E’ FINITA LA GLOBALIZZAZIONE?

LA COMPAGNIA HOLDING
La globalizzazione si è interrotta. La frase è divenuta il mantra di questi ultimi giorni e non soltanto perché lo ha detto Larry Fink (CEO di BlackRock e uno dei più influenti opinion maker degli USA. Siamo tornati alla “cortina di ferro”? Sembra di si, almeno con la Russia. Ma neanche con la Cina le acque sembrano calme. Se poi l’America chiudesse un accordo con l’Iran (stato islamico sciita) raggelerebbe i rapporti con l’intero medio oriente (che invece è islamico sunnita e perciò fortemente rivale). Il mantra della de-globalizzazione deriva perciò dall’acuirsi delle tensioni geopolitiche, salite nei giorni scorsi ben al di là dei normali livelli di guardia, che costringono ogni nazione a schierarsi e a organizzare il “re-shoring” delle produzioni essenziali.

 

IL RUOLO DEL “MAINSTREAM”

La guerra fredda sembrava un ricordo sbiadito della contrapposizione tra capitalismo e comunismo, fino a trent’anni fa. Oggi si è invece tornati insistentemente ad agitarne lo spettro. La caccia alle streghe è cioè di nuovo forzosamente in voga, sebbene senza più alcuna valenza ideologica. Oggi i russi non sono più comunisti ma sono definiti carnefici come allora. E, come allora, a influenzare l’opinione pubblica sono i media appartenenti al c.d. “mainstream”: cioè quell’insieme di giornali telegiornali, blog e dibattiti che vanno tutti nella stessa direzione politica. Neanche questo accadeva così palesemente da tempo in Occidente!

D’altra parte non serve sottolineare le differenze culturali e ideologiche per invocare lo sdegno collettivo dei nostri cittadini. Carri armati e missili che penetrano in un territorio dove -almeno in apparenza- prima regnava la democrazia, appaiono argomenti più che sufficienti per far lavorare i “persuasori occulti” (viene in mente l’omonimo saggio del 1957 di Vance Packard) a scaldare gli animi, alzare l’allarme, inneggiare al riarmo e insultare i leader politici e militari avversari. Insomma se la tensione tra gli stati è alta, i media la esacerbano.

COSA NE POTRA’ CONSEGUIRE ?

Così va il mondo, o almeno così va il mondo occidentale, dal momento che nessuno in occidente riporta le opinioni espresse dai leader dell’altra parte del mondo, cioè della Cina, del sud-est asiatico e dall’India, che non sembrano essere affatto allineate al “pensiero unico” occidentale. Comunque la si pensi dunque, non possiamo che constatare una consistente e crescente spaccatura tra Oriente e Occidente che nasce dalla geopolitica, ma che diviene oggetto di guerra economica e mediatica e può tradursi in una iattura assai generalizzata.

E qui viene il bello, perché al di là di qualche vuoto slogan, la verità è che nessuno al di fuori delle stanze del potere poteva prevedere che la tensione sarebbe salita così tanto. Né può affermare con certezza cosa succederà da adesso in avanti. Sicuramente occorre constatare il fatto che l’Oriente del mondo (con l’eccezione del solo Giappone) sembra a sua volta essersi compattato in senso opposto.

Si continua a sperare in una rapida soluzione al conflitto esploso da un mese, ma le ragioni di questo conflitto risalgono a molto tempo addietro. E probabilmente, per lo stesso motivo, non esso si risolverà così in fretta come vorremmo sperare. Quello che invece sarà più probabile sarà una sua pausa. Un “cessate il fuoco” per consentire alle parti di trovare soluzioni negoziali.

CAMBIERANNO LE FILIERE INDUSTRIALI…

Se davvero però nel frattempo dovremo fare i conti con la necessità di estrarre altrove nel mondo le materie prime e i semilavorati di provenienza russa o cinese l’economia globale avrà guadagnato un bel dilemma. Si dichiara di voler estrarre sempre più altrove gas e combustibili fossili, di voler creare in Occidente fabbriche sempre più integrate verticalmente (cioè capaci di lavorare l’intera filiera, dal trattamento delle materie prime al prodotto finito), ma tra il dirlo e il farlo passeranno anni!

LA COMPAGNIA HOLDING
Se dovremo dire addio (almeno parzialmente) tanto alle forniture di materie prime e derrate alimentari, quanto ai mercati di sbocco dei paesi orientali ed asiatici, sino ad arrivare alla segregazione dell’Oriente dall’Occidente, allora si che saremmo a un passo dalla terza guerra mondiale e allora sì che saremo finiti nel pieno di una nuova guerra fredda. Si perché il costo di tale riconversione si farà sentire. E provocherà conseguenze di lunga durata.

… E SALIRÀ LA SPESA MILITARE

LA COMPAGNIA HOLDING
La contrapposizione appena citata forse si potrà giungere ad evitare, ma nel frattempo dovremo probabilmente assistere ad una forte ripresa delle spese militari, e ad un ingente spreco di risorse nella duplicazione di scienze e tecnologie per far sì che i paesi appartenenti ai due schieramenti (Oriente e Occidente) si confrontino a distanza senza mettere a fattor comune le competenze e rallentando, di fatto, lo sviluppo economico globale.

EUROPA E PAESI EMERGENTI SUBIRANNO I DANNI MAGGIORI

Un altro grande, terzo incomodo di questa guerra è l’intero coacervo dei paesi emergenti, le cui economie sono già oggi in ginocchio per la rivalutazione del dollaro e per i rincari delle materie prime, che spesso non vanno in tasca loro, mentre i maggiori costi di tutto ciò che le loro popolazioni acquistano (a partire dagli alimenti) si toccano subito con mano. Un bel problema per molte nazioni che iniziavano soltanto adesso a tirarsi fuori dalla povertà diffusa, che risale addirittura allo scoppio della pandemia e che sta divenendo un dramma con le nuove tensioni.

LA COMPAGNIA HOLDING
Ancor più pesante sarà il bilancio di sostenibilità globale, poiché in nome dell’indipendenza energetica, della necessità di sostenere le spese per gli armamenti, e dell’urgenza di rimpiazzare parte del commercio internazionale con produzioni domestiche sempre più automatizzate (per evitare di produrre con eccesso di costi), dovranno giocoforza rallentare o essere rinviati gli altri investimenti: quelli per l’economia circolare, la transizione verso energie “verdi”, le nuove infrastrutture digitali, e per ristabilire pari opportunità.

Ma è eclatante lo iato che si sta aprendo in questo momento tra Europa e America, e che non potrà che accentuarsi. A parte il diverso andamento dell’economia, lo si è visto anche in queste ultime ore: mentre nell’Unione Europea entravano due milioni di profughi ucraini, a Holliwood si celebrava la notte degli Oscar!

MA SARA’ L’INDUSTRIA A DOVER CAMBIARE MAGGIORMENTE

LA COMPAGNIA HOLDING
L’incremento del prezzo delle materie prime e dell’energia rischia poi di provocare i più forti sconquassi soprattutto nell’apparato industriale europeo. Il più tecnologicamente arretrato e il più dipendente dalle importazioni. Nei due grafici sopra riportati si può toccare con mano la crescita dei costi industriali e in quello qui sopra manca tra l’altro l’ulteriore forte impennata dei costi energeticinel primo trimestre 2022.

L’incremento di questi costi va ad erodere immancabilmente i margini di profitto industriali. E con il rincaro progressivo anche dei prezzi dei prodotti finiti, si può facilmente prevedere che -almeno in Europa- i consumi tenderanno a restringersi, e numerosi posti di lavoro salteranno, generando nuova necessità di assistenza sociale (che i bilanci pubblici faranno molta fatica a sostenere). Insomma il rischio che un’inflazione dettata dalla scarsità di offerta provochi una frenata generale dell’economia è materialmente tangibile. Ma è anche molto difficile evitarlo. I prezzi dei fattori produttivi avevano già iniziato a lievitare con i problemi derivanti dalla restrizione ai movimenti imposta dal virus. Oggi sono letteralmente esplosi.

IL RUOLO DELLE BANCHE CENTRALI

Di fronte a tale congiuntura si può sperare che le banche centrali abbandonino presto l’attuale orientamento verso nuove restrizioni monetarie, atte a contrastare l’inflazione. Per evitare di esasperare esse stesse la stagnazione economica cioè, esse dovranno tornare ad assecondare con nuova liquidità le necessità dei governi e degli operatori economici privati di sostenere la spesa pubblica e gli investimenti. Con buona pace per l’inflazione, che è probabile non cederà il passo, visto che alla sua origine ci sono soprattutto limitazioni nell’offerta dei beni e non eccesso di domanda degli stessi. Nel grafico sotto riportato si può leggere a livello globale tanto il calo (superiore al 20%) dei livelli medi delle borse da inizio d’anno a questa parte, quanto (e soprattutto) il principale fattore che l’ha determinato: il calo della liquidità disponibile sui mercati. Con il rischio che il trascinamento verso il basso prosegua.

LA COMPAGNIA HOLDING
Almeno in Europa insomma, lo spettro della “stag-flazione” si paleserà, quantomeno durante la prima metà dell’anno in corso. E si rifletterà, altrettanto probabilmente, in un innalzamento dei tassi di interesse anche qualora le banche centrali dovessero spingere sull’allenamento della liquidità in circolazione. Se cioè fino a ieri si poteva immaginare che inflazione e incertezza avrebbero frenato la crescita, con la crescita della tensione internazionale la situazione si aggrava ulteriormente e si prospettano in definitiva due grandi alternative:

GLI SCENARI POSSIBILI

  • Da un lato potrebbe succedere che la necessità di aumentare l’efficienza dell’industria e soppiantare le (scarse) materie prime energetiche di derivazione fossile scateni una vera e propria corsa agli investimenti, almeno in tutto l’Occidente, che da sola arrivi essa stessa a contrastare il rallentamento nei consumi e nella disponibilità di materie prime e “commodities” (cioè derrate alimentari). In tal caso assisteremmo di fatto ad una ulteriore accelerazione dell’introduzione di nuove tecnologie, le quali provocherebbero a loro volta l’accelerazione dei processi di trasformazione dell’industria, ulteriori passi avanti verso la digitalizzazione collettiva, e la definitiva sepoltura di molte arti, mestieri e piccole produzioni del passato. Lo scompiglio non mancherebbe ovunque nel mondo ma ci potrebbero essere anche effetti positivi derivanti dallo slancio e dagli investimenti. Uno dei quali potrebbe essere un relativo allentamento delle tensioni geopolitiche, in funzione della possibile mutua convenienza di Oriente e Occidente a fare qualche passo di riavvicinamento.
  • Dall’altro lato invece potrebbe succedere che la mancanza di fiducia nelle prospettive di rappacificazione, la nuova disoccupazione e la riduzione forzosa dei consumi in funzione del ridotto potere d’acquisto delle classi meno agiate agiscano da freno sull’economia, mandandone in stallo la crescita. Così come potrebbe accadere che le banche centrali arrivino a decidersi a fare marcia indietro troppo tardi, quando la recessione sarà stata oramai innescata. O potremmo assistere ad una “escalation” e ad un allargamento territoriale del conflitto armato oggi confinato alla sola Ucraina. In tutti questi casi lo iato con i paesi orientali si accentuerebbe, e sarebbe soprattutto l’Eurozona quella che finirebbe col subire il più clamoroso arretramento rispetto alle nazioni orientali (tra cui anche il Giappone) come Cina e India. In uno scenario del genere anche le contrapposizioni politiche si radicalizzerebbero, con il rischio di una più profonda spaccatura tra Oriente e Occidente.

Nemmeno l’Asia potrebbe beneficiare troppo da ciò che dovesse conseguire al secondo scenario, dal momento che verrebbe seriamente a mancare a quelle nazioni non soltanto la tecnologia occidentale, ma anche una parte importante degli attuali mercati di sbocco. Mentre nel primo scenario, al di là del gioco distruttivo delle sanzioni e delle possibili rappresaglie, si può ben sperare che il commercio internazionale subisca soltanto dei ritardi. Cioè che insomma la globalizzazione cambi sì, ma non si estingua del tutto.

LA GLOBALIZZAZIONE E’ DUNQUE FINITA? DIPENDE…

In definitiva, in risposta alla domanda iniziale (la globalizzazione è finita?) vi è un immancabile “dipende”! Forse soprattutto da Washington, che continuerà a deprecare l’uso dei carri armati russi e le morti provocate dalla guerra ma che potrebbe anche trovare una convenienza (interna ed esterna agli USA) in una tregua, una schiarita. Ma dipende anche da Mosca, che possiamo presumere difficilmente abbandonerà la campagna militare in corso in cambio di qualche blanda promessa di neutralità ucraina.

Cosa succederà nel frattempo non è chiaro. Perché -finché va avanti- l‘orrore di morti e distruzioni provoca indubbiamente danni alla Russia, ma anche all’Europa che si chiede se continuare ad alimentare il conflitto. E si è visto nelle ultime ore che provoca anche danni all’amministrazione Biden, che rischia di scadere nell’opinione pubblica interna. Dunque sta crescendo l’interesse di tutti per la ricerca di una soluzione negoziale.

UNA SOLUZIONE NEGOZIALE E’ POSSIBILE, ANCHE A BREVE

L’attuale congiuntura insomma sembra dunque nera, ma le forze in campo potrebbero anche finire per congiurare verso una svolta decisiva. La storia insegna che nulla è mai definitivo, e che in molti casi le più tristi previsioni possono essere clamorosamente smentite. Anche l’attuale ottimismo delle borse internazionali non fa che anticipare la probabilità di una soluzione negoziale. Ma potrebbero venire smentite dai fatti, viste l’apparente poca lungimiranza dell’attuale presidente americano e l’ostinazione del presidente russo.

LA COMPAGNIA HOLDING
Certo, anche qualora una soluzione negoziale fosse trovata e applicata in fretta, i danni che derivano dalla campagna mediatica contro la Russia e le sue èlites interne, non svaniranno altrettanto in fretta. L’Occidente ha mostrato molta caparbietà nella gestione politica del suo rapporto con la Russia a proposito dell’Ucraina e il risultato economico di tale atteggiamento sarà quasi certamente il permanere di elevati costi di derrate e materie prime (cioè inflazione), una probabile stagnazione economica e un altrettanto probabile calo dei profitti dell’industria.

MA SARA’ DIFFICILE INVERTIRE LA RI-LOCALIZZAZIONE

Neanche per il resto dell’Occidente dunque (America in primis), visto che al momento ne ha tratto quasi soltanto svantaggi, sarà così facile invertire la rotta e tornare a invocare la ripresa del commercio internazionale. Lo shock da crisi di offerta di beni e servizi potrebbe andare avanti abbastanza a lungo, che vi sia o meno una schiarita nei rapporti geopolitici. E se l’inflazione continuerà a mordere allora anche i tassi d’interesse occidentali continueranno a salire, che le borse valori crescano o meno (una parte infatti della mancata discesa dei titoli azionari è infatti dovuta alla migrazione degli investitori dal reddito fisso alle borse).

E con la risalita dei tassi, la questione della sostenibilità dei debiti pubblici globali tornerà in grande evidenza, generando ulteriore scompiglio e il raffreddamento della loro appetibilità per i gestori di patrimoni di tutto il mondo. La guerra cioè potrebbe questa volta non rafforzare più il Dollaro americano, così come è successo quasi sempre in precedenza. Basterebbe infatti che la Cina liquidasse una piccola parte dei titoli di stato americani accumulati sino ad oggi, per creare il problema. Né ovviamente ne beneficherebbe la divisa unica europea, che rischia una vera e propria svalutazione indesiderata proprio mentre si appresta ad acquistare altrove materie prime e commodities.

CONCLUSIONI & PREVISIONI

Lo scenario più probabile insomma, sarà quello dell’incremento degli sforzi per trovare -almeno provvisoriamente- soluzioni di compromesso, onde evitare l’allargamento della guerra. Ma ciò difficilmente sanerà il clima di sfiducia che si è creato, che potrebbe far molto male al commercio internazionale e allo sviluppo economico mondiale. Da questo punto di vista abbiamo probabilmente già oltrepassato la linea di non-ritorno: la globalizzazione che abbiamo conosciuto negli ultimi trent’anni appare perciò irrimediabilmente compromessa.

LA COMPAGNIA HOLDING
Al suo posto potranno tuttavia instaurarsi nuove e diverse forme di collaborazione internazionale, principalmente nella condivisione di parte del know-how (quello non considerato rilevante per la sicurezza delle nazioni) e nella concessione di licenze produttive e di software. Ma la spaccatura che si è creata con il blocco orientale non si riassorbirà così in fretta. L’inflazione potrebbe permanere a lungo e danneggiare irreparabilmente molte attività economiche legate alle tecnologie del passato, o al leisure, all’ entertainment, al turismo e alla produzione di beni voluttuari. Saliranno anche i prezzi degli alimenti, ma probabilmente non abbastanza da compensare i maggiori costi di produzione.

Potrebbero invece tornare a guadagnare terreno i produttori di automazione industriale, la farmaceutica, l’imprenditoria digitale, gli sviluppatori di nuove tecnologie per il risparmio energia, per la sua produzione da fonti rinnovabili, i programmatori di sistemi di sicurezza e di intelligenza artificiale. Anzi, quest’ultima probabilmente costituirà la prossima grande occasione per rilanciare l’economia globale. Così come potranno beneficiare dell’inflazione i prezzi dei beni rifugio (a partire dall’oro fino a tutti gli altri metalli pregiati) sino agli immobili.

Anche per questi motivi è probabile tuttavia che la disoccupazione tornerà ad allargarsi, colpendo quella parte della popolazione che sperava invece di contare sull’assistenza sociale e che si ritroverà con poca capacità di spesa a causa delle crescenti difficoltà dei bilanci statali. E’ possibile appunto che per qualche tempo di conseguenza i salari si appiattiranno e che i consumi collettivi si restringeranno, almeno per la popolazione di età più avanzata.

Si, è possibile che per giungere a una nuova fase della sua evoluzione l’umanità debba passare da un certo travaglio. Ma è anche possibile che questo sia più breve di quanto possiamo immaginare. Come al solito dipenderà dalle volontà umane, politiche e militari.

Stefano di Tommaso




ECONOMIA DI GUERRA

LA COMPAGNIA HOLDING
Un vecchio proverbio africano dice che quando gli elefanti litigano sono le formiche che si fanno male: ebbene con questa guerra in Ucraina dove il vero scontro è con con gli USA, sono le popolazioni che ne stanno pagando il conto, in Ucraina ma anche in Europa, dal momento che ha generato rialzi dei prezzi di qualsiasi materia prima, con ricadute insopportabili persino per i paesi emergenti. Per l’inflazione poi l’impressione è che il peggio debba ancora venire! E l’Italia appare come uno dei vasi di coccio più deboli nello scontro tra quelli di ferro, con tetre prospettive di ripiombare in recessione.

 

DOVE ARRIVERÀ L’INFLAZIONE…

Stiamo iniziando a fare il callo sui rincari che fioccano in ogni direzione da qualche settimana a questa parte ma, abituandoci, rischiamo di perderne il conto. Le statistiche tendono a minimizzarli citando un’inflazione al 5-6%. Purtroppo però non esiste un prezzo, tra quelli dei beni di consumo della vita quotidiana, che non sia cresciuto ben di più! Quando va bene siamo al +10%. Ed è accaduto solo da inizio d’anno! Per l’energia elettrica siamo arrivati a 600 euro al megawatt, cioè a quasi 5 volte il prezzo fino all’estate scorsa. Lo scorso Gennaio i costi di produzione delle aziende italiane sono saliti del 32,9% anno su anno e, ovviamente l’indice della produzione industriale ha subìto un calo del 3,4% rispetto a dicembre (cioè ancora peggio su base annua).

L’ISTAT fa ancora la media dei prezzi con quelli (rarissimi) che non sono quasi cresciuti, come le sigarette nazionali, il sale, l’acqua minerale, ma anche le pensioni e gli stipendi. Ma nell’anno il conto salirà. A meno di ipotizzare che, dopo la fiammata dei prezzi da inizio anno ad oggi, l’inflazione -come d’incanto- si fermerà per il resto del 2022. Se parliamo di carne, latte, uova, formaggio, pane (il grano poi è letteralmente esploso!) e via dicendo, con ogni probabilità saremo fortunati se ci fermeremo a prezzi più alti di un quinto rispetto a quelli dell’anno prima (20%). Cioè a un’inflazione di stampo sudamericano. Insomma l’inflazione, comunque la calcoliamo, attualmente non viaggia a meno del 10%.

Ma a questo numero bisognerà sommare gli effetti (ancora da venire) dei rincari sulle materie prime conseguiti alla guerra (iniziata 3 settimane fa). I maggiori costi della produzione non si sono ancora scaricati a valle su quelli dei prodotti finiti. Dunque, se proprio dovesse andare molto bene, è probabile che i nuovi rincari del petrolio (passato in queste 3 settimane da meno di 100 USD al barile a oltre 130, con il dollaro americano che per di più si è anche rivalutato sull’euro) si tradurranno alla fine per almeno un terzo in ulteriori rincari dei beni di consumo. Cioè un altro 10% si aggiungerà nei prossimi mesi al +10% reale che abbiamo già totalizzato nei primi due mesi dell’anno.

Ne consegue che il totale dell’inflazione dei prezzi nell’anno 2022 sarà molto più vicino al 20% che non al 10%. A meno -appunto- di magìe politico-fiscali non ancora identificabili al momento o -ancor più magicamente- a meno di ritorni alla normalità dei prezzi di petrolio, gas e altre materie prime, che per il momento sono fantascienza. L’unico paragone storico è con quanto accadde nella prima metà degli anni ‘70, dopo la crisi petrolifera conseguente alla guerra del Kippur (settembre ‘73). Ricordate quali sofferenze ne derivarono? Quante limitazioni furono introdotte, quanti problemi finanziari? E come si svilupparono dì conseguenza le contestazioni giovanili, la rivolta sociale, l’estremismo, il terrorismo e la disoccupazione?

LA COMPAGNIA HOLDING
…E CHI NE PAGA IL CONTO

Dal momento poi che risulta decisamente improbabile che le retribuzioni salariali cresceranno altrettanto velocemente, ecco chiarito sulle spalle di chi andrà a gravare il prezzo della guerra, della retorica politica e delle sanzioni dell’occidente alla Federazione Russa. Ovviamente su quelle di operai, ambulanti, artigiani e impiegati di ogni livello non dispongono di un ufficio stampa, né di un centro studi, per contrastare gli annunci del “mainstream” (cioè il coagulo di stampa, tv, radio e notiziari online). Coloro che dovrebbero rappresentare le classi più disagiate si sperticano invece a ossequiare il “partito della guerra” e vengono poi scoperti a fare grandi affari con le multinazionali (absit iniuria verbis). Ma l’inflazione a doppia cifra invece è reale, e la cinghia dovremo stringerla ugualmente.

Come se non bastasse poi, chi ci rimetterà di più saranno le imprese, molte delle quali dovranno tagliare posti di lavoro e rivedere i programmi di sviluppo, perché difficilmente riusciranno a ribaltare i rincari sui prezzi di vendita. Dovranno quindi tagliare costi di ogni genere, come il personale non necessario, o quelli rappresentanza, comunicazione, i servizi non essenziali e, magari, dovranno rimandare gli investimenti a tempi migliori perché la liquidità scarseggerà e anche la riscossione dei pagamenti sarà più difficoltosa e perché il credito alle imprese sarà centellinato (e non senza una ragione). Molte imprese quindi salteranno in aria, o faranno di tutto per restare in piedi per un po’, per poi aggregarsi.

LA COMPAGNIA HOLDING
Nonostante quanto indicato nel grafico qui accanto, la settimana scorsa la Banca Centrale Europea ha abbassato di nuovo le stime di crescita del PIL dell’Eurozona ad un mero 2,3% per il 2022. Ma sappiamo tutti che verranno probabilmente riviste ancora, perché le statistiche e i dati tendenziali stimati dagli uffici studi possono soltanto riportare i dati già rilevati, non quelli che stanno materializzandosi in questi giorni.

LA COMPAGNIA HOLDING
Per non parlare poi degli USA, dove le statistiche sono un po’ più oneste (per l’inflazione siamo già arrivati al 12%), il paragone con i dati storici è feroce: come si può leggere nel grafico qui riportato infatti, se proviamo a invertire l’andamento dei prezzi (maggiori i prezzi più scende la linea rossa) possiamo trovare un’evidente concomitanza storica della maggior inflazione con il rallentamento dell’economia. Cosa che inevitabilmente sta succedendo anche da noi.

LE IMPRESE PIÙ PICCOLE SPARIRANNO

La tecnologia peraltro ha fatto passi da gigante nel minimizzare i costi di produzione di praticamente qualsiasi cosa. Ma bisogna tenere conto di due fattori che stanno cambiando il mondo: 1) gli investimenti in tecnologia costano, e si applicano meglio alle grandi dimensioni aziendali (le cosiddette “gigafactories” sono già una realtà), con il rischio che ne vengano tagliati fuori tutti gli operatori più piccoli o meno dotati di risorse da investire; 2) una ristretta cerchia che controlla materie prime, energia e risorse naturali ne impone un costo sempre più elevato, contrapponendosi alla discesa dei prezzi dei prodotti finiti.

E ora che uno dei maggiori produttori di materie prime al mondo come la Russia è stato tagliato fuori dai circuiti internazionali dell’offerta, questa si restringe e spinge al rialzo i prezzi della domanda che resta parzialmente insoddifatta. Russia e Ucraina pesavano per il 53% dell’ export globale di ghisa, per il 27% di nickel, il 14% dei fertilizzanti, il 17% dell’uranio e il 32% dell’uranio arricchito (e nel calcolo manca il Kazakhstan che è sempre nell’orbita russa).

Morale: il taglio necessario di costi, derivante dall’esigenza di mettere sul mercato prodotti ancora accessibili al grande pubblico, le cessioni d’azienda, i fallimenti e le varie iniziative che si renderanno necessarie per riequilibrare i conti economici dell’industria, genereranno probabilmente una nuova ondata di “globalizzazione”, la terza, dopo quella derivante dalla digitalizzazione (anni ‘90) e quella conseguente all’ultima pandemia.

Occorre tuttavia notare che gli effetti negativi delle manovre che si renderanno necessarie per contenere i costi di produzione si faranno sentire molto presto: meno occupati diretti delle imprese e anche meno occupati indiretti (terzisti, cooperatori, piccoli artigiani, trasportatori, manutentori e fornitori di servizi vari). Meno investimenti significheranno poi meno lavoro per tutti gli altri: gli impiantisti, i fabbricanti di macchinari e sistemi, gli installatori e tecnici di ogni genere.

ITALIA: ADDIO RIPRESA, NONOSTANTE GLI STIMOLI

L‘attuale spirale inflattiva derivava già tuttavia dalla scarsità di offerta che risale alla ripresa dell’inizio 2021. E ha comportato rincari di energia, materie prime e semilavorati. A questa scarsità di fattori di produzione si aggiungerà adesso anche scarsità di prodotti finiti, perché la razionalizzazione delle attività produttive passerà per un taglio di quelle che non sono massimamente efficienti. Dunque a scarsità di offerta non potrà che sommarsi altra scarsità, con effetti macroeconomici depressivi. La crescita economica italiana, che speravamo andasse ben oltre il rimbalzo parziale del Prodotto Interno Lordo dopo i ripetuti lockdown del 2020 e inizio 2021, con ogni probabilità si fermerà quindi del tutto nel corso dell’anno.

E ciò nonostante i numerosi stimoli allo sviluppo posti dall’arrivo dei primi fondi del programma Next Generation EU, gli acquisti di titoli di stato da parte della Banca Centrale Europea, gli incentivi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, le garanzie di stato a favore del credito alle imprese, lo sviluppo del mercato dei capitali. Figuriamoci senza come sarebbe andata! Il nostro resta un Paese dove all’incirca la metà del Prodotto Interno Lordo passa dalla Pubblica Amministrazione, dove l’export delle piccole e medie imprese del nord conta moltissimo per riequilibrare la bilancia commerciale, dove le grandi imprese sono quasi in estinzione e dove i consumi interni continuano a toccare nuovi minimi perché la gente ha paura del futuro.

L’ITALIA NON È PRONTA AD AMMORTIZZARE LO SHOCK

L’Italia ha un mero del lavoro estremamente rigido e non è pronta ad ammortizzare uno shock sistemico della portata di quello in corso. Siamo ancora, in buona sostanza, privi di una politica industriale, di capacità di ricerca e sviluppo, nonché di estrarre le proprie risorse naturali ed energetiche. In più -per non farci mancare niente- abbiamo scelto di rinunciare all’elettricità prodotta dalle centrali nucleari (e ne abbiamo ugualmente numerose, appartenenti ad altre nazioni ma a pochi chilometri dai nostri confini settentrionali).

LA COMPAGNIA HOLDING
Le piccole e medie aziende che sopravviveranno perciò sono quasi soltanto quelle collegate ai filoni alimentare, sanitario e meccanico (e queste ultime quasi soltanto per le esportazioni). I servizi e i consumi interni languono, e il turismo, la ristorazione e l’intrattenimento sono ancora sono sotto la cappa dell’emergenza pandemica. Come non parlare poi delle banche italiane, ancora importantissime per finanziare le piccole e medie imprese eppure in grande difficoltà perché tutti stimano una mole di insoluti assolutamente fuori dalla normalità. Sono immancabilmente sotto tiro (stanno perdendo quasi il 20% del valore di capitalizzazione di borsa da inizio d’anno e oltre il 30% dai massimi di febbraio) a riprova della gravità della situazione e del timore che stavolta il supporto della Banca Centrale sarà meno generoso!

CHI POTRÀ INTERVENIRE A SUPPORTO?

Cosa possiamo aspettarci dunque in termini di performance economica? Probabilmente le imprese davvero innovative, più capaci di organizzarsi e di rapportarsi meglio con il resto del mondo otterranno ugualmente credito e capitali. Saranno però alcune centinaia al massimo quelle che si quoteranno in Borsa, otterranno Minibond o troveranno la possibilità di aggregarsi e di ricevere aumenti di capitale. Troppo poche per un impatto significativo sull’economia dell’intero Paese. Le altre dipendono dai capitali propri e dal sistema bancario, che però è più che mai allergico a sostenerle.

In altri tempi si sarebbero potuti invocare aiuti di Stato, finanziamenti e investimenti pubblici, la fiscalizzazione degli oneri sociali e qualche ulteriore credito d’imposta. Ma oggi, che siamo sotto il mirino degli osservatori europei per ottenerne il sostegno del nostro debito pubblico e nelle mire dei vari speculatori globali, per il commercio e lo sfruttamento dei beni reali dati in garanzia dei crediti incagliati, sarà molto più difficile invocare altri interventi di Stato che amplierebbero il deficit pubblico o la clemenza dei creditori.

LA COMPAGNIA HOLDING
IL RISCHIO E’ QUELLO DI ASSOMIGLIARE AL SUD-AMERICA

Vediamo perciò una serie di analogie con le vicende dei decenni scorsi nei paesi dell’America Latina. Se l’economia si ferma, noi rischiamo di diventare un una riserva di caccia a disposizione di Americani ed Europei del nord che vogliano fare shopping di aziende in crisi e immobili strategici! Anche se la guerra in corso non subirà un’escalation, le nostre posizioni politiche dovrebbero tenere conto di ciò che ci aspetta dal punto di vista pratico se non vogliono che il Paese finisca in ginocchio.

Gli “alleati” occidentali, imponendoci sanzioni e vincoli allo scambio con la Federazione Russa, stringono cioè di fatto le nostre imprese in un angolo in nome della solidarietà alle vittime delle aggressioni militari. Niente da obiettare, certo, nella misura in cui si trovi il modo di porvi adeguato rimedio economico! Tenendo anche conto del fatto che i paesi che oggi si trovano “oltre cortina”, iniziano ovviamente a considerarci nemici, tanto quanto gli altri paesi occidentali, che però sono nostri rivali di fatto nelle esportazioni (Germania e Francia, in primis) e nell’attrarre investimenti dall’estero.

LA COMPAGNIA HOLDING
COSA FARE?

L’Italia con la sua forte dipendenza dall’estero (per il fatto che non ha una banca centrale, e per la provenienza delle principali fonti energetiche) dovrebbe elaborare invece una propria urgente strategia di sopravvivenza! Basata su defiscalizzazioni degli investimenti, facilitazioni burocratiche, rimpatrio dei capitali, semplificazioni per chi localizza stabilimenti produttivi, premi per chi assume e riduzione dei costi burocratici.

Per non parlare dell’importantissimo ruolo dell’Unione Europea e della relativa Banca Centrale: se l’inflazione deriva da uno shock da offerta non ha senso parlare di restrizioni monetarie, casomai occorrerà l’opposto! E se il rincaro dei prezzi rischia di affossare l’economia bisogna trovare il modo di fare arrivare ai consumatori risorse e liquidità, e di accelerare la velocità di circolazione della moneta.

Riteniamo anche che -se non subito- alla fine questo possa avvenire. E la liquidità aiuterà le borse, come tre-quattro mesi dopo lo shock da COVID. Ma difficilmente controbilancerà il problema del credito (così come è successo allora). Se poi le politiche di transizione verde impongono alle imprese costi che al momento esse non possono permettersi, ecco che bisognerebbe sollevarle temporaneamente dai relativi oneri.

Solo così il nostro paese e il nostro continente potrebbero cercare di contrastare la deriva negativa e contrastare l’impatto delle sanzioni. Le guerre però si combattono purtroppo anche a livello economico e, sebbene le sanzioni siano rivolte a qualcun altro, se non poniamo adeguati rimedi esse danneggiano (talvolta irrimediabilmente) anche chi le applica!

LA COMPAGNIA HOLDING
Stefano di Tommaso




LA FORMIDABILE ASCESA DELLE NUOVE IMPRESE IN ITALIA – PRIMA PARTE: LO SCENARIO DI MERCATO NEL NOSTRO PAESE –

La Compagnia Holding
Il nostro paese è interessato più che mai alla ventata di globalizzazione e innovazione tecnologica che pervade l’intero pianeta e sta rispondendo con una grande massa di imprese neo-costituite che vanno quasi sempre a cogliere le nuove possibilità di fare affari determinate dallo sviluppo scientifico e tecnologico. Ovviamente il mercato dei capitali guarda con attenzione in questa direzione perché costituiscono una buona opportunità: qualcuna di esse emergerà come nuovo “unicorno” (nel gergo finanziario, supererà il miliardo di dollari in valore). Il problema è che l’Italia brilla per numerosità e qualità delle Startup ma scarseggia nella capacità di veicolare loro la dotazione iniziale di capitali.

 

LA BORSA LE ACCOGLIE MA… DOPO !

La Borsa Valori è molto recettiva nei confronti delle imprese innovative (ovviamente quelle che hanno superato la fase pionieristica) e mostra un deciso appetito per esse. Nell’ultimo anno e mezzo ovviamente il numero di “matricole” si è ridotto per via della pandemia, ma costituisce comunque la stragrande maggioranza delle operazioni di “Initial Public Offerings” (IPO), cioè di nuove quotazioni. Il segmento di mercato delle imprese innovative vale oggi alla Borsa di Milano (che da quando è stata incorporata da quella francese ha assunto il nominativo di Euronext Growth Milan – EGM) circa 150 imprese, su un totale di circa 350 società quotate in Italia, ma è destinato a crescere esponenzialmente. Solo in Francia ce ne sono infatti tre volte tanto, sia delle une che delle altre.

Il confronto nell’Unione europea sull’innovazione delle piccole imprese evidenzia che l’Italia è quinta in classifica, con una quota di piccole imprese con attività innovative pari al 60,9% del totale. Superiore di 14,9 punti percentuali alla media europea (46,0%), poco distante dalla Germania (62,3%) e ampiamente superiore a quella di Francia (45,9%) e Spagna (26,9%).

Esploreremo il fenomeno delle nuove imprese in Italia sotto due punti di vista: i numeri del macro settore delle neo-costituite e le loro modalità di finanziamento, aiutandoci con le poche risultanze statistiche disponibili nel nostro paese, la prima delle quali è fornita dal Ministero per lo Sviluppo Economico, che pubblica un rapporto trimestrale (realizzato con Unioncamere, Infocamere e Fondo di Garanzia del Mediocredito Centrale) utile a comprendere la vertiginosa ascesa delle Startup Innovative.

IL RAPPORTO DEL M.I.S.E.

Alla data dello scorso 1 Ottobre 2021 queste ultime erano divenute più di 14.000 di cui 2600 quelle a prevalenza giovanile (sotto i 35 anni) e delle quali piu di 10.000 nei servizi digitali. Tra tutte quasi il 13% è costituito in prevalenza da donne. Ma l’imprenditoria corre in Italia più di quanto si pensi non soltanto per le Startup innovative: le società di capitali di recente costituzione sono infatti la bellezza di circa 100.000.

Delle 14.000 Startup Innovative registrate già più di 6.000 hanno ricevuto l’autorizzazione del Fondo di Garanzia per quasi 2 miliardi mentre le PMI Innovative che hanno ricevuto una garanzia sono state poco più di 1.200 e il Fondo medesimo ha garantito prestiti nei loro confronti per un totale di 1,3 miliardi .

Singolare il fatto che la maggior parte delle Startup Innovative abbia sede in Lombardia (oltre il 26%) e addirittura quasi il 19% sia a Milano, contro il quasi 12% del Lazio e il quasi 9% della Campania, cosa che sta a significare soltanto che chi ha una buona idea di business se può viene nelle città dove è più sviluppata la capacità di incubarla e finanziarla per farla diventare un’impresa.

I REQUISITI PER RIENTRARE TRA LE “STARTUP INNOVATIVE”

Ma chi sono le Startup Innovative? Il Ministero dello Sviluppo economico risponde così: Possono ottenere lo status di Startup Innovativa le società di capitali costituite da meno di cinque anni, con fatturato annuo inferiore a cinque milioni di euro, non quotate, e in possesso di determinati indicatori relativi all’innovazione tecnologica previsti dalla normativa nazionale“. Che poi sarebbe il possesso di almeno 1 di questi 3 requisiti:
A)sostiene spese in ricerca e sviluppo per più del 15% del valore della produzione, B) impiega personale altamente qualificato (almeno 1/3 dottori di ricerca o ricercatori o almeno 2/3 con laurea magistrale), C) è titolare di un brevetto o di un software recentemente registrato.

A queste imprese sono state rivolte significative agevolazioni, introdotte con il decreto-legge “Rilancio” del 19 maggio 2020, n.34 :

  • Incentivi fiscali all’investimento nel capitale di startup innovative
  • Accesso gratuito e semplificato al Fondo di Garanzia per le PMI
  • Smart & start Italia (finanziamenti agevolati per startup innovative localizzate sul territorio nazionale)
  • Trasformazione in PMI innovative senza soluzione di continuità
  • Esonero da diritti camerali e imposte di bollo
  • Raccolta di capitali tramite campagne di equity crowdfunding
  • Servizi di internazionalizzazione alle imprese (ICE)
  • Deroghe alla disciplina societaria ordinaria
  • Disciplina del lavoro flessibile
  • Proroga del termine per la copertura delle perdite
  • Deroga alla disciplina sulle società di comodo e in perdita sistematica
  • Remunerazione attraverso strumenti di partecipazione al capitale
  • Esonero dall’obbligo del visto di conformità per compensazione dei crediti IVA
  • Fail Fast (procedure semplificate in caso di insuccesso della propria attività)

Inoltre in risposta all’emergenza COVID sono state introdotte ulteriori misure a loro favore:

  • Contributi a fondo perduto per acquistare servizi per lo sviluppo delle imprese innovative
  • Sostegno al Venture Capital
  • Credito d’imposta in ricerca e sviluppo
  • Proroga del termine di permanenza nella sezione speciale del registro imprese
  • Estensione della garanzia per il fondo centrale di garanzia per le Pmi
  • Ulteriori incentivi all’investimento in Startup Innovative
  • Programma Investor Visa for Italy: dimezzamento delle soglie minime di investimento
  • Agevolazioni per le Startup Innovative localizzate in zone colpite da eventi sismici

MA I CAPITALI NON ARRIVANO DAL MISE. NÈ DAL MEDIOCREDITO

Ovviamente le suddette agevolazioni hanno contribuito in parte a stimolare la nuova imprenditoria, in particolare quella giovanile (poco meno del 20%) ma, evidentemente il grosso è costituito soprattutto da quella “di riflusso” degli “adulti (che va ben oltre l’80%), derivante dalla cancellazione di numerosissimi posti di lavoro a causa della crisi economica o della delocalizzazione all’estero delle imprese. Lo testimonia il fatto che una percentuale quasi uguale alla proporzione tra adulti e giovani nuovi imprenditori è quella delle 100.000 imprese neo-costituite, delle quali oltre l’80% non ha i requisiti di startup innovativa.

Bisogna dire che il Decreto Rilancio costituisce nel complesso una vera e propria manna per le giovani iniziative innovative. Una manna spesso ignorata da coloro che vogliono mettersi ”in proprio”, ma sulla quale si sono buttate orde di professionisti, consulenti e intermediari che in qualche modo vantano “agganci” presso il Ministero per lo Sviluppo Economico e il Mediocredito Centrale. Una manna che però evidentemente è stata meglio sfruttata in quei luoghi (come Milano) ove è più facile creare, finanziare e condurre un’impresa. Un’informazione questa che impone una riflessione ulteriore a proposito degli altri fattori (diversi da agevolazioni e incentivi ai finanziamenti di Stato) che risultano essenziali affinché l’imprenditoria si sviluppi ulteriormente in Italia, prima fra tutti la disponibilità di capitali di rischio, oltre che di finanziamenti.

Praticamente infatti nessuna delle misure previste recentemente dal Governo riguarda il capitale di rischio (tipicamente gli proveniente da Family&Friends e Venture Capital), la cui presenza peraltro risulta essenziale anche nella normativa prevista per attivare i finanziamenti e i contributi di Stato. E senza capitali di rischio le nuove imprese non riescono a partire. L’italiano medio insomma, quando non riesce a tenersi il proprio posto di lavoro, se può se lo crea di sana pianta, e questo gli fa onore. Ma poi sconta il fio della ristrettezza e poca trasparenza del mercato dei capitali italiano, che oltretutto resta negli ultimi anni particolarmente arretrato rispetto al resto d’Europa.

EPPURE IL RISPARMIO DEGLI ITALIANI È INGENTE

Basti pensare che oltre 3/4 dei risparmi italiani (ingenti e in crescita) che vengono investiti sul mercato dei capitali prende la strada degli investimenti esteri. Una vera e propria iattura per il sistema delle imprese, che dipende dal fatto che non esistono strumenti (privati e pubblici) per veicolare loro a sufficienza la disponibilità di risparmio fresco.

I depositi bancari italiani peraltro crescono anche loro (siamo a quota 1.700 miliardi di euro), ma sempre più difficilmente si trasformano in finanziamenti alle imprese. Da dieci anni a questa parte le banche italiane hanno ridotto di circa 275 miliardi di euro il credito alle imprese mentre hanno incrementato di 185 miliardi l’investimento in titoli pubblici italiani. Lo Stato cioè, per ogni euro garantito alle imprese italiane (circa 3,4 miliardi in totale) ne ha assorbiti 55 dal mercato dei capitali, spiazzando di fatto le imprese.

COSA FARE

L’auspicio è perciò che il governo attuale possa finalmente muoversi anche nella direzione dello sviluppo del mercato dei capitali, prima che l’ondata di nuove iniziative si sgonfi per impossibilità di reperire adeguate risorse. Perché senza che quest’ultimo raggiunga anche nel nostro paese maggiori dimensioni e articolazioni, buona parte delle 100.000 nuove imprese costituite alla fine si spegnerà.

Le banche d’affari come la nostra fanno il possibile per mettere insieme i capitali di rischio , assicurandosi prima che il Piano di Business sia concreto e che impedisca di sprecare risorse, costituendo e registrando la Startup come “innovativa”, reperendo idonee risorse umane con competenze qualificate, per renderle capaci di fare davvero business e trovando talvolta loro uno spazio di mercato anche attraverso accordi commerciali e collaborazioni industriali.

Altre volte viene costituito un “Club Deal” guidato dalle stesse banche d’affari che raccoglie intorno a sè capitali di rischio provenienti da uno sparuto gruppo di investitori professionali (per quasi il 70% i cosiddetti “Ángel Investor” i quali -giustamente- pretendono di partecipare anche alla conduzione aziendale, qualche “Family Office” (cioè gli uffici che si occupano di investire per conto dei più ricchi) e qualche (raro) investitore di Venture Capital.

Ma la sproporzione tra domanda offerta, così come tra le risorse complessivamente reperibili in Italia rispetto a quelle degli altri paesi avanzati, è notevole!

Stefano di Tommaso




AMAZZONIZZAZIONE DELL’ECONOMIA?

Siamo giunti alla fine del super-ciclo economico positivo decennale (2008-2018, sebbene in Europa ci si sia giunti per motivi politici soltanto cinque-sei anni più tardi) che ha spinto per altrettanto tempo le borse all’insù verso massimi storici senza precedenti, oppure ci sono altre forze che spingono verso una “normalizzazione” dell’economia che tutto sommato la consolida e la rende capace di non avvitarsi in una spirale inflazionistica (che inevitabilmente aprirebbe le porte ad una fase di recessione globale)?

 

Non potendo prevedere il futuro, la domanda non ha ovvie o scontate risposte, ma uno strumento per interpretare gli accadimenti di queste settimane potrebbe sintetizzarsi in una parola (o più probabilmente un vero e proprio concetto) che torna periodicamente a risuonare, pur senza alcuna certezza, nelle orecchie di molti economisti: l’ “amazzonizzazione” dell’economia.

L’IMMAGINE ESTERNA DI AMAZON, QUALE LEADER PIGLIA-TUTTO DEL COMMERCIO ELETTRONICO INCORPORA LE NUOVE TENDENZE GLOBALI

È noto che Amazon, leader mondiale del commercio elettronico, incorpora nell’immaginario collettivo l’idea stessa di effetto pratico della globalizzazione dei consumi risultante nella rottura al ribasso dei prezzi al dettaglio, dell’effetto disinflattivo che esso ha e nel cambiamento profondo della relazione tra domanda e offerta sul mercato del lavoro (che ovviamente provoca una contrazione dei salari).

Fino all’altro ieri infatti la maggior domanda di lavoro che sta materializzandosi a partire dal 2017 e che in molti casi si traduce in una crescita reale dei salari, avrebbe più o meno immediatamente provocato un’innalzamento corrispondente dei consumi e si sarebbe quindi potuto osservare il noto effetto inflattivo che consegue alla riduzione della disoccupazione, osservato dagli economisti on la cosiddetta “Curva di Phillips”.

IL ROVESCIAMENTO DELLA CURVA DI PHILLIPS

Tra il 2017 e il 2018 però, almeno negli Stati Uniti d’America (che spesso sono solo i precursori delle tendenze economiche globali) si è invece dovuto prendere atto del venire meno di quella forte relazione tra mercato del lavoro, consumi, prezzi e inflazione, che sembrava elementare e dunque anche inequivocabile (nel grafico qui sotto riportato, da leggersi da destra verso sinistra, l’inclinazione della curva sembra infatti rovesciata).

Per tentare di rispondere alla domanda sopra indicata, proviamo perciò a porcene un’altra: ma se per effetto della ripresa economica e della crescita globale dei redditi la disoccupazione scende un po’ ovunque nel mondo e se più o meno di conseguenza anche i salari crescono, per quale diavolo di ragione questo non si riflette nell’aumento dei consumi e, di conseguenza, nella crescita dei prezzi al dettaglio?

L’ESPLOSIONE DEL COMMERCIO ELETTRONICO

A una tale domanda si prestano centinaia di risposte possibili che spaziano dall’effetto di normalizzazione dei prezzi dovuto all’aumento del commercio internazionale e all’entrata sul mercato di merci provenienti dai paesi emergenti alla maggior efficienza produttiva dettata dalla digitalizzazione fino alla minor incidenza del consumo energetico.

Ma il punto è che l’individuare risposte corrette a questa domanda ci può rivelare le sorti dell’inflazione attesa e, di conseguenza probabilmente, quelle dei tassi di interesse, nominali e reali. E queste a sua volta sono tutt’altro che irrilevante ai fini degli andamenti dei mercati borsistici.

In altre parole se riusciamo a comprendere i meccanismi di inceppamento nella trasmissione della maggior domanda di beni e servizi ai prezzi dei medesimi (inflazione)possiamo trovare una chiave di risposta alla questione di tutte le altre questioni: il ciclo economico in corso sta esaurendosi oppure è magicamente destinato a prolungarsi, magari indefinitamente?

LE BORSE CONTINUERANNO A SCENDERE?

In una sorta di gioco all’auto-realizzazione delle aspettative, molti investitori hanno di recente diminuito i titoli azionari sul totale dei loro investimenti. Questo, insieme ad un processo di normale rotazione dei portafogli e insieme alle notizie allarmanti che sono state strombazzate dai media di tutto il mondo circa i pericoli di una guerra commerciale, hanno amplificato la volatilità delle borse e ridotto i loro livelli si o ad azzerare la crescita che avevano compiuto nel primo trimestre 2018.

Ma non possiamo chiederci come sta andando l’economia reale osservando i mercati finanziari. Sarebbe come indovinare la strada guardando dallo specchietto retrovisore: la cosa funziona soltanto se il veicolo va a marcia indietro (cioè in caso di recessione). Perché altrimenti non si può fare previsioni a partire dall’ultima derivata (le borse) ignorando le variabili fondamentali che possono muoverla.

E per tornare alle variabili fondamentali, la stagione della dichiarazione degli utili aziendali (e quindi dei dividendi) che sta per aprirsi sembra indicare tutt’altra direzione (estremamente positiva) rispetto alla presunta conclusione del ciclo economico espansivo. Così se questo è l’ennesimo fattore di confusione per interpretare l’andamento delle quotazioni delle borse, esso d’altro canto fornisce anche solide ragioni perché il processo di conversione dei redditi aziendali in investimenti, consumi e risparmio, possa agire in direzione dell’ulteriore crescita economica, anche per gli anni a venire, allontanando lo spettro della recessione.


LA MANCATA CRESCITA DELL’INFLAZIONE

Ma più di ogni altro fattore sono i rendimenti nominali quelli che (seppur pesantemente manovrati dalle banche centrali) esprimono il vero stato di salute dell’economia.

E al momento non possiamo che prendere atto che, pur risaliti di qualche frazione di punto (e nonostante gli sforzi di “forward guidance” della banca centrale americana), su scala globale i loro livelli sono vicini ai minimi di sempre, così come quello dell’inflazione.

Le statistiche infatti spesso non indicano il vero andamento dell’economia reale.

I consumi cambiano e la spesa della gente non si rivolge più come prima ai negozi fisici, ai beni voluttuari, all‘arredo o all’abbigliamento e ai suoi accessori, dal momento che l’abbigliamento formale non è più di moda e le abitazioni diventano minimaliste. Molte altre categorie di beni e servizi sono invece entrate prepotentemente a rubare loro la priorità, a partire dal benessere fisico e mentale (che in passato veniva in qualche modo pagato dallo stato), alla cura della persona, alla formazione continua, all’elettronica e all’informatica domestica, ai servizi online. Tutte spese divenute quasi “necessarie”, soprattutto con una famiglia a carico, che hanno trasformato il concetto di necessità e hanno di fatto ridotto la quota di extra-reddito disponibile per i consumi voluttuari.

I COSTUMI CAMBIANO E LE IMPRESE DEVONO ADEGUARSI

I grandi operatori di internet come Amazon, Facebook, Netflix e Google lo hanno capito benissimo e per primi, e “coccolano” il loro cliente con ogni genere di proposta, frutta e verdura a domicilio comprese (con consegna immediata) a prezzi nemmeno immaginabili dagli altri, complici il mercato dei capitali (che sussidia generosamente le loro perdite) e il basso livello di manodopera richiesto da quei servizi.

Sul fronte dell’occupazione questa tendenza porta a incrementare il numero di persone che lavorano sulla consegna di pacchi e pacchetti, a far crescere l’investimento informatico che ci sta dietro e l’occupazione conseguente, a incrementare l’acquisto di beni e servizi provenienti dall’altro capo del mondo e a ridurre le segreterie e le posizioni apicali in azienda dal momento che tutto si automatizza.

Anche la pubblica amministrazione tende a ridurre il proprio personale e a fare acquisti solo in rete, mentre e le piccole aziende che fornivano servizi specializzati a quelle grandi oggi trovano insidia nella concorrenza online degli stessi servizi.

Ma il fenomeno dell’espansione del commercio elettronico a ogni settore dell’economia non sembra fermarsi solo a questo. Se lo paragoniamo alla rivoluzione che è derivata dal l’avvento della grande distribuzione organizzata (GDO), il bello deve ancora venire !

Il fenomeno americano che ha preceduto Amazon infatti si chiama Walmart e sulla rivoluzione industriale che l’avvento di quest’ultima ha generato sono stati versati fiumi di inchiostro (soprattutto in America, ovviamente, ma in Europa ci sono stati fenomeni paragonabili come IKEA, ad esempio). L’impatto sulle sorti delle piccole e medie imprese è stato devastante ma in qualche caso anche estremamente positivo.

Stefano di Tommaso