PROVE TECNICHE DI RECESSIONE

La vera novità della settimana è che un gran numero di indici statistici dell’economia reale hanno registrato un andamento debole, in particolare in Francia e ancor più in Germania (che sono al cuore dell’Unione Europea). In Germania l’indice PMI è crollato al livello di 44,7 (ben sotto la parità che è 50) ma anche in America la situazione è peggiore delle attese: l’indice Pmi di Markit sulle aspettative dei direttori degli acquisti delle aziende manifatturiere USA a marzo è sceso da 53 a 52,5 punti, deludendo le attese (53,5 punti) mentre quello Pmi dell’Eurozona a marzo è sceso ai minimi dal 2013. Le borse di tutto il mondo hanno ovviamente registrato con preoccupazione le vicende. Ma di qui a prevedere il peggio ce ne passa…

 

DATI MACROECONOMICI DELUDENTI

La produzione manifatturiera in Europa è inoltre calata del 3% negli ultimi tre mesi rilevati (Novembre-Gennaio), lasciando immaginare perciò che il calo possa persistere ancora per qualche mese. Le cose sono andate meglio per il settore dei servizi (che in Europa conta per il 75% del valore aggiunto), dove l’indice è rimasto sostanzialmente invariato (vedi grafici).


Ma tanto per non farsi mancare niente sono arrivati nel frattempo il voto negativo del Parlamento britannico sull’accordo con l’Unione europea e poco dopo la decisione di quest’ultima di concedere due ulteriori settimane di tempo alla Gran Bretagna per la Brexit: una notizia apparentemente buona ma che in realtà ha rilanciato il corso della Sterlina (deprimendo anche la Borsa di Londra) e riaperto ogni possibile scenario, ivi compreso quello di un nuovo referendum.

Ora ciò che i giornali spesso non chiariscono è che da uno scenario di duro confronto tra Gran Bretagna e Unione Europea ci rimettono più gli esportatori continentali che non quelli d’oltremanica, dal momento che il Regno Unito importa dall’Europa il doppio di ciò che esporta. Dunque la mancata soluzione “soffice” è in realtà una brutta notizia per l’economia reale comunque la si voglia interpretare e l’idea di ancora lunghi mesi di incertezza (in casi di nuovo referendum) non fa che complicarla.

Se si guarda altrove nel mondo si vedono problemi minori di quelli europei, ma pur sempre indicazioni poco rassicuranti (vedi grafico).


L’INVERSIONE DELLA CURVA DEI RENDIMENTI

Alla pletora di cattive notizie macroeconomiche se n’è aggiunta una -diciamo- “segnaletica” che riguarda la definitiva inversione della curva dei rendimenti (vale a dire che i tassi a breve hanno superato quelli a lungo termine, contro l’ordine naturale delle cose che riconoscerebbe un premio di maggior rendimento ai titoli con scadenza più remota) sul mercato più liquido del mondo: quello americano. È storicamente dimostrato che l’America cade in recessione economica all’incirca un anno dopo che questo fenomenosi manifesta (vedi grafico).


TUTTAVIA L’ANDAMENTO SOSTENUTO DEL PETROLIO PONE QUALCHE DUBBIO ALLA PROGNOSI DI RECESSIONE

L’elenco può continuare, dal momento che l’accordo commerciale degli USA con la Cina ristagna, e nel frattempo quest’ultima ottiene successi diplomatici in Europa e consente alla Corea del Nord di mostrare ancora una volta i suoi muscoli, mentre invece il prezzo del petrolio continua a esprimere stabilità e forza, cosa che fa pensare che -sebbene i produttori si sforzino di ridurne l’offerta- la domanda non ne sia stata compromessa dal rallentamento economico in corso.


Gli ostacoli alla continuazione della crescita economica insomma sembrano riguardare più le piccole e medie imprese (Europee in particolare) che non l’intera economia globale, cosa che lascia tutto sommato le borse in una situazione di incertezza (ma non di affanno) e che dovrebbe contribuire ad un maggior coraggio da parte delle banche centrali nel fornire liquidità al sistema bancario affinché incrementino l’erogazione di finanziamenti.

In questo contesto contrastato e con lo spettro della recessione in arrivo i mercati finanziari hanno proseguito con la rotazione dei portafogli acquistando titoli “difensivi”, primi fra tutti quelli delle cosiddette “utilities” cioè le imprese che offrono servizi di pubblica utilità (luce, gas, acqua, trasporti urbani eccetera).

PERCHÉ LE UTILITY

La spiegazione è semplice: il settore industriale dei servizi di pubblica utilità risulta storicamente più performante quando l’economia abbandona lo stadio avanzato della crescita per entrare in stagnazione o in recessione.

Sia perché i tassi d’interesse in discesa producono il massimo beneficio per le utility (scende infatti il costo dell’indebitamento), un fattore importante per il bilancio di società che fisiologicamente ricorrono a un elevato indebitamento per finanziare ricorrenti investimenti fissi.


Ma anche perché diventano più appetibili i loro dividendi (tradizionalmente elevati) derivando da attività consolidate nei servizi di prima necessità il cui fatturato è poco volatile e perciò minore è l’impatto degli alti e bassi dell’economia. Comperare azioni di società operanti nella pubblica utilità non è dunque troppo diverso dal comperare titoli a reddito fisso ed è considerata la classica manovra difensiva di chi investe professionalmente. Dai grafici qui allegati si può notare l’andamento più che positivo (soprattutto in Italia) degl’indici che rappresentano quei titoli:


Anche la marcata crescita delle quotazioni delle utilities è tuttavia a sua volta un segnale di relativa sfiducia nella prosecuzione della crescita economica o quantomeno è l’avvisaglia tipica di una temporanea stagnazione.

Ma se osserviamo l’andamento tipico dei fattori che contribuiscono all’avvitarsi della recessione (rappresentato dal grafico qui allegato) possiamo osservare di essere ancora relativamente lontani dalla cosiddetta “spirale del declino”: i profitti industriali non sono in discesa la deflazione per il momento è lontana, la disoccupazione è addirittura in contrazione e i consumi evolvono in modalità differenti da quelle strettamente consumistiche del recente passato ma non crollano. Dunque lo scenario economico fino a qui visibile è sicuramente un quadro a tinte fosche ma il cui esito è quantomeno incerto e nient’affatto sicuramente negativo per l’anno in corso. In altri termini: non vi sono certezze.


NUOVI STIMOLI ALLA CRESCITA

Spingersi di conseguenza a prevedere cosa succederà oltre l’orizzonte naturale di fine 2019 non è tuttavia così facile: da un lato sono in molti a prevedere la recessione economica nel 2020 (anno tra l’altro bisestile e per questo considerato parecchio problematico per la scaramanzia dei mercati finanziari) e dall’altro c’è che giura che le cose andranno assai diversamente, tanto per la propulsione asiatica e tecnologica alla crescita economica, quanto perché Donald Trump vorrà presentarsi all’appuntamento con gli elettori con un’America in ottima forma finanziaria e cercherà di spingere sugli incentivi fiscali (alle opere pubbliche, agli investimenti e alla piena occupazione) così come sta cercando di fare -nel suo piccolo- il governo giallo-verde italiano. Imprese non facili, dato il contesto generale riflessivo e quindi poco idoneo a recepire appieno misure espansive, ma pur sempre iniziative potenzialmente in grado di “tenere botta” alla fase di maturità del ciclo economico, in attesa che qualcos’altro lo rilanci più vigorosamente.

Le banche centrali sono già peraltro pronte a fare la loro parte con gli stimoli monetari e anche questo è un mezzo segnale positivo. Così come è successo già nei tre-quattro anni precedenti dunque non è escluso che le cose non vadano per il meglio. Possiamo almeno augurarcelo, dal momento che il modo migliore per evitare i danni di una recessione è quello di prepararvisi il più possibile.

Stefano di Tommaso




A PROPOSITO DI CICLI ECONOMICI

Le borse stanno vivendo un momento di traslazione dopo lo scoppiettante inizio del 2019, l’arrivo del quale ha regalato a chi investe una performance che potrebbe essere considerata già valida per tutto il resto dell’anno. Oggi l’economia di carta sembra sonnecchiare senza molti timori, mentre è assai difficile affermare che anche per l’economia reale va tutto bene: i dati macroeconomici non sono affatto rassicuranti e l’intero sistema industriale planetario sembra registrare un rallentamento. E ci si chiede se potrà contagiare anche i mercati finanziari.

 

PERSINO L’AMERICA TEME LA RECESSIONE

I dati statistici parlano chiaro persino in America (la stessa che ancora prevede di chiudere l’anno in corso con una crescita del Prodotto Interno Lordo al 3%, e che probabilmente dovrà presto rivedere quel numero al ribasso): il rallentamento della crescita economica è sotto gli occhi di tutti. Persino la disoccupazione in America rischia di riprendersi, sebbene con il 3,7% sia scesa a poco più di un terzo della nostra, mentre calano la crescita della produzione manifatturiera, i prezzi degli immobili, la fiducia dei consumatori, l’erogazione di credito alle piccole imprese, e mentre il debito pubblico supera il livello di guardia. L’America però sul piatto da poker della crescita economica ha da tempo giocato la sua carta migliore: gli investimenti sull‘innovazione, in molti casi destinati a portare dei frutti persino in caso di recessione.

L’INDUSTRIA EUROPEA GIÀ ARRANCA

Il continente europeo purtroppo non se la cava affatto altrettanto bene. Il governo italiano sta cercando come può di creare nuovi stimoli all’economia ma l’impostazione complessiva dell’Unione tende a limitarne l’efficacia: sarà già un bel risultato se riusciremo a contrastare la frenata delle esportazioni e la diminuzione del potere d’acquisto dei consumatori, facendo terminare l’anno poco sopra la parità.

Frenano pesantemente la crescita economica e un certo malessere delle banche, che soffrono per i tassi bassi e la liquidità che vola oltre oceano. La riduzione del credito alle piccole e medie imprese è particolarmente rilevante in Italia, dove rischia nel 2019 di risultare maggiore di quella registrata nel 2018 (oltre 40 miliardi di euro). I fattori esterni congiurano con gli scontri politici per le prossime elezioni europee, a tarpare le ali all’economia del nostro Paese, sebbene è probabile che anche l’anno in corso risulti positivo per il turismo e l’industria alimentare nazionali.

La Germania è risultata ancor più vulnerabile dell’Italia all’arrivo della recessione nel 2019, non soltanto perché fortemente dipendente dall’andamento delle esportazioni, ma anche perché è risultata troppo esposta all’andamento -non positivo- dell’industria automobilistica, sottoposta a sempre più stringenti regolamentazioni ambientali e al cambio di paradigma che viene imposto dalle auto elettriche. Peraltro le condizioni generali dell’economia-molto migliori delle nostre- hanno fatto sì che i consumi tedeschi sino ad oggi non subissero forti ripercussioni.

 

LE CONTROMOSSE DELLE BANCHE CENTRALI

D’altra parte, proprio perché il timore di una recessione globale è oramai generalizzato, le banche centrali si preparano (tutte) a tornare a immettere stimoli monetari (come il Quantitative Easing o il TLTRO), per cercare di prevenire e contrastare la possibilità di una deriva eccessiva, e questo apparentemente ha ottenuto l’effetto di rassicurare i mercati borsistici, i quali ne risulterebbero beneficiari molto prima che il mondo manifatturiero. Addirittura il Tesoro britannico ha accantonato una liquidità di emergenza del valore di 4 miliardi di sterline, mentre la Banca d’Inghilterra non ha escluso la possibilità di intervenire, nello scenario peggiore -quello del “no deal Brexit- con un taglio dei tassi. L’opinione prevalente è che nel breve termine tali contromisure sortiranno un effetto positivo, soprattutto sul fronte dell’erogazione del credito alle imprese, mentre è meno chiaro cosa possa succedere nell’arco di un anno o più.

LE TEORIE ECONOMICHE NON AIUTANO

In congiunture come quella attuale non c’è allora da stupirsi se -nell’incertezza- tutti gli osservatori corrono a scrutare teorie economiche vecchie e nuove che aiutino a chiarire se sono fondati i timori di essere giunti al termine del ciclo economico espansivo. La crescita economica globale sta soltanto prendendosi una “boccata d’aria” o una nuova tempesta perfetta è in procinto di abbatterla? Come sempre è più probabile che la verità sia nel mezzo, il che però non risulterebbe un granché di buona notizia perché contribuirebbe a rafforzare ugualmente i timori e le perplessità degli operatori economici in procinto di effettuare nuovi investimenti.

Ma rispondere sarebbe più facile se potessimo spiegare perché periodicamente la crescita economica si trasforma nel suo opposto. Quali sono le ragioni determinanti? Questa tendenza alle oscillazioni del pendolo è irrinunciabile oppure si può sperare in una crescita economica prolungata senza preoccuparsene troppo ?

QUATTRO SCUOLE DI PENSIERO

Sono queste le domande cui numerosi economisti hanno tentato di rispondere nell’ultimo secolo, sfornando ipotesi per tutti i gusti di cui vorrei fare soltanto quattro rapidissime citazioni:

  • dalla scuola austriaca che vede nelle manovre delle banche centrali la causa prima del disequilibrio che in prima battuta droga i mercati ma poi porta all’effetto opposto,
  • alla teoria Keynesiana secondo la quale il governo può allentare gli effetti della recessione tagliando le tasse ed aumentando la spesa pubblica.
  • Quest’ultima è contrastata dalla “scuola monetarista” secondo la quale il concetto di ciclo economico è controverso e le sue fasi sono da intendersi piuttosto come fluttuazioni irregolari (per citarne solo alcuni) derivanti dalla maggiore o minore disponibilità di denaro liquido e dalla sua velocità di circolazione.
  • Negli ultimi anni si è poi diffusa la cosiddetta “Modern Monetary Theory”, che vede il governo di ciascuna nazione che possiede sovranità monetaria (non l’Italia, dunque) come un monopolista capace di controllare l’economia con la sua spesa, le sue tasse e il suo debito. In questa logica non importa quale sia il livello del deficit o del debito pubblico, purché l’inflazione sia sotto controllo e si possa raggiungere la piena occupazione. Insomma la negazione della concezione della scuola austriaca.

Morale: sembra proprio che non esista alcuna teoria universalmente valida e condivisa da tutti a proposito dei cicli economici, nè una ricetta che ne derivi consigli utili a prevenire o limitare i danni di una possibile recessione! Se questo è vero è come dire che non ci sono prove che le teorie sul ciclo economico rispondano a verità nè che esistono ragioni universali che ne spieghino l’andamento, e nemmeno una teoria condivisa circa gli arnesi di politica economica da usare di conseguenza.

LE “UNIFORMITÀ RELATIVE” FANNO TREMARE

Eppure se guardiamo al passato, esistono eccome delle “uniformità relative” e degli strumenti per Identificare a quale punto del ciclo economico ci troviamo. Questo perché dopo qualche anno di espansione l’economia di ciascuna nazione è sempre tornata a contrarsi, e questo è ciò che sembra accadere già oggi all’Europa, a prescindere dalle teorie e dalle spiegazioni possibili, così pure ci sono segnali di rallentamento della crescita economica anche in America e ancor più in Cina, esattamente come era avvenuto alla vigilia dei precedenti momenti di inversione del ciclo economico.

Il grafico sottostante (riferito agli U.S.A.) può mostrarci ad esempio che l’andamento della disoccupazione tende a scendere ai minimi poco prima che arrivi una recessione (fascia grigia) per poi risalire bruscamente.


Lo stesso discorso si può fare a proposito dell’indice di fiducia dei consumatori, che si riporta rapidamente in territorio positivo (colore verde) subito dopo la fine di ogni nuova recessione per poi declinare progressivamente mano mano che si prosegue nel corso del ciclo economico espansivo.


Il problema di un tale approccio però è che molte considerazioni valide per ciascuna nazione rischiano di risultare poco valide per il mondo intero, dal momento che le oscillazioni della crescita economica sono quasi sempre sfasate tra una nazione e l’altra.

D’altra parte ciò può essere un bene, dal momento che i veri problemi si manifestano quando tutto il mondo contemporaneamente si avvia verso la recessione, e ciascuna area geografica contagia le altre.

Ci sono peraltro sempre maggiori collegamenti tra i mercati finanziari di tutto il mondo e alcune variabili tendono oramai a oscillare in perfetta sincronia. Si guardi per esempio all’inversione della cosiddetta “curva dei rendimenti”: una tendenza manifestatasi con costanza negli ultimi decenni in tutto il pianeta, alla vigilia di ogni recessione c’è stata infatti una sensibile riduzione (sino all’inversione) delle differenze dei rendimenti finanziari tra il breve e il lungo termine, come è mostrato dal grafico che segue:


Se da un segnale così forte dovessimo dunque dedurne qualcosa in termini predittivi, allora sarebbe piuttosto probabile che il momento attuale esprima la potenzialità dell’arrivo di una nuova recessione, così come è successo quasi sempre in precedenza.

IL DEBITO GLOBALE È FUORI CONTROLLO

Ma il mondo deve anche confrontarsi con una variabile che sembra essere uscita fuori controllo soltanto negli ultimi anni: l’espansione del debito globale. Nel grafico qui sotto ne vediamo le proporzioni: alla fine dell’anno in corso probabilmente conviveremo con un debito complessivo globale che è semplicemente triplicato rispetto a quello del 2003, come mostrato dal grafico che segue:


Una crisi di fiducia prossima ventura insomma trascinerebbe con sè una crisi del debito le cui proporzioni si sono sensibilmente ampliate negli ultimi dieci anni. Difficile ovviamente dedurne delle indicazioni pratiche circa le azioni da intraprendere, tanto a livello pubblico quanto dei propri investimenti privati. E di conseguenza è difficile dedurne delle cautele possibili, ma certamente il contesto macroeconomico in cui ci troviamo sembra premonire -senza precisarne il momento- l’arrivo di una nuova recessione globale e il livello di indebitamento cui si è spinto l’intero pianeta non fa presumere nulla di buono circa la sorte possibile delle attività finanziarie in contesti come quello attuale.

Ma, come appena specificato, nessuno sa quando arriverà quel momento. America e Cina -per motivi politici- concordano fortemente nel cercare soluzioni per prolungare la durata dell’attuale ciclo economico, ma ciò non sarà possibile se il resto del mondo andrà ugualmente sott’acqua (e l’Europa ci è molto vicina).

QUALE DIVERSIFICAZIONE DEGLI INVESTIMENTI ?

Non è un caso che oramai già da qualche tempo gli investitori di tutto il mondo cerchino protezione del valore delle ricchezze amministrate nelle più svariate direzioni della diversificazione degli investimenti, ma in un mondo dove gli andamenti di quasi tutte le attività finanziarie sembrano sempre più fortemente correlati tra di loro, è davvero difficile ottenerla.

Qualcuno dice che quella protezione potrebbe arrivare dal mattone e dalle cosiddette “utilities” (attività economiche di produzione di beni e servizi di pubblica utilità) cioè dagli investimenti anticiclici per eccellenza, qualcun altro dice che tale difesa può trovare attuazione investendo di più sui mercati delle economie emergenti del pianeta (quelle meno colpite oggi dalla speculazione), i quali risentiranno meno di un’eventuale crisi perché hanno meno da perdere e perché la crescita demografica sospinge le loro economie.

Ma la verità è che, sebbene molti dati inizino a parlar chiaro circa la possibilità di una recessione globale, resta molto difficile presagire temporali mentre ancora il sole splende a cielo terso, e che in casi come questo si corre persino il rischio di essere additati per il malaugurio!

Stefano di Tommaso




LA RECESSIONE È GIÀ FINITA?

Una serie di indicatori non-statistici hanno fatto muovere al rialzo i mercati finanziari e quelli delle materie prime da inizio anno dell’8,5% in media nel mondo. Ma mentre per il rialzo dei mercati finanziari si può ragionevolmente ritenere che l’ottimismo attuale dipenda più dal livello della liquidità in circolazione (in questo momento molto elevato) che dalle prospettive macroeconomiche, per la crescita dei prezzi delle materie prime (e in particolare per quella del petrolio) bisogna prendere atto che la loro domanda supera l’offerta nonostante questa stia continuando a crescere. Dunque l’economia globale evidentemente prosegue impetuosa la sua corsa, mentre le statistiche fanno fatica a rilevarne la misura.

 

Si potrebbe obiettare che un paio di rondini non fanno primavera e che le dichiarazioni pro-Opec fatte dai principali produttori di oro nero fanno temere che in futuro l’offerta di greggio potrà ridursi, ma visto che ad oggi non è ancora successo, se la domanda supera l’offerta può dipendere soltanto da due fatti:

 

  • O c’è molta richiesta di petrolio e dunque il prodotto interno lordo delle nazioni non sta affatto rallentando,
  • Oppure la domanda non è poi così forte ma c’è chi sta accumulando riserve di petrolio in attesa che ne cresca il prezzo.

Ma se anche fosse la seconda ipotesi, allora bisogna mettere in conto uno dei due possibili scenari che seguono:

  • O gli speculatori che accumulano stock sono in attesa di una decisa e importante riduzione della disponibilità di petrolio nel prossimo futuro
  • Oppure, OPEC a parte, le prospettive di domanda di petrolio sono comunque più elevate dell’offerta, e dunque nessuno si aspetta una severa recessione economica nei prossimi mesi.

 

E qui veniamo al punto: ricordiamoci che nonostante banchieri centrali, analisti e osservatori economici continuino da almeno un biennio a gridare allo scandalo di quotazioni troppo elevate delle borse, e nonostante le banche centrali abbiano rialzato in qualche caso i tassi e in altri casi ne abbiano annunciato l’intenzione, i rendimenti dei titoli obbligazionari restano bassissimi e gli indici di borsa restano prossimi ai massimi di sempre.

LE BORSE NEL MONDO FANNO +8,5% DA INIZIO ANNO

In passato si era giunti a “giustificare” quei livelli a causa della forte crescita dei profitti industriali e dunque sulla base di decise aspettative di crescita economica globale. Poi negli scorsi mesi qualcuno ha iniziato a dubitarne e, in effetti, nella seconda metà del 2108 una raffica di statistiche ha mostrato una decisa flessione nell’andamento di investimenti e consumi. Eppure le borse non si sono quasi mosse. La discesa delle quotazioni dello scorso Dicembre è oramai un ricordo e persino la borsa di Shangai (quella che era crollata di più nel corso del 2018) da quasi un mese non fa che puntare in alto.

Ora è arcinoto che la prospettiva di una imminente recessione globale, o quantomeno quella di chiazze geografiche di recessione nel mondo porta con se la prospettiva di una riduzione dei profitti aziendali e dunque anche quella di una riduzione aziendali dei valori sottostanti. Ma se andiamo a cercare commenti e previsioni sulla stagione dei profitti in corso, nonostante le aspettative di crescita degli utili aziendali siano in calo, tutti si aspettano che continuino a salire, e non soltanto nel primo trimestre dell’anno, bensì per tutto il 2019.

Questo non significa necessariamente che le borse continueranno a crescere ininterrottamente ancora a lungo, perché molte altre variabili sono ancora in gioco al di là della crescita economica globale, ma evidentemente gli allarmi lanciati negli ultimi mesi dagli organi di (dis)informazione di massa si sono rivelati spesso infondati o anche soltanto esagerati.

LA CRESCITA RALLENTA MA PROSEGUE

Certamente: la crescita economica sta rallentando un po’ dappertutto nel mondo, e in particolare in Europa, ma non sono i fattori congiunturali a frenare lo sviluppo, bensì molto più probabilmente quelli strutturali, come la necessità di ingenti investimenti per proseguire nell’automazione industriale, o quella di ancor più ingenti risorse per le grandi opere infrastrutturali.

Gli investitori sui mercati finanziari restano particolarmente cauti perché si rendono conto della necessità di individuare un nuovo equilibrio finanziario globale nel decennio che è in arrivo, dato l’eccesso di debiti che tutte le nazioni hanno accumulato, l’invecchiamento della popolazione più benestante, la crescente concentrazione della ricchezza in poche fortissime mani, il possibile effetto dirompente delle numerose nuove tecnologie in arrivo.

Ma come si può leggere dal grafico nell’ultimo mese essi sono ritornati a scommettere sulle tecnologie e sui Paesi Emergenti e dunque nonostante le doverose cautele i mercati finanziari viaggiano a gonfie vele, i profitti aziendali continuano (seppur a ritmo più pacato) a crescere, e il lungo ciclo economico positivo globale che nell’ultimo biennio si è sincronizzato un po’ in tutto il mondo, non si è affatto invertito.

Gli unici che forse sono rimasti davvero scornati dalla successione degli eventi più recenti sono invece gli economisti, i ”guru” di ogni sorta e gli pseudo-cartomanti che da anni continuano a suonare le campane a morto sperando di essere ricordati come coloro che avevano annunciato per primi la recessione. Ma anche, probabilmente, tutti coloro che alle attuali notizie (mediamente positive) avrebbero preferito un diverso corso delle vicende politiche e geo-politiche (oggi infinitamente più tranquille di ieri), evidentemente per motivi di loro tornaconto personale. Prima o poi una nuova recessione economica arriverà ugualmente, ma al momento non se ne vedono ancora i contorni all’orizzonte…

Stefano di Tommaso




L’INGANNEVOLE ENFASI DEGLI ORGANI DI STAMPA SULLA MANOVRA ECONOMICA ITALIANA

È dalla metà del 2018, dopo il consolidamento dell’attuale maggioranza di governo, che l’Italia è percorsa da feroci polemiche sulla validità della manovra economica che quest’ultima ha propugnato agli Italiani. Dov’è la verità? Cosa sta succedendo davvero?

 

Per fare luce occorre iniziare col guardare indietro di qualche mese. La polemica politica sulla validità della manovra giallo-verde era già rovente ai blocchi di partenza del nuovo governo (1. Giugno 2018) ed è divenuta poi infuocata nei lunghi mesi in cui la Commissione Europea ha fatto di tutto per contrastarla (trovandosi peraltro chiaramente su posizioni politiche opposte rispetto a quelle del nuovo governo italiano). Mesi in cui l’Italia ha visto lievitare lo spread tra i tassi di interesse sui BTP decennali e quelli sul Bund tedesco di pari durata.

LA MINI-RECESSIONE HA INFUOCATO LA POLEMICA

Lo scontro ad ogni quartiere tra governo e opposizione tuttavia è giunto alle estreme conseguenze di minacce, insulti e all’evocazione di scenari apocalittici quando l’intera Europa continentale (a partire dalla Germania) è caduta in una mini-recessione tecnica proprio nello stesso periodo in cui il governo si insediava (seconda metà del 2018), sebbene le statistiche che hanno rivelato tali numeri (per quasi tutta l’Europa) siano state rese pubbliche solamente dalla fine dell’anno. Pochi commentatori hanno fatto notare che si trattava di un “male comune”.

Oggi -dopo più di un semestre di campagna stampa denigratoria- tutti si chiedono se la manovra di governo (che in buona parte deve essere ancora resa operativa) sia davvero sbagliata e se lo spread, ritornato leggermente in basso ma pur sempre al 2,5% rispetto ai tassi dei titoli tedeschi, non sia la spia di una profonda diffidenza che i mercati nutrono per l’attuale governo. Anticipo qui immediatamente alcune conclusioni del mio articolo: lo spread non è una misura assoluta dell’appetibilità dei titoli italiani, dal momento che, se lo fosse stata davvero, nel secondo semestre del 2018 avremmo visto una fuga dai titoli di stato italiani e il loro tasso di interesse non si sarebbe addirittura ridotto di quasi un punto percentuale.

IL CORO DEL “MAINSTREAM” È CHIARAMENTE CON L’OPPOSIZIONE

A ciò va aggiunto il fatto che le tesi della vecchia classe politica italiana -che oggi si trova in minoranza in Parlamento- vengono tuttavia supportate con vigore dai principali media del nostro e degli altri paesi occidentali, nonché dalle vecchie maggioranze ancora al governo nei paesi dominanti nell’Unione Europea. È anche per questo motivo che l’opposizione -forte dell’imponente schieramento internazionale che la supporta- conta di risultare alla lunga convincente sull‘opinione pubblica circa l’incongruità della manovra e l’inadeguatezza a governare dei vincitori delle elezioni.

Pur essendo evidente che per la maggior parte delle polemiche in corso le opinioni sbandierate da quasi tutti coloro che strillano forte (opinionisti e commentatori delle grandi testate, esperti economici e centri studi di questa o quella associazione) sono tutte spesso orientate a sostenere la pura lotta di fazione a questo governo fatto di “outsiders”, e non sono certo basate su dibattiti seri e autorevoli circa la selezione delle migliori politiche economiche per il nostro Paese, vorrei qui di seguito tentare di affrontare il bandolo della matassa delle accuse alla manovra economica del governo, provando ad analizzarne il contenuto tecnico.

IL DIFFICILE EQUILIBRIO TRA STIMOLI ECONOMICI E VINCOLI EUROPEI

Partiamo da un dato di fatto difficilmente controvertibile: le politiche economiche vagamente neo-keynesiane cui si sarebbe ispirato per più di 4 anni (febbraio 2014-maggio 2018) il precedente duetto di governo (Renzi-Gentiloni), non soltanto non si sono rivelate molto efficaci in termini di rilancio dell’economia pur essendo state avanzate in tempi di piena espansione economica globale, ma se da un lato hanno prodotto qualche incentivo alla crescita della produzione industriale e alla riduzione della disoccupazione, dall’altro lato hanno fatto crescere a dismisura la tassazione per lasciare intatta la spesa corrente dello Stato e mantenere altresì il rispetto del forte vincolo di bilancio richiesto dalla Commissione Europea.

Anche un bambino però comprende che è molto difficile coniugare crescita economica e crescita dell’imposizione fiscale e che, al primo soffio di venticello a livello internazionale, l’unovirgola di crescita dell’Italia sparisce come neve al sole. Quel che dunque le nuove forze politiche stanno sperando di realizzare è un mix tra qualche taglio alla spesa pubblica insieme a qualche incentivo ai consumi (vedi il reddito di cittadinanza e le pensioni agli esodati della legge Fornero) e agli investimenti (vedi la Flat Tax e altre misure di contenimento della tassazione).

L’equilibrio tra le diverse esigenze senza andare in totale rotta di collisione con gli altri membri dell’Unione Europea è anch’esso difficile, come lo era quello del precedente governo, ma lo è ancor di più senza arrivare ad incrementare il deficit dei conti pubblici, che questo governo spera di ottenere con l’avvento -in primavera- di una maggioranza politica diversa in Commissione Europea. Ricordiamoci il benestare appena fornito dalla Commissione Europea alla stessa istanza promossa dalla Francia, senza un battito di ciglia, per il solo fatto che lo ritiene uno Stato “più affidabile”.

GLI USA HANNO TIRATO DRITTO E I FATTI HANNO DATO LORO RAGIONE

Negli Stati Uniti d’America, dove la banca centrale non doveva chiedere permesso ad alcun governo straniero nel finanziare il proprio deficit pubblico, la manovra di taglio delle tasse è stata portata avanti con coraggio (per il deficit dei conti pubblici che essa genera) ed è risultata tuttavia in un puro successo, rilanciando non poco la crescita economica americana e ancor più sbaragliando letteralmente la disoccupazione, mentre il timore prevalente, all’epoca come anche oggi, di una fiammata inflazionistica come risultato di una “politica fiscale” troppo espansiva, si è rivelato -a due anni di distanza- del tutto infondato.

E poiché l’unico timore che tratteneva anche la banca centrale americana (la FED) dall’accompagnare tale politica espansiva (l’inflazione appunto) è caduto, anche la politica di rialzo dei tassi americani portata avanti fino a tutto il 2018 dalla FED è stata oggi stoppata (quasi) definitivamente, riportando le quotazioni delle borse quasi ai massimi di sempre. La lotta politica prosegue spietata anche oltreoceano ma intanto l’America si riempie la pancia e toglie dalla strada i senza lavoro.

IN EUROPA TUTTO È PIÙ DIFFICILE

Certo, la guardia degli investitori resta (e deve restare) molto alta perché il mondo convive con uno spropositato livello di debito che dal punto di vista storico è un inedito e che molti temono possa riportare indietro di un secolo il calendario dell’occidente se non attentamente monitorato. Per lo stesso motivo nemmeno l’Europa del dopo elezioni comunitarie potrà allegramente disinteressarsene, ma certo il problema del vincolo di bilancio rende quasi inattuabile qualsiasi politica economica italiana che provi seriamente a favorire la crescita.

Al sottoscritto come a molti altri -pur senza parteggiare per alcuna fazione politica- non piace perciò la situazione di perenne concerto di voci contrarie alla manovra del governo e il coro di coloro che continuano a dichiarare ai giornali che la maggioranza parlamentare di quest’ultimo cadrà prestissimo. Viene il dubbio che se al governo fosse andata qualsiasi altra forza politica nuova sarebbe successo esattamente lo stesso. E l’aver rinunciato a parte della nostra sovranità nazionale senza aver completato l’integrazione europea, anzi avendo lasciato in vita il vecchio debito pubblico, resta un vero e proprio cappio al collo per chiunque volesse seriamente tentare di rilanciare l’economia nazionale.

EPPURE QUALCOSA BISOGNA PUR FARE

Ma poiché a farne le spese come al solito sono e saranno le classi e le regioni più deboli, che risultano essere anche quelle che meno possono far sentire a Roma la loro voce, ecco che la ricerca di ricette valide per riprendere la strada della crescita economica italiana diviene (anche) un’emergenza umanitaria per oltre un terzo della popolazione e la necessità di arrestare l’emorragia di cervelli e capitali di cui sono affette anche le regioni del Nord.

Un’emergenza su cui occorre arrivare a concentrare l’attenzione di tutti, forse in qualche misura paragonabile a quella dei migranti africani, che i media ci rammentano invece tutti i giorni dell’anno.

 

Stefano di Tommaso