QUANTO VALE ATLANTIA?

Che la concessione delle Autostrade ai pochi gestori privati che se le sono aggiudicate più o meno in assenza di un Processo di gara pubblica sia sempre stato un affare quantomeno „misterioso“ è fatto noto. Più volte i giornali hanno gridato allo scandalo (o hanno finto di farlo) a proposito dei noti rincari delle tariffe autostradali, cresciute nell’ultimo decennio di una percentuale variabile dal 20% sino al 200%, ben al di sopra dunque tanto dell’inflazione quanto della crescita (più o meno negativa) del P.I.L. del Paese. Ma fino a ieri la nazione si era sopita nell’abitudine di tali angherie sino a non farci più caso. I quaranta morti di Genova e il nuovo clima politico invece ne hanno risvegliato la coscienza collettiva e nel mirino della speculazione è finito il maggior gruppo concessionario d’Italia in fatto di autostrade.
CHI È ATLANTIA
Atlantia è una società quotata alla Borsa di Milano che controlla un importante pacchetto di concessioni, per buona parte stradali (non solo in Italia ma anche in Brasile, Cile, India e Polonia), ma anche aeroportuali (i tre aeroporti di Roma, e i tre della Costa Azzurra francese) oltre che diversificate nei servizi di ingegneria, informatica e sistemi di pagamento e infine nelle costruzioni e pavimentazioni stradali.
Nell’immagine qui accanto riportata si indica che i Benetton controllano la società con il solo 30% dell’88% (cioè con il 26,4%) e che la società fa utili netti dopo le tasse di 1,4 miliardi di euro (superiori agli investimenti di 1 miliardo) su ricavi di 6 miliardi (cioè circa il 23,3% del fatturato) con un margine operativo del 62% circa (del fatturato). Interessante notare che la società appartiene a privati italiani soltanto per il 19,9% del flottante che è pari solo al 45,5% del capitale azionario: dunque soltanto il 9% del capitale di Atlantia è in mano a privati Italiani, se si escludono i Benetton e la fondazione CRT. Ma anche contandoli, il totale in mano nazionale non supera il 25% del capitale e stava per divenire la metà se fosse andata in porto la fusione con ACS (autostrade spagnole) controllato dal gruppo di società di costruzione Abertis, operazione al momento in stand-by.
Ma ancora più interessante è il grafico che segue, da cui si evince che le nostre autostrade sono di gran lunga le più care d’Europa, una parte della quale le mette gratuitamente a disposizione di chiunque:

Il gruppo era già noto per la sua “vicinanza” alla politica ma quello che non era noto ai più era il fatto che i famigerati investimenti infrastrutturali che sarebbero stati a fronte degli astrusi calcoli che stavano alla base dei rincari esagerati in realtà non venivano effettuati!

Dalla polemica che infuria dopo i fatti di Genova questo è il dato che emerge più evidente e certifica la poca dirittura morale degli organismi che avrebbero dovuto controllarne l’attuazione (e delle forze politiche che vi stavano dietro), come pure di quelli di gestione della società.
Se questo fatto verrà accertato dalla Magistratura allora non sarà stata del tutto fuori luogo la “boutade” del Governo che intende revocare la concessione delle Autostrade per l’Italia (in sigla ASPI) ad Atlantia innanzitutto, la maggiore concessionaria delle Autostrade italiane con circa 3000 chilometri gestiti su quasi 6000 affidati a soggetti diversi dall’ANAS.. Ovviamente di fronte anche solo a tale rischio ipotetico tutti hanno iniziato a chiedersi quanto vale questa società (e di conseguenza quanto dovrebbe quotare il titolo in Borsa) ?
La polemica è ancor più infuocata se si tiene conto del fatto che la rete autostradale nazionale è al collasso in molti giorni dell’anno anche a causa dei ritardi nell’ampliamento delle carreggiate!
LA POSSIBILITÀ DELLA REVOCA DELLA CONCESSIONE
In teoria il Governo può avviare (come sembra aver fatto) la procedura per la revoca secondo l’articolo 9 della concessione in caso di “grave inadempienza” (tra gli obblighi assunti da Autostrade c’è infatti il “mantenimento della funzionalità delle infrastrutture concesse attraverso la manutenzione e la riparazione tempestiva delle stesse”) con una contestazione formale, dopo la quale al concessionario è concesso un primo “congruo termine” non inferiore a 90 giorni, e un “ulteriore termine non inferiore a 60 giorni per adempiere a quanto intimato ”.
In pratica dunque Atlantia avrebbe però davanti a sè almeno 5 mesi per rimettersi in regola, per poi agire in sede giudiziaria e bloccare tale possibilità. Questo spiega anche perché la stessa si è detta pronta a ricostruire il viadotto in cinque mesi (e non sei o quattro).
Ma l’articolo 9 bis della concessione prevede che “Il Concessionario avrà diritto (…) ad un indennizzo/risarcimento a carico del Concedente in ogni caso di recesso, revoca, risoluzione anche per inadempimento del Concedente”. In sostanza, lo Stato sarebbe comunque costretto a risarcire i mancati utili anche in caso di inadempienza accertata (circa € 1 miliardo di utili netti moltiplicato per i vent’anni di durata residua). Niente male per una società che capitalizza in borsa 16 miliardi ! Ovviamente si tratta di una stima della parte di utili che riguardano le concessioni autostradali italiane è sempre nel caso che la revoca le riguardi tutte.
E poi però cosa succederebbe? Assisteremmo al ritorno delle nazionalizzazioni o all’ attribuzione all’ANAS (che oggi gestisce tra l’altro 1000 chilometri di autostrada) degli altri 5870 chilometri appaltati ai privati (di cui 3000 ad Atlantia e 1200 a Gavio)? Oppure si riuscirebbe a cogliere l’occasione della revisione del pasticcio per rilanciare gli investimenti infrastrutturali di-appaltando le autostrade a coloro che sono più disposti a investire in sicurezza e ampliamenti?
Il Governo dovrebbe brigare parecchio per offrire una sponda valida agli oltranzisti della coalizione che vorrebbero agire d’imperio nei confronti della società concessionaria. Più probabile è che venga erogata la mult più alta possibile (€150 milioni) e che il ponte venga rimpiazzato dalla medesima con una spesa di circa 1 miliardi di euro (circa 1,4 euro per azione) oltre a maggiori costi della manutenzione che potrebbero costare meno di altri 3 miliardi per un totale di circa 4-5 euro per azione. Molto meno del calo di 10 euro per azione registrato in questi giorni. Non potendo spingerci oltre nelle ipotesi, cerchiamo allora di capire meglio come il mercato vàluta questa società.
LA VALUTAZIONE DI BORSA DI ATLANTIA
Atlantia al prezzo di 19 euro capitalizza all’incirca 16 miliardi, cioè 13 volte gli utili (P/E ratio), quasi 3 volte il fatturato e 1,8 volte il valore contabile del suo patrimonio netto, dopo copiosi debiti per 28 miliardi di euro residui al 30/6 scorso è un totale dell’attivo di circa €40 miliardi.

Dunque con 3,7 miliardi di euro di EBITDA l’azienda deve sostenere un debito pari a 7,5 volte tale margine: non poco persino per un’azienda così redditizia, soprattutto se dovessero traballare le prospettive di ancora vent’anni di alto reddito e limitati investimenti (720 milioni l’anno scorso).

Se infatti la società dovesse mettere in cantiere investimenti aggiuntivi di circa 2 miliardi di euro il suo cash flow (flusso di cassa netto) diverrebbe pesantemente negativo e la società necessiterebbe di un importante incremento nei mezzi propri, più o meno di pari valore, annacquando l’attuale capitalizzazione di circa il 13%, cioè pari a quei 4-5 euro per azione di cui si scriveva più sopra.
Questo non significa tuttavia che il titolo scenderà ancora, ne che si apprezzerà per tornare alla differenza tra I 28 euro toccati in precedenza (o i 26 prima del crollo) e i 4-5 di riduzione dovuti al crollo del ponte Morandi (dunque da 21 a 23 euro per azione, ben più di quanto quota oggi il titolo), perché a completare il giudizio di valutazione intervengono molti altri fattori, a partire dalle ulteriori prospettive fino al calcolo della redditività prospettica dovuta alla pipeline di ulteriori concessioni, con in più l’incognita della possibile cancellazione “d’ufficio” (e senza rimborso) della concessione API.
Ma se anche lo Stato Italiano dovesse rimborsarle 20 miliardi questa non sarebbe necessariamente una buona notizia per Atlantia, che con quell’importo non completerebbe il rimborso dei 28 miliardi di debito. Persino questa possibilità comporterebbe la necessità di un inevitabile aumento di capitale per sostenere le altre iniziative in corso e ne deturperebbe la valutazione.
COSA PUÒ SUCCEDERE AL TITOLO IN BORSA
Inoltre la volatilità del prezzo del titolo, che sino ad oggi era stata limitata, c’è da attendersi che essa possa crescere significativamente nel prossimo futuro, a meno di una tempestiva fusione della società con qualche altro grande operatore viario internazionale, magari meglio capitalizzato (come la stessa ACS spagnola sopra citata). E senza tale prospettiva questo significherebbe inevitabilmente che la sua valutazione scenderebbe ancora un po’, a parità di tutto il resto.
Difficile perciò tracciare una previsione netta circa la valutazione del titolo, soprattutto dopo i violenti alti e bassi degli ultimi giorni e l’importante ridimensionamento già attuato dal mercato. Quello che si può dire con una certa tranquillità è che la società e anche i suoi azionisti potrebbero trovare dunque un forte giovamento nell’ipotesi suddetta di aggregazione con qualche altro grande operatore internazionale che fornirebbe serenità e sostegno al mercato finanziario. Senza la quale è invece possibile (se non probabile) che il suo Rating venga rivisto al ribasso, spingendo inevitabilmente i grandi investitori oggi presenti nella compagine azionaria di Atlantia a dover abbandonare il titolo.
In assenza di grandi e pesanti iniziative da parte del management (che però è tutto indagato per le probabili omissioni di controlli e misure precauzionali) la spirale discendente della valutazione di Atlantia potrebbe dunque proseguire a causa tanto dela possibile discesa del rating del suo debito (soprattutto in caso di completa revoca delle concessioni italiane) quanto del possibile abbandono di parte della compagine sociale per motivi “statutari”.
(nell’immagine qui sotto un dettaglio della struttura del ponte assai deteriorata dagli agenti atmosferici)

Ma diradate le nebbie dell’incertezza giuridica e gestionale (i suoi amministratori saranno sostituiti?) e gli ulteriori ribassi che ne potranno derivare, i parametri fondamentali del titolo che poi emergerebbero sarebbero probabilmente migliori di oggi, alimentando qualche ricopertura.

Per tutti questi motivi la volatilità attesa nel prossimo futuro di Atlantia è quindi ben più elevata di quella storica, ma per i fegati più forti anche l’opportunità di acquisire a buon mercato un titolo di ampio foottante e con degli ottimi fondamentali può restare valida, soprattutto se si guarda al lungo periodo, fattore essenziale per valutare correttamente la società e che lascia qualche speranza per il futuro.
Stefano di Tommaso




I SIGNORI DEL CIBO E DELL’AMBIENTE

Se c’è un settore economico che tutti gli studiosi additano come il più strategico per le sorti dell’umanità nei prossimi decenni, è sicuramente quello dell’alimentazione. Le grandi aggregazioni in corso potrebbero addirittura risultare dannose all’ambiente e al progresso scientifico…

 

Quando si parla di agricoltura e cibo vengono subito in mente i 570 milioni di operatori economici che si stima siano presenti nel settore in tutto il mondo, con oltre 7 miliardi di consumatori (l’intera popolazione del pianeta). Già solo questo enorme numero esprime le possibili conseguenze di un progressivo processo di integrazione in poche forti mani. Milioni di operatori agricoli in meno nel mondo (già solo a causa della progressiva meccanizzazione delle operazioni) possono significare milioni di disoccupati.

GLI OPERATORI PIÙ IMPORTANTI

Per esplorare la portata delle affermazioni radicali che riporta questo articolo occorre tenere presente che la filiera delle produzioni chimiche, agricole, alimentari e di accessori per le loro produzioni è vastissima ed è fortemente condizionata da tre grandi gruppi economici globali:

– La prima potenza industriale nel comparto agricolo risulta sicuramente la Monsanto (il primo produttore al mondo di sementi) con un fatturato 2016 di 74 miliardi di dollari, operatore che però è in corso di fusione con la Bayer, primo produttore al mondo di pesticidi e fitofarmaci (oltre che di farmaci e prodotti chimici), che da sola è giunta alla soglia dei 55 miliardi di dollari;

– al secondo posto nell’agricoltura c’è il gruppo chimico Dow-DuPont che nel totale fattura oltre 130 miliardi di dollari;

– Alla terza posizione nel comparto agricolo il gruppo cinese ChemChina che ha appena acquisito Syngenta per 47 miliardi di dollari. Insieme questi tre operatori (tutti con fortissime radici nella chimica) controllano oltre il 60% delle produzioni globali di sementi per l’agricoltura e la sola “BaySanto” dopo l’integrazione di fatto risulterà proprietaria dei diritti intellettuali riguardanti quasi ogni coltura agricola geneticamente modificata nel mondo.


Per non parlare del settore agrotecnico, nel quale la sola Deere&Co. (quella dei trattori John Deere), esprime un fatturato di quasi 30 miliardi di dollari.

La dimensione conta in questo ambito perché l’intero mondo agricolo sta per entrare in una fase di profonda digitalizzazione, che comporta la necessità di grandi investimenti, quando saranno i droni a diffondere medicine, controllare le coltivazioni e riconoscere eventuali anomalie delle piante, grazie all’intelligenza artificiale, saranno sistemi completamente automatizzati a gestire gli allevamenti, la loro macellazione, lo stoccaggio e le lavorazioni successive.


Ovviamente man mano che l’automazione industriale coinvolgerà anche l’alimentazione, tutti i piccoli operatori spariranno per far posto a pochi grandi ed efficientissimi produzioni, assai integrate verticalmente, dalla chimica di base alla distribuzione degli alimenti pronti.

UNO SCENARIO COMPLESSO

Quello dell’alimentazione è tuttavia il settore economico che più di ogni altro può incidere nella sanità della specie umana e sulla salvaguardia dell’ambiente naturale. È contemporaneamente il più esposto alla raffica di scoperte scientifiche e innovazioni tecnologiche nonché quello che peggio sta vivendo un forte processo di concentrazione a scapito dei piccoli operatori e a vantaggio del grande capitale che piano piano sta esercitando il suo potere di mercato per costituire dei monopoli quasi in ogni ambito.

La cosa di per sé potrebbe risultare quasi “normale” se voliamo consideriamo quel settore “maturo” e dunque caratterizzato da un eccesso di capacità produttiva, da scarsa innovazione di prodotto e da una forte prevalenza delle problematiche distributive, tali da incidere grandemente sulla marginalità economica dei suoi operatori, costringendoli ad aggregazioni.

UN SETTORE TUTT’ALTRO CHE MATURO

In effetti ciò che accade è tuttavia quasi l’opposto:

– la scienza ha fatto al riguardo dell’agricoltura e delle produzioni alimentari in generale dei grandissimi passi in avanti, non tutti i quali sono sempre stati correttamente comunicati e diffusi dai mezzi di informazione di massa;

– le cosiddette “esternalità” produttive (cioè i costi a carico della comunità che I produttori di alimenti generano) sono elevatissime per la filiera alimentare, figuriamoci per quella della chimica! La filiera economica globale dell’alimentazione è infatti inscindibilmente legata a quella della chimica (diserbanti, concimi, fitofarmaci, ecc…) ed è perciò anche inevitabilmente connessa alle sorti dell’ambiente, dal momento che l’uso di tali prodotti può incidere in modo molto pesante sulle sorti della vivibilità del pianeta;

– le conseguenze del forzoso processo di aggregazione degli operatori economici con lo spiazzamento di quelli piccoli, non solo genera disoccupazione e flussi migratori verso i centri urbani di quella forza lavoro che prima era presente nell’agricoltura (per essere progressivamente rimpiazzata dalle macchine e dall’automazione),

– ma soprattutto questa tendenza alla smisurata crescita dimensionale degli operatori industriali agricoli e alimentari rischia di contrapporsi all’applicazione delle più recenti scoperte scientifiche che tendono a rivalutare l’efficienza economica delle colture non intensive accoppiando la crescita di specie diverse di vegetali che si rafforzano a vicenda (com’è sempre avvenuto in natura) e a denunciare gli effetti disastrosi per l’ambiente del disboscamento, dell’uso intensivo della chimica, dell’eccesso di acqua utilizzata a fini industriali alimentari e dell’eccesso di anidridi carboniche immesse nell’aria per molte produzioni.

LA CONCENTRAZIONE DEL SETTORE ALIMENTARE GENERA DISECONOMIE AMBIENTALI


Per questi e molti altri motivi le grandi fusioni e incorporazioni di aziende del settore agricolo e alimentare che stanno avvenendo a ritmo accelerato potrebbero meritare di essere invece disincentivate.

La concentrazione in pochi grandissimi operatori economici di un macrosettore industriale quale quello dell’alimentazione (che spazia dalla chimica di base, all’agricoltura, alla produzione di trattori e strumenti di trattamento forestale, alla zootecnia, alla macellazione, fino al trattamento e alla conservazione dei cibi pronti e alla loro distribuzione al dettaglio) a uno sguardo più attento protrebbe risultare cosa assai contraria agli interessi dell’umanità!

Quello dell’alimentazione non soltanto appare dunque un settore strategico per le sorti della specie umana, ma è anche un ambito che, con la riscoperta delle filiere biologiche, con gli ultimi progressi in campo biochimico e con le nuove catene distributive che derivano dalla digitalizzazione globale, potrebbe invece vivere una stagione di grande rinnovamento e sanificazione, nel quale troverebbero posto moltissimi nuovi piccoli operatori super-specializzati in qualche nicchia. Ma di fatto tale possibilità è avversata dai detentori di giganteschi interessi al riguardo.

Quella concentrazione in poche mani della filiera alimentare può dunque generare non solo disoccupazione e di conseguenza dannosi flussi migratori e sconvolgere gli equilibri ambientali, ma anche impedire (o esprimere interessi a non far diffondere) il progresso scientifico. Essa promuove invece (per motivi di convenienza) le mono-agricolture intensive ed automatizzate, generando in tale modo immense “esternalità” a carico del resto dell’umanità.

IL RUOLO DEI “REGOLATORI”

Da sempre infine la politica è intervenuta pesantemente a tutela delle sorti dei coltivatori agricoli, degli allevatori, dei produttori di generi di prima necessità. Oggi invece -probabilmente anche a causa delle forti contribuzioni ricevute dalle lobby che esprimono il maggior potere economico- la politica al riguardo tace in maniera “assordante”!

Le campagne a favore dell’ambiente, della salvaguardia dell’aria che respiriamo e della gestione delle risorse idriche risultano invece sostanziarsi in soli slogan privi di contenuto pratico, la manipolazione delle risorse forestali non viene nemmeno denunciata e, soprattutto, il settore dalle gestione ambientale e del riciclo dei rifiuti risulta essere (a causa di un’impostazione assai errata) uno dei più profittevoli al mondo.


Molti equilibri rischiano di rompersi quando si vuole applicare l’industria 4.0 al trattamento delle risorse naturali e alimentari, se nessuno interviene affrontando il fenomeno da altri punti di vista, come quello di tutti coloro che risultano affetti da malattie che originano da cattive abitudini alimentari o come quello degli 800 milioni di esseri umani nel mondo che risultano ancora a rischio di morire di fame…

Stefano di Tommaso