SE MANCA IL GAS ALL’EUROPA

LA COMPAGNIA HOLDING
Lunedi 11 Luglio 2022 potrebbe essere ricordato nella storia come il giorno in cui le forniture di gas dalla Russia si arrestarono quasi del tutto per l’Europa occidentale. E’ previsto infatti dall’11 al 21 Luglio il fermo tecnico del gasdotto North Stream, che attraversa il mar baltico per finire sulle coste della Germania. Si tratta in realtà del primo di due gasdotti con il medesimo nome e il medesimo percorso (North Stream 1 e 2) ma il secondo, da tempo pronto all’uso, non è mai stato utilizzato per pressioni americane. Molti analisti concordano sul fatto che, probabilmente, non riaprirà mai più, a causa delle tensioni geopolitiche in corso.

 

L’INCIDENTE DIPLOMATICO

La Germania già doveva fare i conti con una riduzione di circa il 40% del gas in arrivo tramite il North Stream 1. Ora per 10 giorni il gasdotto si fermerà del tutto. Secondo Mosca, questo è dovuto a problemi tecnici: Gazprom spiega che il gasdotto funziona al 60% per la mancanza di una gigantesca turbina della Siemens fabbricata però in Canada, che però in base al regime delle sanzioni in vigore non può essere inviata in Russia. Ora il Canada ha finalmente sbloccato l’invio della turbina, ma toccherebbe alla Germania infrangere le sanzioni alla Russia. Dal canto suo quest’ultima potrebbe approfittarne per segnalare l’evidenza che le sanzioni colpiscono innanzitutto chi le ordina. E potrebbe decidere di non riceverla nei suoi porti.

L’EUROPA È QUELLA CHE CI RIMETTE DI PIÙ

Se il flusso del gas russo dovesse interrompersi però, l’industria tedesca (e non soltanto quella tedesca) potrebbe essere messa a dura prova, a corto di energia e senza valide alternative. L’evento è tutt’altro che certo, ma il solo rischio che possa accadere è fortemente esemplificativo della situazione che L’Europa sta vivendo in questi mesi, cioè da quando è partita la guerra in Ucraina: è senza dubbio l’area economica che ci sta rimettendo di più dallo scorso Febbraio, quando al termine di un crescendo di bombardamenti e pressioni di ogni genere del governo centrale di Kiev nei confronti delle due repubbliche separatiste de nord-est, ucraine ma filo-russe, l’esercito di Mosca si è deciso ad intervenire militarmente per disarmare il paese ed impedire il suo ingresso nella NATO, cosa che gli avrebbe impedito di farlo in futuro.

Non rientra nell’oggetto di questo articolo comprendere chi possa aver ragione e chi torno (sappiamo che i nostri media sono tutti pesantemente schierati sulla narrativa anglo-americana della vicenda) bensì è importante il fatto che, da quel momento, l’economia europea è stata sottoposta ad una serie di eventi che ne hanno limitato la prosperità e che rischiano oggi di metterla del tutto in ginocchio. La Germania peraltro può ancora decidere di non fermare le proprie centrali elettriche basate sul nucleare, il cui stop è programmato per il 2023, e sta riaprendo le proprie centrali elettriche a carbone. La Francia può decidere di incrementare la produzione elettrica da energia nucleare. E’ casomai l’Italia quella che può attivare ben poche opzioni strategiche.

IL RISCHIO CHE CROLLI L’INDUSTRIA TEDESCA

Tuttavia il solo rischio che l’arrivo del gas russo si interrompa sta provocando una serie di problemi all’economia tedesca. Problemi che evidentemente rischiano di ripercuotersi in tutti gli altri paesi dell’Unione. Il gigante tedesco del gas Uniper -ad esempio- ha chiesto al governo un salvataggio pubblico acquisendo una partecipazione azionaria «rilevante». Ha anche chiesto un ulteriore finanziamento del debito attraverso un aumento della linea di credito garantita dallo Stato: si stima che la compagnia, controllata dal gruppo finlandese Fortum, potrebbe aver bisogno di circa 9 miliardi di euro, più del doppio del suo valore di mercato. Uniper ha dovuto comprare gas sui mercati spot a prezzi molto elevati pur in presenza di prezzi di vendita “rigidi”, il che ha messo a dura prova le sue finanze. Il capo di Uniper ha anche preannunciato un «enorme aumento delle bollette del gas il prossimo anno» a carico di imprenditori e consumatori tedeschi.

L’azienda energetica tedesca rischia perdite fino a 10 miliardi di euro quest’anno. Il governo ha approvato una legge per l’acquisizione di partecipazioni in aziende energetiche in crisi. Il ministro dell’Economia Habeck ha messo in guardia circa la possibilità che il fallimento delle imprese energetiche possa comportare fallimenti a catena, con un meccanismo simile a quello di Lehman Brothers sulle altre banche. Non soltanto: con il rialzo oltre misura dei prezzi dell’energia, alcune città tedesche stanno già organizzando spazi pubblici riscaldati per il prossimo inverno, in maniera da poter ospitare gratuitamente quanti, all’arrivo della stagione fredda, non potranno permettersi di pagare le bollette rincarate dall’aumento del costo del gas. Il fatto che altri paesi europei, meno previdenti, non ne stiano ancora parlando, non significa che il rischio di un inverno “freddo” non sia reale.

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Il conflitto in corso sta dunque aggiungendo molta tensione sui prezzi dell’energia, cosa che non soltanto significa dover rialzare il prezzo di moltissimi altri beni, ma anche e soprattutto il rischio di dover riconvertire buona parte dell’apparato industriale della Germania, oggi ancora basato sull’utilizzo intensivo di carburanti fossili. Tagliare le forniture di gas e petrolio russo sulle quali ha sempre contato, comporterebbe una carenza di gas in Germania tra 23,8 TWh (terawattora) e 160 TWh. Alcuni istituti di ricerca economica hanno stimato che la riduzione della produzione industriale ad alta intensità di consumo di energia si tradurrebbe in una perdita di valore aggiunto tra i 46 e i 283 miliardi di euro per le industrie tedesche, cioè tra il 2% ed il 9% circa del totale della produzione industriale del 2021. Questo rischio ha tra l’altro determinato la necessità -da parte dei governi- di innalzare al massimo possibile il livello delle scorte strategiche e di limitarne i consumi privati, nella prospettiva che quelle forniture possano presto terminare.

IL GAS NON È LA SOLA ARMA DELLA RUSSIA

Oggi quel momento sembra essere arrivato, anche se non è detto che la Russia deciderà di procedere con la sospensione immediata delle forniture di gas, perché -contro le sanzioni che le sono state comminate da America e Unione Europea- potrebbe avere un più sofisticato potere dissuasivo, attraverso la riduzione delle esportazioni di petrolio. Qualora infatti Mosca decidesse di procedere in tal direzione il prezzo dell’oro nero sarebbe inevitabilmente destinato a crescere parecchio, dal momento che già oggi la sua domanda supera l’offerta e l’attuale equilibrio tra l’una e l’altra è -per il momento- garantito dall’aver portato al massimo l’estrazione da parte dei paesi del golfo arabico.

Ma ora siamo in piena estate e impatterebbe di meno. Il problema potrebbe invece aggravarsi con il sopraggiungere della stagione fredda e l’inevitabile maggior costo del petrolio potrebbe mettere in ginocchio l’intera industria occidentale, provocando di fatto una recessione. Il rimpiazzo di quelle minori forniture di petrolio non è impossibile, ma non potrebbe essere immediato, e comporterebbe ingenti investimenti da parte dei grandi produttori, con un’attesa di almeno sei mesi fino al momento in cui potesse essere installata nuova capacità produttiva.

L’ECONOMIA OCCIDENTALE A UN BIVIO

Il problema è che la crescita economica dei paesi occidentali è attualmente ad un bivio, tra la prosecuzione dell’attuale ciclo post-covid (di ripresa) e una possibile nuova pesante recessione, potenzialmente peggiore di quella scatenata dalla pandemia. Le banche centrali (prima fra tutte la Federal Reserve) tra l’altro hanno agito da cassa di risonanza per la situazione, riducendo la liquidità disponibile sul mercato finanziario e innalzando il costo del denaro. In particolare ha agito prima e più di tutte le altre quella americana, cosa che ha di conseguenza artificialmente innalzato il cambio del Dollaro.

Di conseguenza molti investimenti, pubblici e privati, oggi vengono rinviati a data da destinarsi, soprattutto nei paesi emergenti dove il caro-Dollaro e il rialzo dei tassi di interesse stanno colpendo più duramente. Chi ci rimette di più in questa situazione sono soprattutto le esportazioni dell’industria tedesca, e insieme a quest’ultima anche buona parte di quella europea, che molto spesso agisce in regime di sub-fornitura di quella teutonica.

Se infatti per l’industria italiana l’aver dovuto rinunciare alle esportazioni verso la Federazione Russa è stato un colpo duro, ma limitato a taluni comparti e tutto sommato “gestibile”, cosa diversa sarebbe dover rinunciare ad una quota consistente delle esportazioni verso la Germania qualora le grandi imprese tedesche dovessero ridurre i loro ritmi produttivi, e tra l’altro l’effetto -più grave- si sommerebbe a quello già registrato, mettendo in ginocchio molti distretti industriali del Bel Paese e contribuendo a far dilagare una recessione economica che -oramai- appare quasi certa anche per i prossimi due trimestri dell’anno in corso.

E ORA ARRIVA L’AUTUNNO “CALDO”

Tra l’altro l’Europa non ha ancora affrontato, a causa della rigidità del mercato del lavoro rispetto all’economia americana, il problema della perdita di potere d’acquisto dei salari e stipendi delle classi sociali più basse, cosa che invece nei paesi anglofoni, con un mercato del lavoro molto più vivace, non p stato un problema, dal momento che si è riallineato verso l’alto quasi automaticamente. Nei paesi invece dove vige la contrattazione collettiva e dove il mercato del lavoro subisce molte più rigidità (con situazioni non non proprio identiche parliamo in particolare di Italia, Spagna, Francia e Germania), al momento i salari sono rimasti quelli di prima dei rincari a raffica, con una significativa perdita del potere d’acquisto da parte delle famiglie appartenenti ai ceti più bassi.

Il rischio di forti tensioni sociali e altrettanto aspre rivendicazioni salariali è dunque evidente. Non è probabile che esso vada in testa alle priorità politiche e sindacali durante la pausa ferragostana, ma è molto concreto il rischio che si sviluppino vivacemente subito dopo, alla ripresa autunnale, contribuendo a far si che la recessione si “avviti” e che l’inflazione giunga ad auto-alimentarsi, esattamente come era già successo negli anni ‘70. L’autunno sembra proprio prefigurare una “tempesta perfetta” sull’economia dell’Eurozona, e i governi europei sembrano assai poco in grado di prevenirla!

Stefano di Tommaso




ATLANTISMO E GAS AFRICANO

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Vista la crescente contrapposizione del nostro premier con la Russia, riuscirà l’Italia a fare a meno del gas di Putin? Draghi sembra molto impegnato e sta partendo per un lungo giro dell’Africa con l’obiettivo dichiarato di ottenere forniture alternative. Ma è oggettivamente molto difficile sostituire le forniture russe, per l’intera Europa. Che infatti si chiede se vale la pena sostenere le posizioni oltranziste di Draghi. Nel frattempo la bolletta energetica sale e le nostre riserve rischiano di terminare a Luglio…

 

L’Italia come sappiamo tutti è forse il paese europeo più esposto nel sostenere il governo ucraino contro la Federazione Russa. Il nostro presidente del consiglio ha addirittura rivendicato come sua l’idea di congelare le riserve russe di dollari e oro in America (che ovviamente non se l’è fatto ripetere due volte) ed è arrivato a suggellare con il segreto di stato il valore, l’entità e l’assortimento di armamenti inviati in dono dall’Italia a Kiev per contrastare l’armata rossa.

Tutti ricordano poi i discutibili sequestri ai cittadini russi in Italia di ville, auto, barche e disponibilità finanziarie. Sequestri discutibili per il semplice motivo che non esistono leggi del nostro stato che possano autorizzarli sulla sola base dell’appartenenza etnica! Si può dunque immaginare che non avranno lunga vita (e nel frattempo qualche danno al nostro turismo ovviamente l’hanno procurato ugualmente).

L’Italia insomma, grazie ad un governo che più atlantista non si può immaginare, è in prima linea contro gli “invasori” russi. E’ un dato di fatto, non un’opinione. Ma ovviamente c’è un prezzo pesante da sostenere su questa linea, soprattutto adesso che nessun paese occidentale sembra più volere un compromesso e la pace ma anzi, si rischia una decisa escalation militare.

Se vogliamo seriamente schierarci contro la Russia infatti, non abbiamo soltanto il problema dell’imporre un doloroso stop alle numerose nostre imprese che vivevano delle loro esportazioni verso Mosca, bensì c’è un altro piccolissimo problema da risolvere quando si vuole avere una politica estera così aggressiva nei confronti del maggior fornitore di risorse energetiche del nostro paese: quello di smarcare l’attuale dipendenza dalle sue forniture, che peraltro alcuni altri membri dell’Unione Europea (come l’Austria ad esempio, ma anche come l’Ungheria e sinanco la Germania) oggi appaiono molto più “laici” nell’andare ad accaparrarsi, guerra o non guerra.

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E qui alcuni nodi vengono al pettine: ci sarebbero grandi giacimenti in territorio italiano, oggi sfruttati soltanto per il 6%. Ma i nostri governi hanno più volte deciso di non voler fare di più. Dai tempi della benzina nazionale “Supercortemaggiore” che oramai nessuno ricorda nemmeno. Addirittura il referendum “no trivelle” (che si riferiva principalmente all’estrazione di gas metano) risale soltanto a 6 anni fa: troppo presto per fare un deciso dietrofront che assomiglierebbe ad uno smacco per i vari ambientalisti e intellettuali di certo ambiente.

Ci sarebbe poi l’energia elettrica prodotta con le centrali nucleari, alcune delle quali devono ancora iniziare ad essere smantellate. Ma di nuovo sarebbe uno smacco per quella politica, non importa il fatto che la maggior parte delle centrali dei nostri confinanti siano state posizionate proprio vicino ai confini. Dunque non possiamo contare nemmeno sul nucleare italiano, anzi! (nell’immagine qui sotto le centrali nucleari presenti in Europa)

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E poi il problema indubbiamente l’abbiamo con il gas, sia perché il petrolio con le navi arriverà sempre (magari il medesimo estratto in Siberia ma fatto prima passare dai porti asiatici offshore), che perché gran parte degli stabilimenti industriali e delle civili abitazioni sono collegate a reti di distribuzione del gas che non sono agevolmente sostituibili con altri combustibili. E quando anche l’intero “bel paese” fosse unitariamente allineato nella ferrea volontà di estrarre tutto il gas possibile dal nostro sottosuolo, passerebbero comunque anni prima di poterne ottenere quantità adeguate al nostro fabbisogno.

Ma sappiamo che la politica de’noantri non ha alcuna lungimiranza in quanto alle scelte strategiche del paese, semplicemente perché le subisce dall’estero. Ci rimangono dunque le navi gasiere americane a caro prezzo (ma prima dovremmo avere almeno i rigassificatori, e anche quelli erano oggetto di ludibrio da parte degli ambientalisti al governo, fino all’altro ieri). Oppure gli altri “vicini di casa”, cioè i paesi africani, che indubbiamente hanno grandi riserve energetiche non sfruttate da andare a prendere.

Cosa che non si può dire che Draghi non stia tentando. La settimana prossima infatti partirà per un vero e proprio tour africano: Congo, Angola e Mozambico. Motivo del viaggio, stringere accordi per la fornitura di altro gas, dopo il mezzo fiasco algerino e l’autogol politico con l’Egitto. Ma è saggio ed è sicuro puntare su Paesi africani dove è notorio il rischio di instabilità interna e con forti legami storici con Mosca? Ai tempi della guerra fredda al fianco dell’Unione Sovietica infatti erano proprio Algeria, Angola e Etiopia. E ancora oggi molti paesi africani dipendono dal grano russo per sfamare la popolazione. E che siano ancora legati e riconoscenti nei confronti della Russia lo si è visto con la loro assenza al voto delle Nazioni Unite per la condanna dell’invasione Ucraina.

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Ma se anche Draghi dovesse trovare i tappeti rossi al suo arrivo e dovesse ricevere la più grande apertura di questi paese a sostenerci con forniture mai viste in precedenza, resterebbero ancora un bel grattacapo: le reti fisiche per fare arrivare il gas dalle nostre parti appaiono decisamente insufficienti. Cioè mancano le infrastrutture per trasportarlo. Ad esempio la Nigeria, di recente, ha siglato un protocollo d’intesa con l’Algeria per la costruzione del gasdotto transahariano, un’opera lunga 614 chilometri che dovrebbe essere collegata all’Europa. Ma la prima volta che si è parlato del metanodotto in questione è stata negli anni ’70. E i lavori non sono ancora iniziati.

E poi per il trasporto del gas africano sono necessari investimenti significativi. Il che, come ha giustamente scritto Al Jazeera, equivale a una pioggia di capitali che al momento non si capisce da dove potrebbero arrivare. Così come ha riportato la Rystad energy (società di ricerca con sede a Oslo, in Norvegia) in un suo recente studio: «i progetti deepwater nell’Africa subsahariana sono rischiosi e possono essere oggetto di ritardi o mancate autorizzazioni a causa degli elevati costi di sviluppo, delle difficoltà di accesso ai finanziamenti, dei problemi con i regimi fiscali e di altri rischi». Tradotto: il gas africano, per ora, resterà a lungo sotto terra. Peccato inoltre che le quantità potenzialmente dispacciabili dall’Africa non potranno mai soddisfare la fornitura di 150 – 190 miliardi di metri cubi l’anno che Mosca usava inviare all’Europa. Non è un dettaglio da poco. Nell’immagine qui sotto le infrastrutture di trasporto africane attualmente esistenti.

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Dunque nemmeno con il gas africano ce la caveremmo nel sostituire l’oro “azzurro” che oggi arriva ancora dalla Russia. Alla luce di queste considerazioni allora viene da chiedersi: Draghi sta facendo una politica di lunghissimo o di brevissimo periodo? Se Draghi stesse lavorando per il benessere energetico italiano dei prossimi cinque o dieci anni potremmo ben comprendere la necessità di diversificare le fonti e le provenienze geografiche e, per ciascuna di esse, quella di progettare nuove grandi infrastrutture di trasporto.

Ma la sensazione è tutt’altra. E’ quella che Draghi stia sì facendo questo “tour” soltanto per mostrare a tutti la sua determinazione, in realtà ben sapendo che a pochi mesi dalle sue -ampiamente annunciate- dimissioni da premier, egli stia cercando di mantenere la propria ferrea linea atlantista proprio quando una serie di altri governi europei, con ben più realismo del nostro, iniziano a dichiarare dei distinguo nel proseguire verso la drastica riduzione delle forniture russe. Tra pochi giorni è in arrivo l’ennesimo pacchetto di sanzioni deciso da Washington, le quali sanciranno l’abbandono di qualsiasi posizione di dialogo con Mosca.

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E’ chiaro ed evidente infatti che la ”linea dura” nei confronti della Russia la stanno pagando praticamente soltanto gli stati europei. E che questo alimenta non pochi malumori. Ulteriori restrizioni nelle forniture non porterebbero soltanto un impoverimento delle tasche dei consumatori italiani, bensì anche dei probabili arresti di talune produzioni eccessivamente energivore.

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Uno scenario da “stagflazione” conclamata (cioè stagnazione economica e inflazione dei prezzi al tempo stesso), insomma, che molti paesi nord-europei vorrebbero evitare, cercando di non accentuare lo scontro. Draghi dal canto suo invece tira dritto e, nella posizione di premier, temiamo pensi soltanto a fare le valigie. Si mormora un suo nuovo ruolo a capo dell’alleanza militare atlantica. E sostanzialmente di un addio alla politica italiana. Altro allora che visione di lungo termine! Di brevissimo, casomai.

Stefano di Tommaso




AUTUNNO CALDISSIMO

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Petrolio a 80 dollari al barile, il massimo da sette anni! E il bello è che non è finita.il prezzo del gas è cresciuto molto di più, spingendo svariati produttori di energia elettrica a spostarsi sul petrolio per limitare i danni: solo questo fatto ha aggiunto circa mezzo milione di barili al giorno alla domanda mondiale di petrolio, tornata dopo il crollo pandemico a crescere negli scorsi mesi più di quanto è tornata a crescere l’attività estrattiva.

 

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IL RUOLO DELL’OPEC+

C’è dunque da attendersi nuove tensioni sui prezzi perché ieri l’OPEC+ (l’organizzazione dei produttori di petrolio che include anche la Federazione Russa) ha sì acconsentito ad accrescere la produzione di greggio, ma moderatamente e gradualmente, fino a raggiungere un incremento di 400mila barili, dunque meno dell’ accresciuta domanda.

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Se a questo ragionamento si aggiunge la considerazione del fatto che le scorte strategiche di petrolio e gas sono quasi dappertutto molto basse e che dunque governi, produttori e distributori stanno soltanto aspettando il momento buono per ricostituirle, ecco che non si intravede la fine del tunnel che sta portando verso la soglia psicologica dei 100 dollari al barile il prezzo del petrolio.

MA IL GAS È CRESCIUTO DI PIÙ

D’altronde se volessimo fare un paragone, il prezzo del metro cubo di gas naturale è cresciuto fino ad un livello equivalente a circa 180-190 dollari al barile di petrolio (cioè di circa il doppio della crescita del prezzo del petrolio sul mercato), seminando il panico persino tra gli intermediari, molti dei quali potrebbero rischiare il tracollo finanziario perché, di fronte a una tale impennata, avevano nei giorni scorsi scommesso su un ribasso.


La stessa America, che produce più materia prima energetica di quanta ne possa consumare (e dunque la esporta) è preoccupata per le conseguenze dolorose che ciò potrebbe scatenare sull’economia reale (l’incremento quasi scontato della velocità di circolazione della moneta), che rischia di trovarsi di fronte all’ennesima fiammata inflazionistica dopo che le autorità monetarie e politiche si erano sperticate sulla “temporaneità” del rialzo dei prezzi.

E ARRIVA LA SVALUTAZIONE MONETARIA

In un precedente articolo avevamo fatto notare che era andata più o meno nello stesso modo all’inizio degli anni ‘70, quando però il mondo non affogava nei debiti e in una marea di derivati finanziari come oggidì, con i quali stavolta si può “scherzare” molto meno di allora nel lasciare che i tassi di interesse rincorrano la svalutazione monetaria.

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Non a caso il Dollaro è risalito bruscamente la scorsa settimana e rischia di proseguire la tendenza al rialzo. Questo rischia di indurre ulteriore tensione sul prezzo delle materie prime, paradossalmente più preoccupando che facendo gioire i paesi emergenti, i debiti finanziari dei quali rischiano di rivalutarsi più dell’incremento dei ricavi da export.

I media ne parlano assai poco ma i governi di tutto il mondo sono in allarme, e stanno correndo ai ripari in ordine sparso, senza un opportuno coordinamento. Soprattutto dopo aver strombazzato ai quattro venti la necessità di ridurre le emissioni nocive, sostituendo le fonti energetiche di origine fossile con quelle da fonti rinnovabili.

BORSE GIÙ-PREZZI SÙ E, TUTTAVIA…

Concludiamo con due grandi -ma non scontate- ovvietà: 1) l’economia globale rischia ulteriori rallentamenti che sono l’esatto opposto di ciò che poteva sperare sino a pochissimi mesi fa, e 2) le borse (come anche le quotazioni dei titoli a reddito fisso) non potranno che accusare il colpo, quantomeno a livello psicologico.

Dunque ciò che è destinata ad amplificarsi è principalmente la volatilità, sebbene non necessariamente possa essere a rischio il livello finale dei listini (quello di fine anno, utile per calcolare la performance di chi amministra patrimoni), dal momento che c’è pur sempre in circolazione molta liquidità ancora a caccia di occasioni.

LA PROBABILE RINCORSA DEI SALARI

Un’ultima considerazione riguarda l’economia de’noantri: l’Italia ha sino ad oggi sperimentato una forte deflazione salariale, che ha compresso i consumi e trattenuto la risalita dei prezzi al consumo. Il paragone con gli altri paesi industrializzati lo si può leggere da questo grafico ed è impietoso: nel periodo dì riferimento il nostro potere d’acquisto si è praticamente dimezzato rispetto agli Stati Uniti d’America.

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Ma l’arrivo probabile dell’inflazione a due cifre porrà più dì un problema dì rivalutazione dei salari e della conseguente tenuta dei conti pubblici, dal momento che una parte importante (più dì un terzo) dì tutti gli assunti sono dipendenti della pubblica amministrazione!

Stefano di Tommaso