LE BORSE SALIRANNO ANCORA

La Compagnia Holding
Dove andremo a finire? Possibile che non vi sia limite ai rialzi dì borsa? Nonostante l’inflazione prosegua la sua corsa e la pandemia non demorda, a guardare i mercati finanziari pare proprio sia così. Nonostante i rischi di un crollo (o di elevata volatilità delle quotazioni) aumentino parallelamente ad ogni ulteriore salita degli indici dì borsa, l’orientamento dei mercati è ancora una volta positivo! Una ragione tecnica peraltro c’è e non è da sottovalutare: i tassi d’interesse reali. Mai stati così in basso, e con poche speranze che la tendenza si inverta. Continuerà? Pare proprio di si.

 

I FATTORI CHE ALIMENTANO LE BORSE

La liquidità in circolazione abbonda, l’alternativa ai mercati azionari spaventa (quelli obbligazionari promettono delle perdite, l’oro appare in rialzo ma molto speculativo e le criptovalute ancor di più): non c’è dunque troppo da stupirsi se le borse segnano quasi i massimi livelli di sempre. Ma c’è anche una ragione d’opportunità per la quale i rialzi dei listini potrebbero non finire qui: la fine dell’anno è vicina e i gestori di patrimoni vogliono far segnare delle belle plusvalenze. Ecco dunque che scatta la paura di perdersi il nuovo rialzo! La cosiddetta “fear of missing out”. Sebbene la prudenza consiglierebbe atteggiamenti più cauti, nessuno se la sente di rimanere fuori dai mercati borsistici se ha liquidità nelle mani, tanto più ora che è acclarata un’inflazione galoppante: se tutti i prezzi salgono (compresi quelli delle azioni) ciò che rimane liquido perde valore. L’inflazione dunque in un primo momento alimenta la salita dei listini azionari.

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L’IMMOBILISMO DELLE BANCHE CENTRALI

Oddio, non aspettiamoci che l’inflazione faccia per il momento altri salti quantici: non appare realistico. Anche perché permangono dubbi sul proseguire della ripresa economica. Ma nemmeno è realistico che l’aumento dei prezzi al consumo si dissolva come una nube passeggera, così come in troppi continuano a ripetere: mentono sapendo di mentire. La storiella del “fenomeno temporaneo” le banche centrali dovevano necessariamente raccontarcela, perché non potevano fare diversamente e perché non sapevano (e non sanno) che pesci pigliare. E a forte ragione. Ci sono molti altri fattori da valutare prima di decidere di rialzare i tassi, fra tutti il rischio di innescare una brutta reazione a catena che porti -come è già successo in passato- alla recessione. Poi c’è il rischio -gigantesco- di far saltare la sostenibilità dei debiti pubblici. Insomma la cautela è d’obbligo.

LE STATISTICHE E I TASSI D’INTERESSE “REALI”

Ma l’inflazione può restare anche soltanto ai livelli attuali per generare effetti dirompenti: i livelli oscillano dal 3% al 6% per i prezzi al consumo (in Europa è per il momento più bassa che negli U.S.A. e in Cina è frutto della “media del pollo” tra prezzi di mercato e prezzi amministrati). Ma per i prezzi all’ingrosso è a livelli doppi (cioè dal 6% al 12%) sebbene con una lieve tendenza al ribasso negli ultimi giorni. Non è dunque un fenomeno da sottovalutare e può comportare pesanti conseguenze, anche sui mercati finanziari.

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Tanto per cominciare queste ultime si mostrano in termini di tassi d’interesse “reali”: al netto dell’inflazione essi sono oggi decisamente negativi. Cosa che spinge al rialzo i titoli azionari, dal momento che la maggior parte delle imprese quotate si trova in posizione rialzista con l’inflazione. Ciò che invece appare depresso è il comparto dei titoli a reddito fisso: con l’erosione dei rendimenti reali esso può soltanto perdere terreno, anche perché prende maggior corpo l’aspettativa dì una risalita dei tassi nominali (i risparmiatori vendono titoli a reddito fisso per comperare azioni). E finché la liquidità in circolazione resta sempre molto alta, è difficile pensare che la tendenza possa invertirsi.

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Quello che prima o poi dovrebbe invece scomparire sono le tensioni relative alle filiere produttive così come la carenza di offerta di beni di consumo durevole (come le automobili e gli elettrodomestici) e dei loro componenti. Sebbene ciò avverrà certamente a fronte dì un riallineamento verso l’alto dei relativi prezzi finali.

TALUNE COMPONENTI DELL’INFLAZIONE PERMARRANNO

Ma altre componenti dell’inflazione risultano assai meno volatili: ad esempio se l’economia continuerà a “tirare” sarà più difficile che scompaia la carenza di manodopera qualificata, con la conseguenza che i salari non potranno che crescere, alimentando indirettamente l’inflazione, o almeno il suo permanere. Così come è piuttosto difficile che scompaiano da un giorno all’altro le tensioni sulla domanda di energia, alimentando altrettante tensioni sul prezzo del petrolio, caratterizzato al momento anche da un’offerta rigida. L’allarme climatico può inoltre contribuire a farne crescere il prezzo, a causa di possibili nuove “carbon tax”. E può a sua volta alimentare tensioni sul costo dei trasporti, dal momento che questo costo dovrà tenere conto della necessità di un accelerato rinnovo dei mezzi, per sostituirli con quelli meno inquinanti.

C’è da tener conto anche della necessità per i governi di proseguire talune politiche fiscali espansive, ad esempio in Europa e negli U.S.A. : non soltanto perché ci sono paesi che sono rimasti indietro (come il nostro) ma anche per l’esigenza di finanziare il rinnovamento e l’adeguamento tecnologico delle infrastrutture e dell’efficienza energetica. Giù quindi altri miliardi dai governi a favore di produttori e consumatori, con l’aiuto delle banche centrali che li finanziano. La pioggia di liquidità che si riversa inevitabilmente anche sui mercati finanziari insomma non è destinata ad esaurirsi così in fretta.

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LA RIPRESA ALIMENTA L’INFLAZIONE

Dunque l’inflazione dei prezzi sembra destinata a permanere, oltre che a dilagare anche nei comparti che ne erano rimasti immuni (come in taluni servizi pubblici e nelle retribuzioni orarie), ma soprattutto essa verrà tenuta viva dai rincari del prezzo dell’energia, la cui domanda supera costantemente l’offerta. Soprattutto se l’economia proseguirà la sua corsa (come si può vedere dal grafico qui sotto, aggiornato al terzo trimestre 2020), il prezzo del petrolio farà fatica a scendere.

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Ma se l’inflazione non è quindi passeggera e se le banche centrali faranno fatica a rialzare i tassi d’interesse nominali, allora i tassi d’interesse reali sono parallelamente destinati a rimanere negativi, anche perché la necessità di aiutare i governi a finanziare i più alti debiti pubblici di sempre spinge le banche centrali a non ridurre -al momento- l’offerta di moneta. Anzi: a lasciare che ne cresca la velocità di circolazione, assicurando in tal modo lunga vita all’inflazione.

ECCO PERCHÉ LE VALUTAZIONI SONO DESTINATE A SALIRE

E quella dei tassi d’interesse reali sottozero è la principale ragione per la quale i corsi delle società quotate crescono in borsa. Se infatti alla radice di tutti i metodi sulla valutazione delle imprese rimane il valore attuale netto dei flussi di cassa futuri che le medesime produrranno, o il loro valore implicito, che prima o poi potrebbe essere monetizzato con una cessione o con un IPO, ecco che il tasso di sconto dì quei flussi prospettici -quando risulta negativo- ne esalta il valore attuale. Soprattutto se si può ragionevolmente ritenere che il tasso di sconto resterà per un po’ di tempo negativo mentre i flussi di cassa aziendali potranno invece anche adeguarsi all’inflazione (e dunque crescere).

Questo meccanismo sembra tra l’altro destinato a far cambiare gli orientamenti in termini dì valutazioni d’azienda: quando le imprese mostrano capacità di crescere e di competere globalmente (o se risulteranno appetibili per altre imprese che vogliono acquisirle) le loro valutazioni sono trainate al rialzo (almeno in termini dì multipli della redditività) dalle logiche che oggi ispirano i mercati finanziari.

Anche se poi le medesime logiche imporranno altresì una più rigorosa selezione tra le imprese più capaci dì investire per rincorrere le nuove tecnologie e quelle che non potranno permetterselo, con una evidente falcidia per queste ultime. Il che però alimenta il flusso di fusioni e acquisizioni, un fattore da sempre positivo per i listini azionari, come si può leggere nel grafico qui sotto riportato dall’andamento del moltiplicatore medio dell’EBITDA (margine operativo lordo) espresso nelle ultime transazioni degli U.S.A.

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PRIVATE EQUITY E OPERATORI INDUSTRIALI SI ADEGUANO

I fondi di investimento di “private equity” sono stati i primi a riconoscere questa tendenza, e a cavalcarla al rialzo di conseguenza. Ma non sono soltanto loro oggi a muoversi con più decisione che mai: tutto il mercato dei capitali ha più mezzi a disposizione e idee più chiare. Dunque anche le valutazioni si adeguano al rialzo.

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Ora c’è dunque da attendersi che anche gli operatori industriali si adegueranno al rialzo delle valutazioni, soprattutto se -insieme ai flussi dì cassa futuri delle imprese che compreranno- essi vorranno portare a casa -uomini e tecnologie che potrebbero non trovare altrimenti. Ecco un altro motivo per il quale le borse potrebbero prenderne atto, chiudendo il cerchio e alzando ancora una volta l’asticella delle valutazioni d’azienda.

Stefano di Tommaso




MAL D’EUROPA

E Una serie di annunci importanti stanno arrivando tra le aziende italiane, guarda caso subito dopo oppure a ridosso delle votazioni per il parlamento europeo. Mi riferisco al momento al secondo fallimento di Mercatone Uno e all’annuncio della fusione di Fiat con Renault (che in realtà è una cessione a termine) . Ma ci potrei scommettere che molti altri ne arriveranno a breve, fra i quali mi aspetto che prenda piede l’avvio ufficiale delle trattative per la fusione tra UniCredit e Commerzbank come pure l’ennesima ristrutturazione di Alitalia. Il fil rouge che li collega è in ciascun caso il licenziamento -più o meno forzoso- di parte del personale dipendente, a causa dell’esigenza delle imprese di ristrutturare il business e cercare maggior efficienza.

 

PRIMA ARRIVANO LE FUSIONI AZIENDALI

Proviamo a scendere nei dettagli: sino a ieri la famiglia Agnelli-Elkahn che controlla la Fiat-Chrisler non aveva mai confermato l’ipotesi di avvicinamento ad altri gruppi, in particolare francesi (era in predicato anche la Peugeot-Citroen) anche perché lo capiscono anche i bambini che -se il valore aziendale che FCA esprime sta quasi esclusivamente nella componente americana del gruppo- è chiaro che chiunque si avvicinerà lo farà per prendersi quest’ultima, pagando il fio allo stesso tempo di ridimensionare gli stabilimenti che stanno nel resto del mondo e in particolare quelli storici italiani. A maggior ragione se a farlo sono i francesi, noti campanilisti, i quali hanno probabilmente anche loro degli esuberi in patria.

Ai sindacati italiani non resterà che fare un po’ di baccano, mostrare “ugualmente” che s’indignano e s’impegnano (citando la canzone “Don Raffaè” scritta da Mauro Pagani per Fabrizio De Andrè) per poi gettare la spugna, dal momento che è altrettanto noto che l’alternativa alle ristrutturazioni d’azienda è la loro chiusura. Un’alternativa non praticabile per i sindacalisti.

POI ARRIVANO I TAGLI

Perché però tutto ciò arriva soltanto dopo le votazioni? Perché certi temi scottanti come quello dei licenziamenti in campagna elettorale era forse meglio per tutti lasciarli indietro, soprattutto per coloro che ancora tifano a tutta voce per l’attuale modello di Europa unita, che avevano perso sì già una volta le elezioni (e questa è la seconda) ma che possono vantare ancora il controllo da parte dei loro militanti di quasi tutte le istituzioni italiane e gli enti pubblici (ministeri compresi), nonché il controllo di buona parte degli organi di informazione e sinanco del Quirinale, istituzione che giocherebbe la parte del leone in caso di crisi di governo. Il ribaltone delle due votazioni recenti perciò non ha fino ad oggi modificato più di tanto l’assetto di potere reale nel Bel Paese.

UN’EUROPA SPACCATA IN DUE

E a livello europeo le cose non vanno troppo diversamente: la Germania ha visto i partiti dell’attuale compagine governativa (quella che esprime i membri della Commissione Europea) prendersi una sonora sberla mentre addirittura in Francia (sua storica alleata) dopo settimane di protesta dei “gilet gialli” il partito di governo è andato sotto e il fronte anti-globalista per eccellenza (quello della LePen) ha trionfato. Stessa storia per la Gran Bretagna, dove il partito che più ha desiderato l’uscita dall’Europa unita, quello di Boris Johnson ha stravinto ancora, lasciando al lumicino le residue speranze di un nuovo referendum per la Brexit. Ha stravinto anche Orban in Ungheria che ha detto da tempo a tutti -senza mezzi termini- cosa ne pensava di quest’Unione Europea.


Ciò nonostante le elezioni che si sono appena svolte non cambieranno di molto il governo della nuova Europa, dal momento che i partiti che ne esprimevano la maggioranza hanno ottenuto una lieve prevalenza su quelli che ne prefiguravano un orientamento di forte cambiamento. M questo non fa che complicare le cose, dal momento che un’Europa che non cambia risulterà forse peggiore di una ingovernabile.

MA IL RESTO DEL MONDO CORRE

Del resto a livello globale si vede chiaramente un mondo a due velocità: quella dei Paesi che sono riusciti ad esprimere più elasticità nelle riforme fiscali e per il lavoro (come Stati Uniti e Asia) e che crescono a un ritmo più consistente di quelli che non lo hanno fatto, esprimono una lieve inflazione dei prezzi e mostrano tassi di interesse regali lievemente positivi. L’Europa esprime invece una divisa comune in declino costante (è chiaro a tutti che stiamo andando verso la parità contro Dollaro) con tassi d’interesse (non solo reali) negativi e un rischio concreto di deflazione monetaria, che avrebbe l’effetto di irrigidire ulteriormente la struttura industriale scoraggiandone gli investimenti in innovazione e efficientamento.


LA DIGITALIZZAZIONE NON CI AIUTA

La crescente digitalizzazione poi rischia di sferrare il colpo di grazia all’industria tradizionale, favorendo i “vendor” dei prodotti tecnologici che oggi si vendono di più anche se essi si trovano all’altro capo del mondo, a scapito di quelli locali. D’altra parte l’Europa attuale investe poco sui giovani e sulle loro Start-up (in particolare l’Italia) e li lascia fuggire altrove, favorendo indirettamente l’invecchiamento della popolazione stanziale e dovendosi confrontare con l’insostenibilità della previdenza sociale. La risposta immigrazionista a questo problema poi lascia tutti con la bocca amara, perché chi arriva dall’Africa è assai poco attrezzato a sostenere il confronto tecnologico con l’elevata preparazione delle giovani generazioni asiatiche o anglosassoni. In una parola i giovani africani saranno (forse) una risorsa soltanto nel lungo termine!

I CAPITALI FUGGONO DAGLI SCONTRI POLITICI

Qualcuno si chiederà cosa c’entra quanto scritto sin’ora con il risultato delle elezioni europee ma la risposta è presto data: l’Unione Europea deve riuscire a cambiare e la sua vecchia classe dirigente se n’è invece guardata bene, tornando piuttosto a imporre temi di austerity e normative sempre più soffocanti. Così la nuova classe dirigente, che purtroppo rischia di essere troppo simile alla vecchia, temo continuerà acuendo lo scontro con gli Stati periferici (come il nostro) che sono i meno interessati a proseguire sulla vecchia strada e che guarda caso oggi esprimono più di altri il cambiamento negli orientamenti elettorali. Si preannuncia perciò una guerra di trincea destinata a durare a lungo, e che l’intero vecchio continente rischia di pagare caro, perdendo tempo prezioso nella corsa verso il rinnovamento.

I mercati finanziari annusano tutto questo e di conseguenza frenano sull’Europa, fuggendo verso altre destinazioni geografiche per allocare le loro ricchezze o verso i beni rifugio. Così anche le borse valori continentali (che esprimono soprattutto industria e banche, e ben poche aziende tecnologiche) arrancano di conseguenza. È vero che le industrie tradizionali possono risultare ottimi investimenti anticiclici in prossimità di un‘inversione del ciclo economico globale. Ma difficilmente esse arricchiranno chi ci investe: al massimo conserveranno il valore.

E IL GOVERNO RESTA UN’INCOGNITA

In Italia -teoricamente- il governo salta fuori rafforzato dai risultati delle consultazioni. E con l’elettorato che ha gli fornito una chiara indicazione di ciò che gradisce e di ciò che ha apprezzato meno. Ma di fatto il cambio dei rapporti di forza tra i due partiti di governo potrebbe determinare nuove frizioni nel Consiglio dei Ministri e la possibilità di una crisi politica resta concreta. Dunque nessuno è tranquillo e nessun imprenditore è davvero felice. A meno che l’accordo per proseguire sulla strada delle riforme partorisca nuove interessanti iniziative di stimolo all’economia e che queste ultime non vengano soffocate sul nascere dalla classe dirigente europea. Ma i “conservatori” restano in lieve maggioranza ed è difficile sperare in un loro ripensamento.

Staremo a vedere, col fiato sospeso!

Stefano di Tommaso




CONSOLIDAMENTO

Nel corso della settimana che si concluderà oggi il principale indice della borsa americana, lo SP500, è cresciuto di quasi il 4%. Una performance di tutto rispetto che non si vedeva dallo scorso Settembre, principalmente basato sulle buone notizie provenienti dai due fronti caldi per gli investitori anglosassoni: la politica dei tassi di interesse e l’andamento delle negoziazioni commerciali con il grande rivale d’America: la Cina. La settimana è peraltro stata positiva in generale per borse e cambi valute di tutto il mondo per lo stesso motivo.

 

A destra sono riportati i principali indici della borsa americana, mentre la borsa italiana ha anch’essa visto un primo scorcio di settimana al rialzo, ma soltanto dell’1%, come si può leggere dall’andamento dell’indice sotto riportato:

 

 

 

IL 2018, ANNO DEL “PARADOSSO”

Un’importante banca svizzera (Pictet) ha scritto che il 2018 può venire definito dalla parola “paradosso”: dal momento che a un‘ incredibile ascesa dei profitti industriali in tutto il mondo e alla riduzione della tassazione degli stessi che si è materializzata nel corso dell’anno si sono accompagnati frequenti rovesci sui mercati finanziari, i cui indici hanno chiuso l’anno quasi tutti in territorio negativo.

Le azioni americane hanno chiuso l’anno 2018 a -4,4%, quelle europee a meno 10,3%, quelle giapponesi a -10,4% e quelle cinesi addirittura a -22,7%.

Le ragioni di quei rovesci vanno innanzitutto cercate nell’accresciuta volatilità dei mercati, ma anche quest’ultima più che una causa può costituire un sintomo: i rialzi dei tassi di interesse, le tensioni geopolitiche internazionali e la prosecuzione apparentemente irrinunciabile della crescita del debito globale hanno fatto la loro parte nello spaventare gli investitori e i risparmiatori, provocando loro un’accentuata disaffezione per i mercati finanziari e, soprattutto, un‘ appiattimento delle aspettative per il 2019.

SCENARIO PIATTO

Nel corso dell’anno 2019 è infatti opinione comune che la crescita dei profitti aziendali non proseguirà con la medesima intensità, l’economia globale rallenterà la sua crescita e i consumi delle famiglie stagneranno, mentre la zampa delle banche centrali si ritiene che vorrà monitorare molto da vicino l’andamento dei mercati, non tanto per evitare che tornino a crescere in modo vigoroso quanto per il pericolo che a tali rimbalzo possano seguire momenti rovinosi.

Questa specie di “tunnel” imposto dalle banche centrali ai mercati finanziari tanto verso l’alto quanto verso il basso, ovviamente non eccita gli entusiasmi di nessuno, ma d’altra parte ha contribuito a rasserenare gli animi.

LA ROTAZIONE DEI PORTAFOGLI (DA PRO-CICLICI A ANTI-CICLICI)

Dopo una fine d’anno che potremmo definire quasi “rovinosa”, esso ha stimolato una seria riflessione: forse dopo i capitomboli delle scorse settimane i mercati sono finalmente approdati a rive più tranquille, ed è forse tornato il tempo di fare delle scelte, tanto in funzione di un’importante rotazione dei portafogli(in buona parte già avvenuta nello scorso Dicembre: si veda nel grafico qui sotto quali settori ne hanno beneficiato) e in parte per correggere qualche eccesso di ribasso che non si giustifica se non con l‘irrazionalità…

In altre parole sembrerebbe essere tornati in uno scenario da “bambola dai riccioli d’oro” (Goldilocks): non troppo buono e nemmeno troppo pericoloso, che non può che favorire una generale ripresa di fiato degli operatori finanziari.

 

 

QUANTO DURERÀ LA TREGUA ?

Una domanda allora si impone su tutte: quanto durerà la “tregua” ? Ovviamente non lo sa nessuno, ma i mercati si muovono sulla base delle notizie e degli eventi e, in previsione, sono relativamente pochi i sommovimenti che è ragionevole prevedere per l’anno in corso: la geopolitica non fa più paura (lo abbiamo già visto nel mio precedente articolo : “Sussurri e Grida”), anzi potrebbe essere foriera di buone notizie.

I prezzi del petrolio e delle altre materie prime è ragionevole supporre che resteranno infatti relativamente calmi, il ciclo economico positivo sarà pure in esaurimento, ma quantomeno molto lentamente, gli investitori si sono già tutti riposizionati su assetti molto più prudenziali e, apparentemente, il ciclo del credito è già fortemente in regressione, ragione per cui nessuno prevede alcuna esplosione incontrollata dei debiti e, di conseguenza, alcuna crisi di fiducia dei mercati, l’occupazione è ancora in lieve crescita e così non è probabile un crollo dei consumi.

Uno scenario da puro consolidamento insomma, nel quale i gelidi venti freddi della disillusione riducono la volatilità dei mercati e potrebbero aiutare a vederli ricomporre i pezzi, in attesa delle prossime vicende.

 

Stefano di Tommaso




MERCATI SEMPRE MENO PREVEDIBILI

Di motivi per preoccuparsi ce ne sono molti: dalle cosiddette guerre commerciali di Donald Trump ai tassi di interesse che la FED banca centrale americana) vuol far risalire vendendo i titoli acquistati in passato, dalle supervalutazioni dei principali titoli tecnologici all’eccesso di programmi di buy-back (riacquisto azioni proprie) che stanno sostenendo i listini, dai timori per la continua espansione dei debiti di Paesi come il nostro all’eccesso di rialzo delle quotazioni di Dollaro e Petrolio…

L’elenco delle preoccupazioni che dovrebbero aggredire i gestori di portafogli potrebbe continuare a lungo, tenendo presente che tutto ciò sta letteralmente mettendo in ginocchio le economie dei Paesi Emergenti e i loro mercati finanziari. Ma, ciò nonostante, tutto sommato le principali borse dei Paesi OCSE fino ad oggi hanno retto bene, pur mostrando segni sempre più evidenti di convulsioni (volatilità in ascesa) e di incertezza.

ALLA LARGA DAI FINTI “GURU”

I sacri libri di testo affermano che è normale tutto ciò camminando per il viale del tramonto di uno dei più lunghi periodi di rialzo delle borse, e che di conseguenza è tempo di fare i preparativi per l’inverno dei mercati, facendo ruotare i portafogli verso titoli di aziende che producono più cassa, le cui quotazioni sono meno speculative e i cui valori intrinseci sono maggiori. Ma se volessimo dare retta queste indicazioni è probabile che ancora una volta rischieremmo di sbagliare, poiché sono almeno due anni che le borse sono alle stelle e i finti “guru” vanno ripetendo invano che crolleranno.

ANCORA UNA VOLTA CORRERANNO I TITOLI TECNOLOGICI?

La speculazione, che sembra essere il principale attore dei mercati in tutto il 2018, continua a privilegiare i cosiddetti titoli “growth” (alla lettera: “crescita”) che quindi sono costantemente sulle montagne russe ma non sono certo precipitati in basso. Ma anche perché viviamo in un momento di forte crescita economica che supera costantemente le previsioni dei vari Istituti di ricerca (a partire da quello del Fondo Monetario Internazionale) e conseguentemente i profitti aziendali non sono mai stati così grassi e perché l’inflazione stenta a decollare nonostante la decrescita costante della disoccupazione e, soprattutto, nonostante il forte incremento della bolletta energetica (che ne compone una buona parte).

ATTENTI AI TASSI

Chi non si sente pronto a forti emozioni e di esporsi al rischio di forti perdite in conto capitale dovrebbe -continuano i sacri testi- rivolgersi al mercato obbligazionario, puntando su ritorni molto più limitati ma più sicuri. Peccato che, con i tassi in salita, con la curva dei rendimenti che esprime i medesimi ritorni tanto per il brevissimo quanto per il lunghissimo termine e con i rendimenti reali apparentemente negativi che i mercati esprimono, nemmeno i titoli del reddito fisso sembrano promettere bene.

Dunque non è per niente facile orientarsi eppure, con un equilibrio sempre più precario, chi investe qualche scelta la deve fare, perché ancora una volta non è così sicuro che tenere denaro liquido sui conti correnti bancari sia una buona idea.

IL POSSIBILE “RALLY” ESTIVO

Anzi: secondo numerosi autorevoli commentatori e “strategist” delle principali case di investimento (coloro che indicano la linea da seguire agli operatori di portafoglio), c’è ancora spazio per i i principali mercati finanziari per riprendere a correre durante l’estate, sebbene tale corsa si sviluppi sempre più sul filo del rasoio.

Questo perché di denaro in circolazione ce n’è ancora parecchio e alcune banche centrali come quelle Europea, della Cina e del Giappone, stanno ancora immettendone altro, i buy-back continuano imperterriti (mossi dalle casse piene delle aziende) e il boom di petrolio e gas torna a far brillare l’intero settore delle energie da fonti rinnovabili e, soprattutto, perché la digitalizzazione dell’economia globale continua inesorabilmente a generare efficienza sui costi e, in definitiva, tanto valore, il quale mano mano si trasforma (anche) in valore azionario.


UN EQUILIBRIO ALTAMENTE INSTABILE

Il mondo va avanti, insomma, le tigri asiatiche ruggiscono e l’Occidente continua a trarne ampio beneficio, sebbene sia chiaro che l’equilibrio dei mercati finanziari sia sempre più a rischio, che la loro volatilità possa continuare a salire e che un loro significativo ridimensionamento sia sempre più prossimo.

Dal momento che sui mercati non si può continuare a far finta di niente si può cercare di trarre vantaggio dalla situazione cavalcando con gli strumenti derivati la possibilità di guadagnare dalla volatilità crescente, dalla sempre maggiore fragilità dei mercati e dall’ondata ribassista che prima o poi si svilupperà.

COSA FARE ALLORA?

Nel frattempo l’economia reale continua la sua corsa e dunque saranno soprattutto i titoli azionari di aziende pro-cicliche quelli che potranno beneficiarne di più, soprattutto se le loro quotazioni hanno di recente subíto un ridimensionamento. Così come sono ancora una volta i titoli delle imprese che sviluppano nuove tecnologie (come l’intelligenza artificiale, la robotica e i servizi di internet) quelli che potrebbero portare a casa nel breve termine i migliori risultati, sebbene si debba tenere presente che nel lungo termine solo alcune di quelle imprese resteranno vive.

Ci sono fondi di investimento che selezionano solo comparti industriali come questi: inutile dire che le loro quotazioni sono già cresciute moltissimo. Ma con l’ondata di ulteriori fusioni e acquisizioni (siamo giunti ai massimi storici) che si apprestano a “ridefinire” i singoli comparti industriali, il “fai da te” resta ampiamente sconsigliato.

Sui mercati obbligazionari invece è tutta da vedere se i tassi d’interesse continueranno a salire, in assenza (o quasi) di inflazione endemica (cioè non originata da fattori esterni come guerre o shock petroliferi). È persino possibile il contrario, almeno per i tassi a lungo termine, sebbene questo valga molto più per i titoli americani che per quelli europei, la cui divisa di conto potrebbe scivolare ulteriormente a seguito delle tensioni interne.

E’ facile perciò prevedere il contrario per il Dollaro, ma anche per il Franco Svizzero e la Sterlina Inglese, considerati paradisi più sicuri in caso di intemperie, anche se -ricordiamocelo- purtroppo di certezze sui mercati ce ne sono sempre meno!

Stefano di Tommaso