il personale a a Chieri (To), ma la Regione stanzia 7,7 milioni e compra una parte dello stabilimento con l’obiettivo di affittarlo ad altre imprese, il governo mette altri 5 milioni e la Provincia di Torino eroga 500 mila euro per la formazione. In cambio, Embraco investe in automazione e fa ripartire la fabbrica con un miglioramento della produttività. Ma lascia a casa 420 addetti con la promessa (non mantenuta) delle autorità pubbliche che saranno assunti dalle aziende in arrivo nell’area;

•nel 2014 Embraco minaccia di nuovo di lasciare l’Italia. Per farle cambiare idea, la Regione firma un protocollo di intesa di due milioni di euro, e in cambio Embraco si impegna a fare nuovi investimenti. Nel frattempo i dipendenti hanno continuato a diminuire, fino ad arrivare ai 537 di oggi;

•la nuova crisi inizia a novembre del 2017, quando la società annuncia una riduzione della produzione e il numero di operai impiegati, per spostare gran parte della produzione in Slovacchia. Parte un duro coÈ notizia recente che la Whirlpool, nota azienda americana produttrice di elettrodomestici per un fatturato di 20 miliardi di dollari e con marchi arcinoti come Bosch, Beko, Miele, ma anche Electrolux e Indesit (acquisite in Italia) abbia deciso di delocalizzazione la produzione dei compressori frigoriferi che fino ad oggi avveniva in Piemonte in uno stabilimento, quello della EMBRACO (azienda brasiliana del gruppo a Whirlpool) che fino al 1985 apparteneva a Fiat;

•parte un Confronto sindacale al termine del quale a Gennaio Embraco decide di spostare totalmente la produzione in Slovacchia e tutti gli operai ricevono una lettera di licenziamento collettivo.

Ora in quattordici anni (da quando si è passati da 2500 a poco più di 500 dipendenti) di cose se ne potevano fare tante, così come ha fatto la Slovacchia che ha utilizzato i contributi pubblici europei per mantenere bassissime le tasse sul lavoro. Ma la politica italiana è abituata a fare solo promesse, tralasciando la concretezza della realtà a causa della retorica della lotta politica.

La vicenda segue di poco quella della Honeywell (multinazionale americana attiva nella meccanica e nei sistemi di controllo per i settori automobilistico, areonautico) : lo stabilimento di Atessa (Chieti) che aveva aperto anni addietro con i contributi pubblici e che ha deciso di fermare nei giorni scorsi, ha molte similitudini con quello di Chieri: dopo 8 mesi di trattative nei giorni scorsi lo,stabilimento che produce turbocompressori per motori diesel trova un accordo con il supporto del Ministero dello Sviluppo Economico per la cassa integrazione straordinaria di 380 lavoratori fino al febbraio 2019.


Nella sostanza lo stabilimento di Atessa chiude ugualmente per spostare anch’esso la produzione in Slovacchia dove la Honeywell annuncia contemporaneamente un investimento di 32,3 milioni di euro con 130 nuovi posti di lavoro nella sua fabbrica di Presov, che diventa così il secondo polo produttivo mondiale di turbosoffianti per motori diesel”.

Così come anni addietro era avvenuto in Italia una parte di questo investimento è a carico dello Stato Slovacco e può configurarsi anche come “aiuto di stato” oggi però espressamente vietato dalla normativa europea”.

La fabbrica di Presov attualmente occupa 1100 lavoratori, pagati con salari molto più bassi di quelli italiani e nacque nel 2012 con un sostegno del Governo slovacco di 19 milioni di euro. La Slovacchia per il suo sviluppo industriale riceve ingenti finanziamenti dalla Unione Europea, messi a disposizione dai grandi Paesi Europei e l’Italia è uno dei più grandi donatori.

Molti Paesi dell’Europa Orientale, entrati dopo il crollo del blocco sovietico, hanno beneficiato di ingenti aiuti producendo all’interno dell’Unione Europea una concorrenza sleale fatta di bassi salari e minori diritti contrattuali che hanno provocato una massiccia delocalizzazione industriale a scapito di Paesi come l’Italia.

Sino qui i fatti, la dura realtà della ricerca dell’efficienza delle imprese che si scontra con i problemi della competizione territoriale per attrarre lavoro e investimenti. La Slovacchia paga meno dell’Italia i suoi operai ma mostra un’economia che cresce nel 2017 del 5,4%, con una disoccupazione del 5,9% (la metà dell’Italia), ha bassissime tasse sul lavoro e la tassazione dei profitti d’impresa al 19%. Non a caso può vantare la più elevata produzione pro-capite di automobili e attira continuamente investimenti esteri.

L’Italia non solo non riserva le stesse condizioni alle imprese che vengono a investire da noi ma soprattutto non fa nulla per incentivare la ristrutturazione industriale dele imprese già esistenti e moderare l’aspro confronto sindacale. Cosa che ovviamente scoraggia le multinazionali a proseguire l’attività sul nostro territorio.

La questione, più volte ripresa e poi abbandonata nel dibattito politico pre-elettorale, si chiama politica industriale. Di cui da noi manca praticamente tutto. Difficile prendersela con gli americani o con la Commissione Europea di Vestager…

Stefano di Tommaso




L’EFFETTO “AMAZON” SULLA CRESCITA E SUI CONSUMI GLOBALI

Una delle obiezioni più frequenti mosse dagli scettici nel rifiutare di voler prendere atto di un nuovo ciclo economico espansivo risulta essere proprio la debolezza dell’inflazione riscontrata nelle ultime statistiche.

Se ci fosse davvero una crescita economica -essi notano- allora la spesa per consumi crescerebbe ben di più di quanto viene riscontrato di recente dai principali istituti di statistica, così come -per effetto di quest’ultima- si innescherebbe una dinamica non solo di maggiore occupazione, ma anche di incrementi salariali che sfocerebbe in una risalita dell’inflazione. Invece l’inflazione cresce poco o nulla e gli scettici obiettano che dunque manca la prova di una ripresa economica effettiva.

NEL 2017 LA CRESCITA ECONOMICA GLOBALE DOVREBBE RAGGIUNGERE IL 4% MA LE STATISTICHE REGISTRANO UNA DINAMICA PIÙ LIMITATA DEI PREZZI AL CONSUMO

Con diverse gradazioni di intensità la questione dell’apparente scarsità di domanda di beni e servizi si pone un po’ dappertutto nel mondo, a partire dai Paesi “OCSE” (i più ricchi), e tra questi a partire dagli Stati Uniti d’America, ove l’espansione del P.I.L. prosegue al ritmo più o meno costante del 2% annuo (ma è vecchia di otto/nove anni e perciò sono in molti a presagire un’imminente inversione del ciclo) per proseguire poi con i Paesi dell’Asia continentale, dove la crescita è ben più impetuosa (intorno al 6%) e dal Giappone, che finalmente sembra aver registrato nell’ultimo trimestre (il secondo del 2017) una crescita su base annua dell’ordine del 4%, in linea con la media globale che dovremmo registrare a fine anno (il miglior risultato da anni).

L’Europa invece quest’anno a mala pena dovrebbe toccare l’1,9%, pur registrando la sua crescita del prodotto interno lordo più elevata dai tempi della crisi del 2008 e solo se tutto dovesse andare nel migliore dei modi e l’innalzamento del cambio non rovinerà troppo la festa alle imprese esportatrici. In tutte queste regioni del mondo però la crescita del prodotto interno lordo è più elevata di quella della spesa per consumi. La spiegazione ovvia che se ne potrebbe dare è che la domanda di beni e servizi resta debole, nonostante la ripresa, ma se proviamo ad approfondire, emergono altre dinamiche, ben più complesse!

LA DIFFUSIONE DEL COMMERCIO ELETTRONICO LIMITA L’INFLAZIONE

La diffusione di internet e delle vendite online ha infatti una forza deflativa sui prezzi che resta ancora da misurare con precisione. Ma la riduzione dei prezzi (che si contrappone e annulla l’effetto della crescita dei prezzi dovuta alla maggior domanda di beni e servizi) imputabile alle vendite online (il cosiddetto “Effetto Amazon”) contribuisce solo per una parte alla creazione fenomeno di limitata inflazione cui assistiamo.

L’utilizzo di applicazioni per il telefono cellulare che “in virtualità” sostituiscono beni e servizi (buona parte dei quali è gratuito perché sono sostenuti da ecosistemi di “sharing economy”) è vastissimo e pieno di implicazioni pratiche. Eccone ad esempio un piccolo elenco comparativo (a sx gli strumenti precedentemente utilizzati e a dx quello che si può fare con uno smartphone):

LA DIGITALIZZAZIONE, LA SHARING ECONOMY E LE NUOVE TECNOLOGIE CONTRIBUISCONO AL CONTENIMENTO DEI PREZZI E ALLA DIFFICOLTÀ DI RILEVARE LA VERA CRESCITA DEI CONSUMI

Per non parlare della miriade di servizi offerti tramite la digitalizzazione dell’economia : dalla diffusione del “car sharing” al successo mondiale dell’affitto breve delle unità abitative legato alle catene di Bed&Breakfast e all’esplosione della catena AIRBNB, dei servizi finanziari che vengono forniti con la consulenza computerizzata, per non parlare di tutti i sistemi innovativi di risparmio energetico, dell’aumento della disponibilità globale di pezzi di ricambio e di strumenti tecnici a buon mercato venduti o affittati online, della diminuzione del numero di viaggi aziendali dovuta ai sistemi di videoconferenza, eccetera…

La stessa disponibilità dell’accesso alla rete è migliorata ed è divenuta più economica, dal momento che i costi di connessione tramite cellulari “intelligenti” sono crollati, e con essi è lievitato il consumo di servizi tramite accesso mobile.

L’offerta di beni e servizi è inoltre anch’essa in crescita, a causa della costante espansione della capacità produttiva per i beni a minor valore aggiunto nell’intero sud-est asiatico. Cosa che contribuisce a limitare la pressione inflattiva nonostante la vivacità della domanda, che scaturisce tanto dalla crescita globale quanto dalla dinamica demografica dei Paesi Emergenti.

Morale: non possiamo non tenere conto dei fenomeni economici collegati al concetto di digitalizzazione dell’economia globale nel chiederci per quale motivo l’inflazione non corre altrettanto quanto gli utili aziendali e quanto la crescita del Prodotto Interno Lordo. La corretta interpretazione dei fenomeni economici che discendono da essa sarà probabilmente oggetto di studio ancora per molti anni.

Quando però ci chiediamo perché il mercato mobiliare corra ancora nonostante tutti i segnali di attenzione che da oramai molti mesi gli analisti rilevano, ecco che dobbiamo guardare anche all’altro lato della medaglia: quello che esprime una crescita dell’economia globale, ancora solo parzialmente rilevata dai sistemi statistici di misurazione delle attività economiche basate sulla rete!

 

Stefano di Tommaso