INFRASTRUTTURE E GIUSTIZIALISMO

Il drammatico caso del ponte Morandi getta una luce sinistra su moltissime opere infrastrutturali realizzate in cemento armato, un materiale dalle grandi proprietà ma con un difetto intrinseco: si deteriora molto in fretta rispetto alle sue alternative (principalmente il metallo). L’esigenza di rimpiazzarle o metterle in sicurezza è molto forte, ma per farlo non si può pensare di arrivare stravolgere lo stato di diritto e di calpestare le regole del mercato dei capitali. Sarebbe un metodo miope che non ci aiuterebbe a raggiungere lo scopo finale.
(PARZIALE) APOLOGIA DEL PONTE MORANDI

Il ponte Morandi era stato proprio progettato male, privo com’era della possibilità che -a fronte di un qualche cedimento strutturale- altre parti del ponte impedissero che venisse giù l’intero manufatto. Ma nel giudicarlo non si può non tenere conto di due fattori fondamentali:

  • all’epoca in cui grandi opere come il “Brooklyn di Genova” (com’era chiamato il ponte in città) furono realizzate c’era anche l’esigenza di ammodernare presto un Paese che viveva ancora di un’economia quasi-rurale e le infrastrutture necessarie erano così numerose che in quegli anni non si poteva andare troppo per il sottile (quanto a sicurezza nei decenni successivi);
  • ma anche i carichi pesanti a cui tali infrastrutture erano sottoponibili erano molto minori da quelli che si sono poi verificati negli ultimi decenni: oggi dove prima transitavano al massimo pulmini e furgoni passano dei mezzi di trasporto infinitamente più pesanti, e soprattutto in numerosità così elevata che si può tranquillamente affermare che un carico complessivo del genere fosse letteralmente impensabile all’epoca della loro realizzazione (cinquanta-sessant’anni fa).


CHI SPENDERA’ I QUATTRINI NECESSARI ?
Insomma la morale è lapalissiana: se da un lato il mondo si evolve e il traffico su strada aumenta ancor più di quanto si potesse sperare in precedenza, sono veramente tante le opere pubbliche del passato da controllare oggi molto meglio, sia in Italia che altrove nel mondo. Ma ovviamente per farlo servono tantissimi denari, che fino a poco tempo fa erano sborsati dalle pubbliche amministrazioni, mentre oggi sono oberate di debiti e scarsamente capaci di proseguire in tale direzione. Dall’altra parte c’è il mercato dei capitali, con le sue regole ma anche con immense disponibilità di cassa.
Si dirà che per fare tutto ciò che sarebbe giusto (mettere in sicurezza, modernizzare, monitorare e ricostruire) ci vogliono tanti, forse troppi quattrini, ma non dimentichiamoci dell’importantissimo flusso di ricavi che le medesime infrastrutture generano già oggi (i pedaggi) e che a maggior ragione essi possono generare in futuro in funzione dei maggiori carichi sopportati! Se non ci fossero stati in precedenza “ trattamenti di favore” nei confronti di una società concessionaria che pretendeva di rimborsare con quegli incassi una grossa mole di debiti contratti per ottenere la concessione stessa (invece che per pagarci nuovi investimenti) se ne potevano prendere moltissime di iniziative, tanto a scopo di sicurezza quanto per migliorare la rete infrastrutturale nazionale!

DA NOI NESSUNO È FESSO…
Ma ci sarebbe voluto un occhio attento e intransigente a dettare legge in tal senso. Mentre abbiamo avuto politici orientati letteralmente all’opposto, ovviamente in cambio di inconfessabili favori e donazioni. Il ponte Morandi non è venuto giù per un terremoto o per un fulmine: è collassato per un evidente difetto strutturale sul quale nessuno ha lanciato l’allarme. Ora nessun Italiano adulto pensa seriamente che i nostri politici siano dei fessacchiotti!

Certo, i drammatici eventi di questi giorni gettano una luce sinistra anche sull’ingegneria che stava alla base del ponte Morandi: un difetto di progettazione già ampiamente esplorato negli scorsi anni che aveva innescato un importante dibattito accademico sulla necessità di intervenire per rimpiazzarlo. Ma a ciò non era seguìta alcuna risposta, nè regolamentare (ad esempio: chiudiamo il ponte o impediamo che ci passino sopra i mezzi pesanti), ne gestionale (ad esempio: avviamo la realizzazione di un nuovo ponte e nel frattempo monitoriamolo meglio).

Per quale motivo ciò potesse accadere sembra oramai una questione assodata: c’era molta “bonarietà” della precedente classe politica (e forse persino della Magistratura) verso il soggetto economico che aveva ottenuto la concessione delle Autostrade per l’Italia, sino al limite di far chiudere a tutti entrambi gli occhi davanti alle evidenze negative ! Non andiamo oltre sulle illazioni riguardanti i possibili motivi che sospingevano tali comportamenti, ma forse è anche per questo che l’attuale coalizione al governo -totalmente alternativa a quella precedente- intende andare con mano pesante alla ricerca delle responsabilità! Non bastano però i funerali di Stato e la pubblica gogna degli amministratori di Atlantia a sanare il problema generale che emerge dalla constatazione dei fatti di Genova : adesso serve fare (presto) qualcosa!
IL RISCHIO CHE IL RIMEDIO SIA PEGGIORE DEL DANNO
Trovare infatti una via di risoluzione dell’attuale situazione giuridico-contrattuale tra lo Stato e Atlantia per passare la gestione delle Autostrade a qualcun altro è affare molto complesso. Persino qualora la magistratura dovesse arrivare a evidenziare in capo a pochi indiscutibili soggetti delle pesantissime responsabilità (cosa quasi impossibile in tempi brevi), non sarebbe comunque facile dare una spallata agli equilibri economico-finanziari che stanno dietro ad una società quotata in borsa dotata di un largo flottante econ quasi tre quarti dell’azionariato di matrice straniera. Difficile pensare insomma di cancellare con un tratto di penna i diritti acquisiti e consolidati da Atlantia (e dagli altri concessionari) sui quali sono state costruite importanti operazioni finanziarie di carattere internazionale. Come si direbbe in Veneto: si rischia che ”xe pèso el tacòn del buso” (il rimedio sia peggiore del danno)!

Ed è qui che l’attuale Governo rischia di scivolare (pur mosso da nobili principi di giustizia e volontà positiva) : nell’agire in maniera incauta davanti a un gigantesco coagulo di interessi e questioni di diritto. Non solo, ma il medesimo trattamento ne verrà riservato a quella società concessionaria che oggi è alla pubblica gogna per i morti di cui è per molti versi direttamente responsabile, un domani dovrà essere usato per tutti gli altri soggetti che gestiscono le altre (numerosissime) infrastrutture che necessitano di ammodernamento nel nostro Paese! Le quali dovrebbero trovare nelle casse pubbliche le risorse per rispondere alle necessità di investimento oppure dovranno essere privatizzate anch’esse, con il rischio che gli eventi si ripetano con riguardo al trattamento che verrà loro riservato.
IL COMPROMESSO, INNANZITUTTO
Ma l’Italia da questo punto di vista è un Paese fortemente bisognoso di interventi infrastrutturali: con una conformazione geografica lunga e stretta e poi anche chiuso com’è tra montagne, valli e costiere scoscese. Senza adeguate infrastrutture il “bel Paese” rischia di pagare molto caro lo scotto della sua bellissima conformazione geografica e di trovarsi un divario con il resto d’Europa anche nei costi di trasporto. Ed è altrettanto ovvio che senza una rinnovata sensibilità nazionale per trovare un equilibrio intelligente tra giustizialismo e stato di diritto, il mercato dei capitali non investirà a casa nostra i molti altri miliardi necessari per rinnovare ed ampliare le nostre infrastrutture, lasciando di conseguenza sempre più a rischio anche la revisione di quelle esistenti. La fine dell’era della corruzione di Stato non passa per la politica del giustizialismo, bensì per la ricerca di soluzioni intelligenti alle scelleratezze dei suoi predecessori.
Stefano di Tommaso




L’ENIGMA DEL DOLLARO DEBOLE E LA VARIABILE NASCOSTA DEL 2018

Cosa succede al biglietto verde perché esso scenda in picchiata di oltre il 10% nel 2017 nonostante abbia effettuato tre rialzi dei tassi (e altri tre ne abbia promesso per il 2018) nonostante la crescita del prodotto interno lordo americano abbia raggiunto il 3% e prometta faville a causa del taglio fiscale, nonostante la BCE se le inventi tutte per far scendere l’euro al cambio e nonostante che quest’ultima, insieme alla stragrande maggioranza delle altre banche centrali, stia ancora pompando liquidità a tutto spiano (che in parte finisce anche a Wall Street) ? Difficile, come si può vedere dai quattro dati appena citati, fornire spiegazioni razionali a questa e a altre dinamiche di una finanza globale che sembra aver perso da tempo la correlazione di un tempo tra le variabili economiche e fors’anche il lume della ragione. Eppure le ragioni -perché qualcosa accada- ci sono sempre. Proviamo perciò ad andare un po’ più a fondo per scoprirlo.

LA LEGGE DELLA DOMANDA E DELL’OFFERTA


Innanzitutto teniamo bene a mente che, teorie economiche e correlazioni statistiche a parte, a determinare le sorti di qualsiasi variabile economica insiste, prima di ogni altra, la legge della domanda e dell’offerta: se qualcuno vende dollari e compra altre divise evidentemente è perché preferisce fare così, oppure ve ne è costretto.

Esiste dunque una tematica di fondo relativa alla sfiducia degli investitori globali sull’economia americana? Sebbene ciò non abbia molto senso logico, viene da rispondere che evidentemente sì, esiste, altrimenti succederebbe il contrario: il dollaro si apprezzerebbe. Quasi impossibile inoltre affermare che il corso del dollaro scenda perché I biglietti verdi sono venduti da coloro che comprano bitcoin, oro ovvero qualsiasi altro bene-rifugio o moneta speculativa: le quantità in gioco non sono neppure paragonabili e, se anche tutto ciò avvenisse contemporaneamente e massicciamente, il cambio del dollaro farebbe fatica a segnare qualche minima differenza. L’economia americana è infatti la prima al mondo in valori assoluti e dunque il mercato del dollaro è davvero molto profondo.

Più probabilmente però il vistoso squilibrio della bilancia commerciale americana un ruolo ce l’ha di sicuro nel determinare la legge della domanda e dell’offerta: se gli americani hanno aumentato fortemente nell’anno in corso i loro acquisti online e quasi tutte le merci acquistate sono arrivate dall’Asia, probabilmente l’effetto “si sente”.

IL RUOLO DELLE ASPETTATIVE

Ma questo a dirla tutta non basta a spiegare, ad esempio, il crescente “spread” (differenziale) tra i rendimenti dei titoli di stato americani a dieci anni e quelli europei (ed in particolare quelli tedeschi). Se il differenziale si amplia è perché gli investitori preferiscono comperare titoli tedeschi -denominati in euro e a rendimenti più o meno nulli- che non titoli americani in dollari -già svalutati e che rendono molto di più-. Torna dunque la tematica della domanda e dell’offerta: se essi lo preferiscono un motivo ci sarà e riguarda evidentemente le loro aspettative.

In effetti le aspettative giocano sempre un ruolo fondamentale.

Che si tratti dell’aspettativa che quel differenziale con il “Bund” (titolo di stato tedesco a 10 anni) si riduca presto, ad esempio, o che l’economia europea alla lunga possa correre più di quella americana (sebbene sia oggettivamente un po’ difficile credere a un vero sorpasso), o che sia l’antipatia per l’amministrazione del presidente Trump, sebbene di solito “pecunia non olet” (il denaro non abbia olezzo) ?

LA VARIABILE NASCOSTA E LE POSSIBILI ASIMMETRIE INFORMATIVE

È più probabile però che la “variabile nascosta” che permetta di fare la quadra con le discrepanze osservate nel, quadro economico di fine anno consista nelle aspettative he riguardano l’inflazione. Infatti, nell’ipotesi fantasiosa che l’inflazione americana non corrisponda a quella che attestano le statistiche correnti, bensì risulti molto più elevata, ecco che i tassi di interesse più elevati riscontrati sui titoli del tesoro americano avrebbero più senso e che, evidentemente, anche l’erosione attesa del valore del biglietto verde alla fine giustificherebbe una qualche disaffezione degli investitori che li spinge a venderlo.

C’è solo un particolare però che ancora non quadra: gli investitori professionali internazionali sanno qualcosa che nemmeno la Federal Reserve conosce (o peggio: che non vuole ammettere)? L’enigma finanziario dunque si tinge di giallo e rimanda a possibili trame “complottiste” : forse che esistano pesanti asimmetrie informative che per qualche ragione non devono finire a conoscenza del grande pubblico ? E perché mai ? Oppure l’istinto animalesco degli operatori di mercato li spinge a non fidarsi e a rimanere in sicurezza sospettando che l’inflazione sia più alta pur senza averne le prove?

Forse infine -e più semplicemente- sono in molti a ritenere che l’inflazione, senza essersi ancora manifestata, sia comunque in procinto di fare la sua comparsa. E che questo comporterà un riallineamento monetario nient’affatto grave, ma tale da ispirare tanto ulteriori rialzi del mercato borsistico (nonostante nel 2017 abbia sfondato ogni record precedente) quanto ulteriori scivolamenti del corso dei titoli a reddito fisso, i cui rendimenti nominali dovranno evidentemente crescere perche quelli reali arrivino a incorporare la componente inflattiva. Il punto è che le attuali quotazioni dei titoli a reddito fisso in dollari (ma anche in euro) non sembrano incorporare già uno scenario di forte risalita dell’inflazione, che anzi in Europa preoccupa per la sua quasi assenza.

SE FOSSE VERO COSA SUCCEDEREBBE?

Il problema logico che ne discende però è più ampio: poiché questo scenario comporta l’aspettativa di ulteriori riassestamenti dei titoli a reddito fisso e negli ultimi anni questa “asset class” (categoria di beni sui quali investire) abbia avuto una fortissima correlazione a tutte le altre, esistono solo due possibilità:

•che la possibile ulteriore discesa dei corsi dei titoli a reddito fisso dia luogo a sussulti e scivoloni anche delle borse (e infatti sono in molti a preconizzare maggior volatilità nel 2018), oppure :

•che ritorni una decisa correlazione negativa tra i titoli a reddito fisso e quelli azionari, dal momento che questi ultimi possono contare su un consistente e crescente flusso di dividendi e che dunque possano beneficiare ancora a lungo del superciclo economico espansivo che il mondo sta vivendo oramai da oltre otto anni.

La seconda possibilità farebbe peraltro scopa con le teorie economiche classiche che sino ad oggi appaiono inspiegabilmente inconsistenti con la realtà che vivono gli Stati Uniti d’America, a partire dalla famosa “curva di Phillips” che indica un innalzamento dell’inflazione come conseguenza della maggior pressione salariale e della minor disoccupazione, sino ad oggi completamente smentita dai fatti.

Quella dell’incombenza di maggior inflazione -evidentemente a partire già dal 2018- come variabile nascosta idonea a spiegare le incongruenze, nonché quella che possa approssimarsi un periodo di deciso disaccoppiamento dell’andamento dei titoli a reddito fisso rispetto a quello delle azioni, restano dunque ipotesi più che realistiche, sebbene dell’intero ragionamento sin qui esposto io non possa che avere racimolato soltanto qualche indizio negativo.

Ma come Sir Arthur Conan Doyle faceva dire a Sherlock Holmes: “una volta eliminato l’impossibile, ciò che resta, per improbabile che sia, deve essere la verità”.

Stefano di Tommaso




IL BOOM DEGLI IPO IN BORSA È DESTINATO A PROSEGUIRE CON LO SGRAVIO DEI COSTI DI QUOTAZIONE

Il 2017 rischia di passare alla storia del nostro paese come l’anno del rilancio economico italiano. Non solo le aspettative di crescita del prodotto interno lordo sono ancora una volta al rialzo (adesso si parla di un +1,5%) ma soprattutto non sembra un fuoco di paglia come è stato più volte in passato dopo la grande crisi. La conferma della svolta proviene soprattutto da altri indici, più significativi per il mondo delle imprese, come quello della produzione industriale che spicca in ottobre a un +4% su base annua. Il 2017 verrà ricordato come l’anno delle quotazioni in borsa: già 30 Initial Public Offerings (IPO) sino ad oggi (di cui 17 all’AIM) e si stima ben 40 entro fine anno tra le quali la più grande IPO d’Europa nel 2017: il ritorno in Borsa della Pirelli, che da sola ha collocato titoli per €2,3 miliardi!

La borsa italiana non si è fatta sfuggire l’opportunità di cogliere la ripresa economica e, un po’ per il traino degli altri mercati finanziari internazionali, un po’ per effetto del positivo andamento dell’industria, i suoi livelli sono cresciuti ben più che proporzionalmente: del 20% da inizio 2017 e di ben il 40% da un anno fa ad oggi.

INDICE FTSE MIB BORSA ITALIANA NELL’ULTIMO ANNO

Ancor meglio è andata per l’indice di borsa relativo al comparto delle piccole e medie imprese: +23% da inizio 2017 (anche se la variazione da un anno ad oggi è stata meno significativa di quella dell’intero mercato:+30% da un anno fa ad oggi). L’Alternative Investment Market (AIM) è il segmento di Borsa Italiana dedicato alla quotazione delle piccole e medie imprese. Esse valgono (capitalizzano, si dice in Borsa) in media 52 milioni e con l’operazione di quotazione hanno raccolto mezzi freschi in media per 5,3 milioni.

INDICE FTSE AIM BORSA ITALIANA NELL’ULTIMO ANNO

Sicuramente però -complice il più che positivo andamento degli indici- il dato più significativo della svolta che il nostro paese ha marcato nel 2017 è quello del gran numero di imprese piccole e grandi che hanno deciso di varcare la soglia della Borsa. Non solo le 40 imprese che entro fine anno l’avranno già fatto, ma soprattutto il numero di quelle che hanno deciso di farlo prima o poi: quasi 400 imprese si sono già iscritte infatti al circuito Èlite della Borsa Italiana, un percorso di conferenze e confronti che tende a preparare le “matricole” al grande passo. Una vera e propria rivoluzione se si quotassero tutte, che porterebbe al raddoppio le attuali dimensioni del listino milanese!

Una parte del merito va tuttavia ascritta alla normativa dello scorso anno sui Piani Individuali di Risparmio che hanno già portato alle imprese italiane la bellezza di €10 miliardi di denaro fresco! Sei volte quanto previsto al momento del varo della legge (€1,5 miliardi per quest’anno). Una manna che ha favorito non poco la liquidità dei listini, in particolare dell’AIM.

La quotazione in Borsa porta indubbiamente una serie di vantaggi, a partire dal denaro fresco che affluisce stabilmente in azienda (non bisogna infatti restituirlo né pagarne gli interessi ma casomai remunerarlo -nel tempo e solo qualora non vi siano opportunità migliori- con una politica di dividendi).

In alcuni casi tuttavia il passaggio può risultare traumatico quando l’azienda non è pronta o la governance non è chiara o, peggio, la contabilità non è trasparente e veritiera. Il percorso di adeguamento alle esigenze degli investitori che sottoscriveranno i loro titoli quotati in borsa passa innanzitutto dalla capacità di esprimere un buon piano industriale, un’ottima strategia di accrescimento del valore d’impresa e un controllo significativo dei rischi del business.

La vera novità però deve ancora arrivare (e ci si augura che si trasformi in altrettanto interesse per la quotazione in borsa), perché sono state inserite nella legge finanziaria del 2018 (in approvazione entro fine anno) nuove misure per favore la quotazione in Borsa delle PMI: un credito d’imposta pari al 50% dei costi di consulenza legati alla quotazione (con un tetto di €500mila) e un ampliamento della normativa sui P.I.R.

Dal momento che il costo medio delle operazioni legate alla quotazione storicamente si attesta sugli €800mila (€500mila per advisory, revisione, diligences e oneri vari oltre a €360mila per il collocamento dei titoli per l’importo medio di €7,3milioni), ecco che lo stanziamento previsto, €30 milioni, sembra sufficiente a coprire l’operazione per almeno 60 nuove imprese che rientrano nella definizione di PMI: non più di 250 dipendenti, 50 milioni di fatturato e 41 milioni di attivo di bilancio. Sarebbero il doppio di tutte le IPO del 2017 sino ad oggi e quasi il quadruplo delle di quelle che sino ad oggi si sono quotate all’AIM. !

Insomma tra la normativa sui mini bond, quella sui P.I.R. e quella sulle quotazioni in borsa, bisogna dare atto a questo governo di stare facendo molto più di quelli che lo hanno preceduto per ridurre la dipendenza delle imprese dalle disponibilità di credito del sistema bancario. Chissà che il famoso “dito” di Maurizio Cattelan (il cui nome è L.O.V.E. , acronimo di libertà, odio, vendetta ed eternità) che svetta in Piazza Affari e che tante polemiche aveva suscitato al momento dell’installazione (qualcuno lo aveva definito un invito al risparmiatore italiano a metterselo dove meglio credeva) non abbia invece profetizzato l’attuale rialzo delle quotazioni per le sorti del mercato nostrano dei capitali?

Stefano di Tommaso




SARÀ IL MERCATO DEI CAPITALI A FINANZIARE LE IMPRESE?

Per anni il mondo occidentale si è posto il problema di come conciliare la necessità di ricapitalizzazione e una migliore regolamentazione del settore bancario con quella di evitare la diminuzione di credito disponibile per le imprese (senza peraltro riuscire a trovare la soluzione). Il risultato è stato un deciso arretramento dell’attività caratteristica delle banche, le quali si sono adoperate nella ricerca di un maggior reddito da commissioni di servizio.

La principale vittima del meccanismo anzidetto però sono state le piccole e medie imprese, dal momento che molte banche hanno deciso di concentrare i propri impieghi verso le imprese di maggiori dimensioni per via di una migliore qualità del credito che queste potevano assicurargli.

In particolare l’Italia ha sofferto più di molte altre economie avanzate la carenza di credito a causa della piccola dimensione e bassa capitalizzazione delle proprie imprese e dell’impossibilità dunque di finanziarne gli investimenti con fonti diverse dal credito bancario.

Parallelamente tuttavia il mercato dei capitali, sulla scorta di recenti esperienze positive nel settore del “private debt” (finanziamenti erogati da fondi di investimento a capitale privato), ha trovato terreno fertile nel vuoto di mercato lasciato dal sistema bancario, estendendo le proprie attività anche alle imprese di minori dimensioni, alla ricerca di buoni rendimenti e, soprattutto, di nuovi spazi di impiego delle proprie crescenti disponibilità finanziarie, dopo che i ritorni  derivanti dagli investimenti nei soliti titoli a reddito fisso (quotati o con elevato rating) erano arrivati a zero o addirittura sotto zero.

In tale direzione (il “private debt”) è evidente il vantaggio per chi si ritrova a dover investire anche nel reddito fisso importi crescenti di capitali (fondi pensione, compagnie di assicurazione, family offices…) :
negli scorsi anni il tasso di interesse relativo alla sottoscrizione di bond aziendali non quotati ha spesso toccato e superato la soglia del 10%, mentre sul fronte tradizionale il rendimento standard del reddito fisso planava verso lo zero.

Niente male come ritorni se chi proponeva queste forme di finanziamento “alternativo” poteva anche selezionare con cura i piani industriali delle imprese più promettenti cui elargire il proprio credito (e magari ottenere anche buone garanzie reali). Inutile dire che sono stati fatti buoni affari dai primi arrivati ad occupare il vuoto lasciato dalle banche con poche risorse a disposizione per nuovi prestiti, lente e burocratiche anche perché vessate dagli innumerevoli obblighi derivanti dalla vigilanza.

Nel nostro Paese inoltre la normativa recente sui “Minibond” ha contribuito in maniera decisiva allo sviluppo del credito proveniente dal mercato dei capitali.

Gli ottimi risultati ottenuti hanno ovviamente richiamato attenzione da parte degli altri investitori: si stima che a fine 2016 le risorse gestite in tutto il mondo dai fondi destinati al “private debt” abbiano raggiunto la strabiliante cifra di 600 miliardi di Dollari, con un incremento di poco meno di 100 miliardi nel solo ultimo anno!

Oggi però un numero crescente di operatori del mercato dei capitali sta iniziando a rivolgere la propria attenzione anche al mercato del “private debt”, con due importanti (quanto ovvie) conseguenze pratiche:

– La discesa dei rendimenti
– La progressiva estensione del bacino di imprese cui proporsi a quelle più piccole e con minore qualità del merito di credito.

I tassi di rendimento medio dei “corporate bonds” senza rating ufficiale sottoscritti dagli investitori privati è sceso dal 10% circa degli anni 2010-2011 al 7-8% del 2014 fino al 5-6% del 2016, anno in cui (soprattutto nel nostro Paese) si è registrata un’importante espansione del numero di emissioni. Allo stesso modo si sono visti ridurre l’importo medio per singola operazione e il fatturato medio delle imprese beneficiarie.

Ora è chiaro che un tale “boom” porta con sé il rischio di una parallela discesa dell’attenzione verso il rischio e la qualità delle operazioni. Così come una maggior concorrenza tra gli operatori. Inoltre più si abbassa la dimensione dei prestiti erogati meno saranno liquidi sul mercato secondario i relativi bond emessi.

Questo non significa necessariamente che assisteremo presto ad un incremento significativo dei tassi di mancato rimborso di quei finanziamenti, tanto per il fatto che l’economia mondiale sembra aver imboccato di nuovo un percorso di crescita, quanto per la natura di tali operazioni: un esame attento del piano industriale e una “diligence” sui conti (in Italia condotta solitamente da società di audit iscritte all’albo CONSOB) permettono a chi sottoscrive tali finanziamenti un deciso approfondimento sulle caratteristiche dell’attività dei beneficiari.

Certo però non possiamo non prendere atto del successo di uno strumento (quello dei Minibond) che fino a ieri sembrava destinato a pochissimi interlocutori e dell’ampiezza a livello planetario di un fenomeno (quello del “private debt”) che sta passando da una “nicchia” di mercato a dimensioni decisamente più ampie, coinvolgendo un maggior numero di operatori (che potrebbero non essere tutti di lunga esperienza) e tornando a proporre una concorrenza sul mercato del credito che, fino a ieri, sembrava sopita per sempre!

 
Stefano di Tommaso