IL 2019 POTREBBE ESSERE L’ANNO DELLE INFRASTRUTTURE

Vediamo insieme i numerosi motivi perché ciò potrebbe e dovrebbe accadere. Esistono molte opportunità che ciò avvenga ma anche mille ostacoli allo sviluppo degli investimenti infrastrutturali, come è possibile leggere qui di seguito.
C’È PIÙ BISOGNO DI INFRASTRUTTURE
Il mondo non ha mai percepito così tanto il bisogno di investimenti infrastrutturali tanto quanto lo sente oggi, in funzione del bisogno di godere appieno dei benefici dell’era digitale con sistemi di comunicazione evoluti, interattivi e intelligenti, della necessità di abbreviare gli spostamenti di persone e merci e al tempo stesso in funzione della necessità di rendere lo sviluppo tecnologico compatibile con le esigenze di protezione dell’ambiente (inquinamento, surriscaldamento globale, consumismo, ecc…), dunque innovando nelle modalità per farlo e non semplicemente viaggiando di più o potenziando gli apparati già esistenti.
Ne consegue che oggi lo sviluppo degli investimenti pubblici così come di quelli produttivi incontra un oggettivo limite nella necessità di allocarli in un “ambiente” più evoluto di quello attuale, che ne favorisca -con gli adeguati investimenti infrastrutturali- tanto le prospettive di ulteriore sviluppo tecnologico, quanto il ritorno economico. Parliamo quindi di reti digitali in fibra ottica, di autostrade pan-continentali, di ferrovie superveloci e super-efficienti, di energie da fonti rinnovabili, di sistemi logistici integrati e automatizzati, di tele-sanità, di reti idriche e sistemi ambientali che consentano il riciclo di acque e rifiuti, eccetera.
I DEBITI PUBBLICI HANNO FRENATO GLI INTERVENTI GOVERNATIVI E LASCIATO PIÙ SPAZIO A QUELLI PRIVATI
Mentre apprezziamo tuttavia i vantaggi per il business e per la qualità della vita che possono scaturire da questi investimenti “di sistema”, viviamo al tempo stesso nella consapevolezza che i governi nazionali non potranno fare granché per il loro sviluppo senza l’apporto essenziale di ingenti risorse provenienti dal mercato dei capitali, dato il gigantesco indebitamento collettivo che limita la capacità di spesa autonoma dei singoli governi.

Il timore di non riuscire a sostenere il servizio del debito e quello di andare a sollevare incresciose questioni di salvaguardia del territorio, di legalità e di possibili incrementi delle disuguaglianze sociali che possono derivare dalle ingenti risorse che vengono profuse in investimenti infrastrutturali è quantomai fondato, eppure a ben vedere esiste sempre un modo per conciliare le diverse istanze sociali se si guarda con più attenzione agli sviluppi futuri, al reddito ulteriore che gli investimenti stessi possono generare, e se nell’affrontarli si riesce a rifuggire dalle posizioni strettamente partigiane.
UNO STIMOLO PER L’ULTERIORE SVILUPPO ECONOMICO
L’opportunità da cogliere nell’affrontare l’argomento senza guardarsi troppo indietro è d’altronde assolutamente reciproca: i finanziamenti e i capitali privati rimangono essenziali per far ripartire il circolo virtuoso che trasforma il denaro speso negli investimenti in maggior prodotto interno lordo, ma d’altra parte un contesto normativo, fiscale e burocratico favorevole rimane essenziale affinché chi deve decidere di allocare le proprie risorse possa percepire un minor rischio e la possibilità di non cadere trappola di quegli eccessi di tassazione o di inflazione che porterebbero a zero il rendimento netto atteso.
Fino a ieri una cultura collettiva eccessivamente incline alla scarsa efficienza produttiva, al relativo controllo di qualità e durabilità delle strutture, all’eccesso di tassazione e di welfare sociale, alla tendenza alla spesa pubblica (corrente) indiscriminata, e a considerare “normale” l’instabilità finanziaria e valutaria, hanno decisamente ridotto l’appetito degli risparmiatori per avventurarsi a sottoscrivere quote di investimenti nelle public utilities, nelle grandi opere infrastrutturali, o nei servizi di pubblica utilità.
Il risultato (soprattutto nei paesi più arretrati dal punto di vista istituzionale, come il nostro) è risultato essere una decisa penuria di quegli investimenti oppure un’eccessiva rendita di posizione per quei gruppi privati che, ben posizionati dal punto di vista delle relazioni politiche hanno potuto ottenere dai legislatori trattamenti di “ampio riguardo” (vedi ad esempio: Autostrade per l’Italia) e, inevitabilmente, una scarsa attenzione all‘efficienza in nome della concorrenza e della pubblica utilità.
UNA NUOVA COSCIENZA COLLETTIVA
Chi più chi meno nel mondo quasi tutti i Paesi evoluti hanno accumulato un ritardo negli investimenti in grandi opere infrastrutturali, e dunque un relativo disinteresse del settore privato ad investire in tale campo.
Nel corso delle campagne elettorali degli ultimi anni pertanto molto spesso si sono pronunciati discorsi favorevoli nella direzione di una maggiore attenzione a fattori così importanti per il progresso dell’umanità, ma sino ad oggi è stato piuttosto difficile vedere un avanzamento oggettivo, anche a causa dell’inasprirsi della lotta politica tra fazioni e portatori di specifici interessi di lobbying. L’umanità percepisce però in modo più netto la necessità di ricreare contesti favorevoli per l’evoluzione della civiltà ed è inoltre sempre più benestante: dunque è più bisognosa di nuove infrastrutture che possano permetterle di diffondere l’istruzione, le comunicazioni e la facilità degli spostamenti. Dunque la percezione del valore intrinseco degli investimenti infrastrutturali ne risulta accresciuta, così come di conseguenza l’attenzione della politica verso tali necessità.

I TASSI BASSI E LA VOLATILITÀ DEI MERCATI FINANZIARI HANNO CREATO UNA FANTASTICA OCCASIONE PER PROFITTARNE
Bisogna poi considerare che, all’alba del nuovo anno, i mercati finanziari rifuggono dal rischio delle borse e tendono ad affogare nella liquidità (sempre meno allocata nelle speculazioni finanziarie) e chi deve allocare del risparmio gestito si confronta con il rischio di ridurre al lumicino i rendimenti reali di chi investe in azioni e obbligazioni e l’investimento in fondi infrastrutturali costituisce un’alternativa interessante all‘investimento in immobili con caratteristiche simili e forse migliori quanto al rapporto rischio/rendimento.
Se ci aggiungiamo che i grandi organismi sovranazionali che oggi risultano decisamente meno centrali di qualche anno fa nel loro ruolo di sostegno allo sviluppo economico globale potrebbero riorientarsi proficuamente nel cooperare tra loro e con i governi nazionali al fine di determinare uno sforzo collettivo idoneo a catalizzare risorse e attenzione dei media verso il vastissimo mondo delle iniziative infrastrutturali collettive. Potrebbe risultare una mossa “win-win” utile a tutti e foriera di ulteriori sviluppi, mentre le terribili prospettive di “stagnazione secolare” paventate (non troppo a torto) da taluni economisti che misuravano il decrescente rendimento marginale dei capitali in un contesto saturo e privo di lungimiranza, si vedrebbero finalmente sventate alla loro radice.
IL BOOM DEI FONDI INFRASTRUTTURALI
Secondo la società di analisi statistiche Preqin l’anno 2018 ha visto gli investitori allocare nel mondo (principalmente anglosassone) ben 85 miliardi di dollari nei fondi di investimento infrastrutturali, il 13% in più che nel 2017 (75 miliardi), con la prospettiva che nel 2019 quella cifra salirà ancora significativamente, spostando a questo settore anche parte delle risorse a disposizione dei fondi di private equity e private debt. Non a caso peraltro: i tassi di interesse restano bassi è invece le occasioni di buoni affari sul fronte delle iniziative da finanziare si moltiplicano, mentre le alternative agli investimenti infrastrutturali in questo momento appaiono sempre meno interessanti.
La speranza è perciò che una tendenza dei mercati finanziari che ha origini strettamente opportunistiche possa invece tramutarsi anche in un beneficio per il mondo civile e, segnatamente, anche per i Paesi in via di sviluppo, dove per le infrastrutture si ravvisano le sfide più ardue ma anche i ritorni più elevati sul capitale investito.
Stefano di Tommaso

Come dire che l’arretramento che noi abbiamo sperimentato a fine anno è stato ancor più vistoso per i tedeschi! Se teniamo conto del fatto che l’export industriale è sceso del 3,2% nello stesso periodo, capiamo che la
Germania (il gigante industriale d’Europa) è stata duramente colpita dalla congiuntura negativa e che questo fatto getta un’ombra sinistra sulle prospettive del vecchio continente, che fino all’estate godeva di un forte avanzo commerciale con il resto del mondo.
Il problema non è marginale per le esportazioni dell’industria italiana, spesso e volentieri fornitrice/terzista di quella teutonica. Il traino (stavolta negativo) è praticamente scontato. Ecco invece sino a Novembre (qui a sinistra) il dato italiano del P.I.L.

A questo punto anche la prospettiva di crescita economica americana del 2019 inizia a venire messa in discussione, perché non potrà basarsi esclusivamente su un ulteriore accelerazione dei consumi interni (anche perché è difficile ipotizzare ulteriori miglioramenti dell’occupazione dopo che l’economia interna ha già raggiunto di fatto il pieno impiego dei fattori). A evidenziare il rallentamento dei consumi c’è l’inflazione U.S.A., già scesa all’1,9% nei 12 mesi terminati a Dicembre del 2018 (per la prima volta sotto al 2% dall’Agosto 2017) .
A destra sono riportati i principali indici della borsa americana, mentre la borsa italiana ha anch’essa visto un primo scorcio di settimana al rialzo, ma soltanto dell’1%, come si può leggere dall’andamento dell’indice sotto riportato:
IL 2018, ANNO DEL “PARADOSSO”
In altre parole sembrerebbe essere tornati in uno scenario da “bambola dai riccioli d’oro” (Goldilocks): non troppo buono e nemmeno troppo pericoloso, che non può che favorire una generale ripresa di fiato degli operatori finanziari.
I prezzi del petrolio e delle altre materie prime è ragionevole supporre che resteranno infatti relativamente calmi, il ciclo economico positivo sarà pure in esaurimento, ma quantomeno molto lentamente, gli investitori si sono già tutti riposizionati su assetti molto più prudenziali e, apparentemente, il ciclo del credito è già fortemente in regressione, ragione per cui nessuno prevede alcuna esplosione incontrollata dei debiti e, di conseguenza, alcuna crisi di fiducia dei mercati, l’occupazione è ancora in lieve crescita e così non è probabile un crollo dei consumi.
Il grafico qui accanto riporta il numero totale di imprese che si sono quotate in America per ciascun anno recente.
fino alle mille applicazioni della nuova internet quali Zoom (videoconferenze) o piattaforme social come Slack o Pinterest, o altri ancora come Crowdstrike, Cloudflare, eccetera.
Ma oggi è in atto un ripensamento, tanto per il fatto che gli investitori hanno ben chiaro che se vorranno ancora trovare il modo di far fruttare il loro denaro con la prospettiva di borse che non cresceranno in media, dovranno concentrarsi nei prossimi anni su quelle categorie business che oggi sono allo stadio di sviluppo iniziale, piuttosto che su quelle tradizionali, quanto perché la notorietà che deriva dalla quotazione in borsa e la liquidità del titolo quotato fanno sempre più gola ai nuovi pionieri del business, i quali intravedono anche il rischio che il venture capital potrà risultare meno disponibile a rifinanziare le loro perdite in anni di recessione come quelli che sembrano prospettarsi.
Paradossalmente, il “selloff” (la svendita dei titoli quotati in borsa) dell’ultimo trimestre del 2018, invece che instillare prudenza negli imprenditori li ha invece spinti ad accelerare il loro percorso verso la quotazione, nel timore che l’inversione del ciclo economico attuale possa giungere in anticipo rispetto alle aspettative correnti, che lo traguardavano al 2020.