LE FUSIONI E ACQUISIZIONI CRESCERANNO ANCHE NEL 2022

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Prima della guerra in Ucraina si prevedeva per quest’anno un boom di aggregazioni d’aziende, tanto per merito della liquidità in circolazione, quanto per la necessità di creare maggiori dimensioni aziendali, ottimali per la globalizzazione roboante che era in corso. Ma il panorama è profondamente cambiato nel giro di poche settimane: la globalizzazione è oggi sotto la scure di una possibile divaricazione (politico, ma anche economico) tra l’Occidente e l’Oriente del mondo. La liquidità sembra infine decisamente calata, così come è scesa la disponibilità di credito per le acquisizioni. L’M&A crollerà ?

 

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PIÙ RESHORING INDUSTRIALE

E’ presto per dirlo, e rischia di essere anche inesatto, perché altri fattori stanno progressiva-mente entrando in gioco: innanzitutto cambieranno le filiere di alimentazione di materie prime, semilavorati e componentistica terziarizzata, per le nostre industrie. E molti fornitori dell’estremo oriente punteranno a joint-ventures produttive in Europa o nelle Americhe, anche per scongiurare gli effetti devastanti del forte rincaro dei trasporti e avvicinare le produzioni o gli assemblaggi ai mercati di sbocco delle merci (il cosiddetto “reshoring”).

Così come i fornitori delle nostre industrie basati nel sud est asiatico probabilmente saranno affiancati nel tempo da altri produttori, meglio localizzati rispetto ai mercati di sbocco. Ma anche le organizzazioni commerciali e distributive cambieranno: la logistica sarà più pervasiva e meglio presidiata che in passato, come pure in tutto il mondo probabilmente le strutture estere di vendita tenderanno ad essere progressivamente soppiantate da avamposti organizzati anche per lo stoccaggio, l’assemblaggio, il controllo qualità, l’assistenza e il dialogo con la clientela.

Dunque -anche grazie alla progressiva digitalizzazione- le attività industriali che potranno permetterselo saranno sempre più “multi-localizzate”. E le principali multinazionali del mondo sono oggi americane. Ecco forse spiegato il grafico qui sotto riportato:

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Per non parlare delle tecnologie: le grandi ricadute tecnologiche delle scoperte scientifiche e della progressiva digitalizzazione del mondo intero continueranno a favorire accordi industriali, scambi e soprattutto acquisizioni di aziende, dettate dalla necessità di portare in casa gli adeguamenti tecnologici. La ventata di operazioni “technology-driven” riguarderà innanzitutto, com’è ovvio, i settori più maturi, dove cioè l’impatto delle nuove tecnologie deve ancora dispiegarsi appieno. Ma in generale c’è forse oggi più bisogno di tecnologie di quanto ce ne fosse in passato.

SEMPRE PIÙ DIGITALIZZAZIONE

Molte attività tradizionali che ancora residuano dalla precedente era industriale verranno progressivamente stravolte, ottimizzate e semi-standardizzate, soprattutto nella componente “retail”, cioè nell’ultimo miglio verso la clientela finale, dove il dialogo sarà sempre più digitalizzato, onde ottimizzarne i costi.

Sul fronte retail ad esempio è indubbiamente avanzata ma non ancora completata la rivoluzione relativa i sistemi di pagamento, sempre più basati su una “identità digitale” e sempre meno dipendenti dalle carte di credito e debito. Anche la gestione del tempo libero, del leisure, dello sport, del turismo e della ristorazione sarà sempre più dipendente da sistemi digitali di filiera che riescano ad ottimizzare i costi e fornire servizi in tempo reale.

Una grossa parte dello sforzo tecnologico sarà poi rivolto alla necessità di proseguire anche con la transizione ecologica. Gli investitori di tutto il mondo hanno chiaramente espresso preferenze per chi riesce a ottimizzare i consumi energetici, a riciclare materiali e energie di risulta, a innovare nella produzione di energie da fonti rinnovabili. Anche perché prima la pandemia, poi la guerra ci hanno chiarito una tendenza di fondo che -a differenza di quanto poteva apparire in passato- oggi sembra unidirezionale: il mondo è sempre più affamato di energie e la loro produzione “sporca” (e dunque a buon mercato) è sempre meno accettabile per la sostenibilità del pianeta. Dunque è probabile che la transizione sarà dolorosa, a prezzi crescenti e con la necessità di investimenti esponenziali. Svantaggi talvolta aggirabili attraverso l’esecuzione di fusioni e acquisizioni.

L’ENERGIA RESTERÀ CARA

E dove ci sono grossi investimenti in ballo, sono più frequenti e più necessarie le operazioni di aggregazione di aziende. E chi non riuscirà a sostenere quegli investimenti dovrà fronteggiare l’alternativa di fallire o reperire maggiori capitali. Ci saranno perciò più fallimenti e più quotazioni in borsa, perché le risorse per le infrastrutture oramai arrivano sempre meno dai governi e dalle comunità locali. Dunque le imprese che vorranno risultare appetibili per i grandi gestori di patrimoni dovranno necessariamente trovare capitali per svecchiarsi, crescere, innovare e accettare una sempre maggiore attenzione all’efficienza nei costi, anche energetici. In passato ciò valeva per le produzioni di base, e non valeva per il lusso e la qualità. Oggi valgono per chiunque. Ecco perché ci saranno ancora tante operazioni di finanza straordinaria, e prime fra tutte : altre fusioni e acquisizioni.

Gli effetti pratici delle politiche ESG degli investitori, delle problematiche ambientali e la transizione energetica, della necessità geopolitica del “reshoring” (ritorno a casa) di molte produzioni, nonchè dell’impatto delle nuove tecnologie, condizionano fortemente le scelte industriali e non potranno che stimolare altre fusioni e acquisizioni tra aziende.

Dunque c’è da attendersi che nonostante la guerra, con i costi abnormi dell’energia, e nonostante ancora grandi limitazioni agli spostamenti e agli scambi commerciali, persino di questi tempi le fusioni e acquisizioni continueranno a correre, seppure con qualche scontato rallentamento di ordine temporale!

PRIVATE EQUITY & VENTURE CAPITAL

Ci sono poi altri due fattori esogeni che dovrebbero sospingere le aggregazioni di imprese: gli investimenti dei grandi operatori di private equity e venture capital.

  • Il Private Equity è indubbiamente un fattore “push”: se agli imprenditori arriva un’offerta interessante da investitori professionali, essi difficilmente riusciranno a dire di no. E oggi il private equity ha accumulato sempre più “polvere da sparo” (denaro contante raccolto dai propri sottoscrittori) per riuscire a mettere a segno le proprie incursioni. E una volta acquisita la prima azienda di ciascuna filiera occorre moltiplicare gli sforzi per consentirle di creare valore, di aumentarne le dimensioni e di fare leva su ogni possibile margine aggiuntivo: tutte cose che normalmente si traducono in un maggior numero di fusioni e acquisizioni tra imprese dove ha investito il private equity rispetto al caso-base in cui le medesime imprese restino nelle mani dei fondatori;
  • Il Venture Capital è invece più probabilmente un fattore “pull”. Cioè si sviluppa per “risucchio”, rispetto al private equity, che avanza per propria spinta. Gli investitori di venture capital vengono cioè normalmente sollecitati da miriadi di imprenditori in erba, da advisor e da tecnologi di ogni sorta. I quali sperano di essere selezionati tra i mille altri contendenti nella sfida per aggiudicarsi il denaro e le attenzioni degli ”investitori di ventura”. Questo perché nella maggior parte dei casi le innovazioni di ogni genere hanno bisogno di essere ampiamente sovvenzionate da capitali di rischio. Anche il venture capitalist però, una volta definita una certa strategia e partito ad investire in una determinata impresa (o startup), subito dopo si chiede se potrà generare valore aggregandola ad altre simili, ovvero se occorre moltiplicare gli sforzi tecnologici, quelli gestionali o quelli distributivi. E anche in questi casi si generano numerose ipotesi di fusioni e acquisizioni.

Dunque lo sviluppo di queste tipologie di intervento finanziario contribuisce non poco a sviluppare nel mondo le aggregazioni d’impresa, che ci siano o meno conflitti armati. Anzi: in casi di grandi sconvolgimenti epocali come la pandemia prima (con la necessità di sviluppare nuovi farmaci e nuovi presidi sanitari) e la guerra dopo (con la necessità di individuare fonti di risparmio energetico o nuova disponibilità di energie), crescono inevitabilmente anche le esigenze di accelerare sul fronte delle fusioni e acquisizioni.

ELEMENTI A FAVORE E CONTRO LE FUSIONI E ACQUISIZIONI

Lo scenario che si prospetta perciò è caratterizzato da tre generi di spinte:

  • da un lato con la guerra sono intervenuti più timori, minori margini operativi, il rallentamento delle attività produttive, la scarsità delle filiere di approvvigionamento, minor generazione di cassa, minor disponibilità di credito e più bassa valutazione delle imprese. Tutti fattori che tendono a frenare le fusioni e acquisizioni;
  • dall’altro lato le “multi-localizzazioni”produttive, le tecnologie, le esigenze di sostenibilità ambientale e il maggior costo delle energie, spingono in senso opposto: cioè in direzione dello sviluppo di ulteriori attività di fusioni e acquisizioni;
  • infine gli investitori seriali (tanto quelli del private equity quanto quelli del venture capital) man mano che ampliano il loro raggio d’azione, generano anche crescenti esigenze di aggregazioni di aziende, oltre a contribuire a far nascere nuove imprese come pure a farne crescere velocemente la dimensione. E se c’è un maggior numero di aziende attive, o se le medesime sono mediamente più capitalizzate, allora c’è anche, probabilmente, un maggior flusso di fusioni e acquisizioni.

Come si può facilmente dedurre, le spinte all’incremento delle fusioni e acquisizioni sono probabilmente maggiori di quelle che frenano tali attività. Ragione per cui ciò che potrà succedere sarà al massimo un rallentamento delle attività in corso, anche in attesa di conoscere gli esiti della situazione attuale. Situazione oggettivamente non facile, e e non di immediata risoluzione.

LA RIPRESA DELLE BORSE POTREBBE AIUTARE

Nel giro di qualche settimana tuttavia, a meno di una escalation militare oggi di difficile prevedibilità, la situazione del conflitto potrebbe chiarirsi. E il prezzo delle materie prime, come si è iniziato già a vedere, potrebbe ritracciare rispetto ai picchi dei giorni scorsi.

È relativamente probabile perciò che le imprese di ogni parte del mondo continueranno a vagliare, negoziare e concludere nuove importanti operazioni. Probabilmente quest’anno con più cautela e per dimensioni inferiori a quelle viste in precedenza, ma comunque non irrilevanti. Anche le borse potrebbero sospingere non poco le fusioni e acquisizioni, poiché ci si aspetta -seppur con alterne vicende- una qualche prosecuzione dei primi rimbalzi già osservati. E se i moltiplicatori di borsa (e dunque le valutazioni) dovessero riprendersi -soprattutto nelle tecnologie- ecco allora che anche le probabilità di concludere nuove aggregazioni aziendali potrebbero trarne beneficio.

Stefano di Tommaso




OLTRE L’ORIZZONTE

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Cosa succederà di qui a breve? Tutti si sperticano in previsioni catastrofiche e, in effetti, non c’è troppo da stare allegri. Ma oltre l’orizzonte degli eventi (e se non accadrà dell’altro) si può cercare di ragionare per immaginare cosa ci aspetta sulla base delle recenti esperienze. E non tutti i mali vengono per nuocere!

 

LA MISURA ERA COLMA

Tanto tuonò che piovve: la tradizione vuole che la frase fosse esclamata da Socrate dopo che la moglie, avendolo rumorosamente e platealmente redarguito sulla soglia casa, gli rovesciò addosso un vaso d’acqua. Cioè la misura era colma. Quello che non avremmo ragionevolmente ritenuto probabile è successo (l’attacco della Russia all’Ucraina) e l’occidente ha reagito con pesanti sanzioni economiche alla Russia. E non c’è da stupirsi se, dopo tale scelta, e anche la Russia porrà in atto misure simmetriche di ritorsione o se i suoi alleati (Cina in primis) prenderanno ancor più le distanze dall’Occidente. Di seguito l’indice delle materie prime energetiche aggiornato allo scorso venerdì (di pari passo pare che il Petrolio Brent sia giunto a 130$ per barile):

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Ciò danneggia non poco lo sviluppo economico, soprattutto quello dell’Europa. Tuttavia ancora non è chiaro il vero motivo per cui è la Russia ha sferrato l’attacco. Abbiamo ascoltato teorie di tutti i generi e l’unica cosa che abbiamo capito è proprio di non averlo compreso. Le informazioni-chiave sono rimaste occulte e forse non ce n’era da stupirsene. Questo però ricorda la presenza di variabili a-sistemiche nelle possibili previsioni che ci accingiamo a fare, di cui bisognerà tenere conto per non essere troppo sicuri del futuro.

LE BORSE, NEL DUBBIO, HANNO FATTO RETROMARCIA

Le borse -di fronte all’incertezza- hanno supinamente accusato il colpo, con una serie di ribassi che (a livello globale) hanno toccato circa un quinto del loro valore di capitalizzazione. E l’inflazione ha subìto un’impennata ulteriore, che per il momento non viene riportata dalle statistiche ufficiali, ma che non si farà attendere nell’appesantire l’elenco dei danni economici. I tassi impliciti nelle quotazioni dei titoli a reddito fisso sono dì conseguenza saliti ulteriormente, facendone crollare il valore. Lo scenario che si prospetta ai nostri occhi perciò è quello dei postumi di un campo di battaglia. Col rischio di camminare sul terreno ancora minato, ma anche con altrettante opportunità di cui trarre profitto dopo la devastazione intervenuta. Di seguito l’indice più noto relativo all’andamento medio di tutte le borse del mondo (che riporta una perdita da inizio anno di oltre il 12%:

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Chiaramente nulla accade a sproposito. In uno scenario in cui il potere d’acquisto dei consumatori occidentali viene meno a causa degli incrementi dei prezzi, in cui il debito pubblico diviene meno sostenibile a causa del rialzo del costo del debito, e in cui il denaro in circolazione rischia di scarseggiare (se non interverrà la Banca Centrale Europea), allora anche le prospettive di profitto delle imprese si riducono, e inevitabilmente scende il valore intrinseco delle azioni di società quotate in borsa.

MA POI… COSA CI ATTENDE?

Questo però attiene allo shock del momento, non alle prospettive di lungo termine, a meno che anche la guerra in atto, ancora vista dai più come una manovra di neutralizzazione del potenziale militare ucraino, possa estendersi, se non al resto del mondo, quantomeno ad altre zone dell’est europeo (ipotesi improbabile, ma lo era stato anche l’attacco russo).

Però -ai fini di poter valutare correttamente le conseguenze in termini pratici ed economici di ciò che accade- occorre chiedersi di quale termine ai nostri occhi può essere considerato lungo, e quale lo sia agli occhi di chi investe sui mercati. La guerra in atto infatti non sembra destinata a terminare presto, tanto per l’invio ai ribelli dell’Ucraina di armi e supporti da parte dell’Europa, quanto per la determinazione mostrata da Putin in risposta alle provocazioni subite.

La sensazione è pertanto che quella in corso si possa trasformare in una lunga guerra di posizione, dove le truppe della Federazione Russa punteranno a raggiungere un disarmo unilaterale dell’Ucraina e la sua “neutralizzazione” (fino all’instaurazione di un governo di transizione) cercando di non colpire la popolazione civile e le abitazioni, mentre i ribelli (e chi da dietro soffia sul fuoco della rivolta) punterà invece a creare situazioni di panico, a trasmetterne le drammatiche immagini in occidente per giustificarne il supporto logistico, e a trasformare i campi ucraini in qualcosa di simile alle foreste amazzoniche del Vietnam, dove la Russia possa incontrare un notevole impedimento a completare in fretta la sua campagna militare.

Se ciò sarà (ed è piuttosto probabile) si possono prevedere due scenari: che la Russia attenda pazientemente di completare la sua opera secondo le direttive attuali, oppure che possa alzare la posta in gioco, anche grazie al principio del “perso per perso” (dal momento che l’occidente la dipinge già come un regime sanguinario, tanto vale incrementare la pressione militare e terminare prima possibile l’operazione).

LE MACRO-VARIABILI ECONOMICHE

Anche se non sappiamo quale dei due si materializzerà, dal punto di vista economico poco cambierà: gli scenari prospettati sono entrambi negativi per le macro-variabili economiche, che proviamo qui sotto a prevedere :

  1. La tensione alimenta costantemente il rincaro dell’energia e delle materie prime (carbone compreso) e il mondo scopre anche di averne più fame di quanto pensava (nonostante le dichiarazioni sulla transizione verde), mentre i paesi estrattori di petrolio e gas hanno bellamente ignorato l’appello a calmierare i loro prezzi, godendo di extra-profitti.
  2. Tanto gli investimenti quanto gli utili delle imprese probabilmente prenderanno una pausa, contribuendo a deprimere i prodotti interni lordi occidentali e il valore intrinseco delle aziende. E potrebbe frenare anche le fusioni e acquisizioni.
  3. I titoli azionari quotati in borsa di conseguenza potrebbero continuare a scendere ma, come ai tempi del primo impatto da Covid19, le borse hanno già notevolmente anticipato gli eventi con importanti e bruschi cali dei loro listini, dunque una volta che la prospettiva dovesse chiarirsi con la mancata escalation del conflitto, le loro quotazioni potrebbero rimbalzare.
  4. Ovviamente come in tutti i casi di precedenti “cigni neri” le azioni delle imprese quotate (se mai dovessero farlo) non risaliranno tutte allo stesso modo: alcune addirittura potrebbero guadagnarci, altre è possibile che restino depresse, perché questi eventi accelerano sempre il ritmo dei cambiamenti di lungo periodo.
  5. Non è infine chiaro come reagiranno le banche centrali: se si muoveranno nella più completa razionalità, allora dovrebbero prendere atto che l’inflazione è la conseguenza di diversi e successivi shock da mancata offerta e che a nulla servirebbe alzare i tassi, cambiando rotta e inondando di nuovo di liquidità il sistema bancario (che adesso rischia il collasso). Contribuendo così anch’esse alla risalita delle borse e a favorire l’arrivo di nuove matricole. Ma non v’è alcuna certezza in tal senso: la vecchia scuola potrebbe sempre prevalere!

I SETTORI PIÙ A RISCHIO

Se le banche centrali daranno una mano però, abbiamo visto come sia probabile che soltanto i titoli azionari di alcuni settori industriali torneranno a crescere, ed è possibile che stavolta siano soltanto i bond a breve scadenza quelli che risaliranno un po’ di prezzo, dal momento che è divenuto sempre più chiaro che l’inflazione è arrivata per restare, e che non ha ancora finito di scaricarsi a valle e sui beni di prima necessità.

Dunque una parte della “decrescita” economica (seppure le statistiche pubbliche come sempre troveranno il modo di addolcire la pillola) ci sarà per forza, e l’inflazione di molti prezzi al consumo non potrà che proseguire il suo percorso. Tutto questo è molto negativo per i settori tradizionali, per i servizi, per le “vendite al dettaglio” e per i beni voluttuari. Forse con la possibile eccezione di immobili, beni di lusso e beni-rifugio (come l’arte o il collezionismo) che invece troveranno alimento dalla loro funzione di “protezione del valore” dall’erosione inflativa.

E I SETTORI CHE CI GUADAGNANO

Quel che si può tuttavia aggiungere è che -mentre tutto ciò accade- nessuno resterà inerme a guardare (né i governi né gli imprenditori), per diversi importanti motivi, e che quindi possiamo attenderci che ci sarà -oltre all’avvio prosieguo della sempre maggior concentrazione della ricchezza in poche mani- anche una ripresa degli investimenti, degli incentivi fiscali e del finanziamento delle nuove tecnologie, da quelle per ridurre consumi ed emissioni, a quelle per produrre energia verde, fino a quelle per la riduzione di ogni genere di costi, a partire dalla robotica avanzata (innanzitutto volta all’automazione industriale):

LA LIQUIDITÀ E LE INNOVAZIONI POTREBBERO AIUTARE LE BORSE

Così come è successo qualche mese dopo l’arrivo della pandemia insomma, in assenza di un’escalation senza fine della tensione geopolitica (sulla quale -ripetiamo- non ci è possibile in alcun modo fare previsioni sensate) e con un aiutino delle banche centrali, potrebbe accadere quel che successe nella seconda metà del 2020: che le borse si riprenderanno e che le nuove tecnologie torneranno ad essere grandi protagoniste dell’accelerazione del cambiamento dei costumi. Soprattutto però quelle cinesi e americane. Le quali potrebbero risultare le grandi vincitrici della pace che seguirà (speriamo) alla guerra.

Chi ha già venduto perciò in borsa forse ha fatto bene, dal momento che la prosecuzione della rotazione dei portafogli potrebbe riservare altre sorprese. Così come chi ha già effettuato importanti investimenti lo ha fatto probabilmente a sconto sui prezzi futuri. Chi invece sta meditando di farlo adesso (o di entrare sul mercato azionario a questi prezzi scontati) si trova a muoversi in assenza di una tendenza definita. L’eventuale escalation militare poi è tutt’altro che esclusa, anche se ci si rende conto del fatto che sarebbe drammatica.

Non è facile perciò riuscire a interpretare le grandi trasformazioni di fondo dell’economia, onde non imboccare la strada sbagliata! Se non lo si è già fatto conviene piuttosto raccogliere del denaro (a titolo di finanziamenti o di capitale), e attendere invece nell’investirlo.

Stefano di Tommaso




DELLA FOLLIA E DELLE SUE CONSEGUENZE

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Al di là delle ragioni e delle colpe del conflitto armato ucraino, l’Europa rischia di pagare un prezzo molto elevato per il suo sostegno alle posizioni americane, tanto in termini di forniture energetiche e mancate esportazioni, quanto per i maggiori costi cui andranno incontro le sue imprese. Senza contare il fatto che sarà chiamata più di chiunque altro a sostenere l’emergenza umanitaria. Una nuova cortina di ferro ad Est potrebbe poi rivelarsi in uno svantaggio netto per il nostro continente. Le borse lo hanno già decretato da giorni ma la campagna mediatica di sostegno all’Ucraina sembra volercelo far dimenticare. Intanto le bollette salgono e la ripresa rallenta…

 

LE RAGIONI DEL CONFLITTO

Purtroppo è successo. Sembrava che la guerra non dovesse scoppiare perché rappresentava un esito poco razionale di un confronto decisamente strategico. Avevamo ritenuto che la partita dell’Ucraina potesse andare senza troppo clamore verso una soluzione simile a quella della Crimea. O semplicemente che tutti avrebbero fatto un passo indietro. Invece è successo: la Russia ha attaccato e ha spiegato il suo perché ai pochi che hanno voluto davvero saperlo: il governo di una delle popolazioni più estremiste del pianeta ha compiuto una serie di scelte che sembrano dettate soltanto dalla follia. In particolare ciò che ha determinato l’ “opzione militare” da parte russa sono stati tre elementi: 1) l’installazione di una nuova base missilistica nucleare in Ucraina che puntava verso Mosca, (i media di questo quasi non parlano) 2) l’intensificarsi del bombardamento della popolazione civile nelle repubbliche separatiste e 3) una nuova doppia dichiarazione del presidente Zelenski di voler aderire sia all’organizzazione militare della NATO che all’Unione Europea. Tutto nelle ultime ore.

Così al suo ingombrante (e preoccupatissimo) confinante non è rimasta altra scelta che attaccare tentando di azzerare il potenziale bellico (e belligerante) che si andava accumulando ai propri confini. Pura follia. Ma follia è stata anche quella di Zelenski di rifiutare sistematicamente ogni compromesso che tenesse conto a delle esigenze di sicurezza della Russia. In quanto titolare delle maggiori risorse naturali del mondo la Russia è stata progressivamente pervasa dalla sensazione di accerchiamento da quando la NATO si è allargata a dismisura lungo i suoi confini. Ciò perché all’avvicinamento delle batterie di missili nemici consegue la possibilità di essere aggredita senza riuscire ad avere tempo di rispondere, azzerando il suo potenziale di dissuasione nucleare.

LA FOLLIA HA PREVALSO

Ma follia è stato per la Russia il decidere di passare all’azione militare, perché -sebbene le istruzioni impartite alle milizie possano essere state quelle di colpire soltanto obiettivi militari, l’esercito non sa agire che in un solo modo: colpire. E la possibilità di sacrificare vite umane in caso di attacco militare non si può mai escludere. Si potrà affermare che non era rimasta alla Russia alcuna opzione possibile, ma la verità è che non esiste mai una “opzione militare” davvero saggia. Così come non esiste mai la possibilità di riuscire nella “guerra lampo” (quel blitz-krieg tanto caro ai nazisti che però non ha mai funzionato). Casomai poteva esistere sulla carta una manovra immobilizzante, ma sappiamo che nemmeno questa in Ucraina aveva molte speranze di riuscita. Troppe variabili sono in gioco e troppo imprevedibile è quella popolazione, che fin dai tempi delle guerre zariste era nota per la sua capacità di estremizzare qualsiasi posizione. Insomma, da ogni punto di vista la Russia non doveva attaccare l’Ucraina.

Ma è stata follia anche incitare la popolazione delle città ucraine a rispondere all’invasione con la guerriglia urbana! È ovvio che ciò può avere un costo altissimo in termini di vite umane. Follia è poi, da parte di vari stati europei, fornire alla popolazione civile dell’Ucraina armi e munizioni senza chiedersi cosa ciò può comportare come conseguenza. Si poteva cercare elementi di dissuasione (quale poteva essere l’intervento di truppe ONU, o addirittura si poteva fornire all’Ucraina delle batterie di missili contraerei di nuova generazione (come i Patriot utilizzati in Israele) che forse sarebbero stati capaci di bloccare la maggior parte degli attacchi russi. Ma non soltanto tutto ciò avrebbe avuto un costo finanziario altissimo che evidentemente nessuno si sentiva pronto a sostenere. Soprattutto avrebbe potuto costringere i contendenti a sedersi al tavolo delle trattative. Cosa che, altrettanto evidentemente, non era davvero desiderata dall’Occidente. E allora viene da chiedersene il perché.

QUALI FINALITÀ ?

L’essersi assicurati un’ovvia prosecuzione del conflitto per chissà quanti mesi probabilmente può rispondere a disegni militari e geopolitici americani. Sia perché costituisce l’esatto contrario di ciò che invece poteva sperare la Russia con il suo “blitz”. Ma anche perché ciò manterrà in alto ancora a lungo il prezzo di gas e petrolio (di cui gli USA sono esportatori). Poco importa che altrettanto probabilmente ciò determinerà sofferenza, morte e distruzione in Ucraina e forse non solo lì. D’altra parte questa strategia è in perfetta coerenza con quella di continuare ad alimentare (da otto anni oramai) la guerriglia di stato tra l’esercito regolare dell’Ucraina e i separatisti filo russi delle sue regioni di confine, sino ad auspicare la cosiddetta “pulizia etnica” spingendo la popolazione a fuggire profuga in Russia, così come era successo in Kosovo con la cacciata delle popolazioni non musulmane.

La volontà di umiliare il nemico costringendolo ad un conflitto terrestre non si può però giustificare se per farlo occorre far morire centinaia di migliaia di cittadini (vittime più o meno inconsapevoli dei grandi giochi internazionali). Averli frettolosamente addestrati ed armati è stato come mettere un oggetto contundente nelle mani di un infante: il disastro è decisamente probabile. La condanna della follia di tutti questi eventi e della guerra stessa dovrebbe essere perciò bilaterale, e invece politici e giornalisti occidentali sembrano guardare solo in una direzione.

LE CONSEGUENZE PRATICHE DEL CONFLITTO

Ma soprattutto quel che ci dovrebbe interessare di più sono le conseguenze pratiche di questa guerra per noi Europei, per le nostre attività economiche e per le partnership industriali con l’Oriente. Innanzitutto vediamo allora le conseguenze economiche: è difficile oggi rispondere alla domanda principe: come se la caverà l’Europa con il prezzo delle risorse naturali alle stelle? Male grazie! Ma è altrettanto difficile misurare anche le ricadute a medio/lungo termine delle nostre severissime “scelte di campo”. Lo schiacciamento politico dell’Unione Europea sulle scelte filoatlantiche rischia infatti di avere un costo.

L’industria del vecchio continente non vive granchè di esportazioni in Africa e America tanto quanto di quelle in Asia e nel bacino pacifico. Le seconde sono da tempo molto più importanti delle prime. E nelle aree di influenza russa e cinese le nostre “scelte di campo” rischiano di venire assai poco apprezzate in futuro. Cosa succederà se questo dovesse determinare un inaridimento degli scambi economici con la parte del mondo più vitale e più in sviluppo?

Ma soprattutto cosa succederà se potremo importare sempre meno risorse naturali dalla Russia? Cosa succederà a tutte quelle imprese “energivore” che per almeno un paio di anni dovranno fronteggiare costi decisamente eccessivi? E’ ovvio che alcune chiuderanno o falliranno. E che altre dovranno riallinearsi su posizioni e modalità di gestione completamente diverse se vorranno sopravvivere. Tanto nelle fabbriche come nei servizi. Persino la finanza e le opere infrastrutturali subiranno forti contraccolpi e rallentamenti.

E LA CINA POTREBBE DECIDERE DI SCHIERARSI

Per non parlare delle nostre vie di comunicazione e dello scambio delle merci, che potrebbero risultare ridotte verso oriente, dal momento che, col proseguire del conflitto, la Cina (che al momento non sembra ancora volerci mettere bocca) potrebbe nel tempo avere tutto l’interesse a schierarsi più decisamente con la Federazione Russa per offrirle a Oriente quello sbocco naturale che l’Occidente vorrebbe negarle. Una nuova cortina di ferro a est dell’Europa insomma è decisamente contraria ai nostri interessi economici. Noi europei rischiamo di assomigliare al sud-America con l’assottigliamento delle esportazioni di prodotti, servizi e tecnologia verso i mercati orientali. Venderemo cioè meno automobili, impianti, turismo, accessori di lusso e sistemi di software. Perderemo dei posti di lavoro e assottiglieremo i nostri margini industriali. Se si pensa che parallelamente il potere d’acquisto dei salari non potrà che scendere, ecco che possiamo prendere una misura di quello che ci aspetta.

LE BORSE VALORI SCENDONO (QUASI) SOLO IN EUROPA

Le borse valori, non a caso, già stanno scontando tutto ciò penalizzando le quotazioni delle relative imprese coinvolte in Europa e invece recuperando più o meno integralmente le perdite quelle di oltreoceano. Purtroppo, per i motivi che seguono, nemmeno le prospettive sono più così interessanti per le borse europee, dal momento che l’inflazione al galoppo (al seguito della probabile scarsità di gas) non fa ben sperare per i profitti delle imprese. Diverso sarebbe se la Banca Centrale Europea dovesse decidere di riaprire i rubinetti della liquidità a seguito del peggioramento dello scenario, così come ha fatto la Banca Centrale della Cina: allora probabilmente le borse potrebbero tornare a correre ancora per un po’. Ma pesano anche le difficili prospettive per l’anno prossimo. Ragione per cui è ragionevole attendersi nel complesso molta cautela di chi investe in borsa e molta selettività.

I SETTORI (E I PAESI) PIÙ SVANTAGGIATI

C’è infine una considerazione da fare in termini strategici: così com’è successo con la pandemia, anche con l’iper-inflazione in arrivo noi subiremo un’indigesta e forte “disruption” dei vari settori industriali. Cambieranno cioè molti paradigmi. Il rialzo dei costi energetici e l’iper-inflazione in arrivo determineranno un impoverimento del potere d’acquisto dei salari e un calo dei mercati domestici di vendita dei nostri prodotti e servizi. Penalizzando quindi parte dell’industria che ha sempre contraddistinto l’Italia: lo stile, la moda, il tessile, il lusso e l’arredo casa. Le imprese del “made in Italy” rischiano poi seriamente di vendere di meno anche in Oriente.

E se il prezzo dell’energia e l’inflazione ridurranno il potenziale di crescita economica, le nostre banche avranno meno margini e molti più crediti in sofferenza. Le nostre proprietà immobiliari perderanno valore a causa della citata “deflazione salariale” di fatto imposta dai cambi rigidi e dalla poca liquidità che circolerà come conseguenza della restrizione degli spazi potenziali per le nostre esportazioni.

La risalita dei tassi nominali che consegue all’inflazione rilancerà poi ancora una volta i problemi di eccesso di debito dell’Italia e la nostra dipendenza dalla banca centrale europea. Il rialzo dei costi accelererà inoltre la domanda di tecnologia e, a tutti i livelli, di prodotti e servizi “digitali”. Da questa “disruption” è assolutamente evidente che guadagneranno quasi soltanto gli americani ed è altrettanto evidente che ci perderanno quasi soltanto gli europei e in particolare Germania e Italia che hanno la maggior potenza industriale.

GLI OBIETTIVI AMERICANI E I COSTI PER L’EUROPA

I nostri “alleati” insomma non sono del tutto disinteressati nelle scelte strategiche che ci impongono con l’espansione a est della NATO. E stanno soltanto portando avanti un doppio disegno egemonico: oggi riducendo gli spazi di interlocuzione dell’Europa con l’Oriente, domani cercando di trovare un punto di rottura nella resistenza all’occidentalizzazione del gigante russo, dal momento che -per le grandi multinazionali- il controllo delle risorse naturali russe potrebbe aiutarle a consolidare la loro egemonia economica anche nei confronti delle imprese del sud-est asiatico, dove invece la Cina sta arrivando a prevalere e dove l’India sta iniziando a guadagnare una propria autonomia politica.

I nostri leader di governo probabilmente lo comprendono benissimo, ma per qualche ragione non si comportano di conseguenza. L’Europa avrebbe cioè tutto l’interesse, se non a tenere rapporti di buon vicinato con la Federazione Russa, almeno a condannarla si, ma anche a non allinearsi a infliggere pesantissime sanzioni economiche, che danneggeranno inevitabilmente anche sé stessa. Si limita invece ad allinearsi alle scelte americane, anche quando significano spargere altro sangue o perdere posizioni economiche che rischiamo di non recuperare mai più. I mezzi di comunicazione di massa potranno anche tentare di presentare ai nostri occhi una storia diversa, ma la verità, si sa, alla fine emerge sempre, almeno sino a quando resterà ancora acceso qualche barlume di democrazia!

Stefano di Tommaso




I COSTI DELLA GEOPOLITICA

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Gli economisti di tutto il mondo sembrano concordare: la ripresa nel corso del 2022 probabilmente continuerà, sebbene a un ritmo sicuramente meno forte di quello precedente. Se così avverrà si saranno rivelate esatte le previsioni stilate nel corso del 2021 in cui si preannunciava un rimbalzo deciso -dopo il crollo del 2020- nel corso dell’anno passato ed un prosieguo della ripresa fino ai livelli di output produttivo del 2019 nel corso del 2022. Le borse però temono dell’altro. E nel frattempo scendono.

 

LO SCENARIO GENERALE È PEGGIORE DI QUELLO PRE-PANDEMICO

Peccato infatti che le condizioni generali in cui prosegue la ripresa economica siano divenute molto diverse da quelle del 2019, i cui livelli di output si dovrebbe tornare a eguagliare. Quello era un anno in cui i tassi d’interesse risultavano sostanzialmente azzerati, come pure l’inflazione era ai minimi storici e la disoccupazione viaggiava verso livelli molto bassi persino in paesi periferici come il nostro. La ripresa del 2020-2021 perciò è arrivata insieme con una serie condizioni peggiorative che oggi fanno sussultare le borse e alimentano il forte timore che le contromisure che le banche centrali si apprestano a disporre a freno dell’inflazione possano cancellare anche quel poco che resta delle speranze di sviluppo.

I DANNI DELL’INFLAZIONE

L’inflazione è stata indubbiamente sottovalutata sino a ieri e oggi è divenuta il maggior cruccio di studiosi, operatori, governanti e banchieri, ma viene affrontata in modo tardivo. Il principale mezzo attraverso il quale essa sta arrivando a nuocere è senza dubbio il maggior costo di gas e petrolio, arrivato a moltiplicarsi (soprattutto quello del gas, che in Europa scarseggia anche per motivi strutturali) a livelli nemmeno immaginabili già soltanto un anno fa. L’inflazione è poi un mostro dalle molte appendici.

Essa può deprimere le aspettative di profitto delle imprese, mettendo a rischio i ritorni attesi dagli investimenti programmati e l’ampliamento conseguente dei posti di lavoro. Può distruggere il valore dei risparmi di una fetta sempre più grande dell’umanità che sono gli anziani e i pensionati, ma soprattutto può rilanciare il valore nominale dei tassi d’interesse e far traballare i soggetti più indebitati, a partire dai numerosissimi governi nazionali che hanno sino ad oggi contrastato la recessione da lockdown con sussidi presi a prestito dalle banche centrali.

Se è attraverso la bolletta energetica che l’inflazione sembra più che mai arrivata per restare e, anzi, per gonfiare i prezzi ancor più di quanto abbiamo sperimentato al carrello del supermercato sino ad oggi, allora probabilmente gli scenari più oscuri sulle sorti della nostra economia guadagnano il loro diritto di cronaca. A partire dal fatto che la “crescita sincronizzata” che si era vista negli ultimi anni nelle varie zone geografiche del globo oggi rischia di scomparire per sempre.

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LA CRESCITA “SINCRONIZZATA” È SPARITA

L’Asia infatti ha subìto minori danni dalla pandemia e risulta sufficientemente lontana dalle tensioni geopolitiche dell’Europa orientale. La sua crescita infatti sembra tornata poderosa e i governi centrali mostrano minore incertezza di quelli occidentali.

L’America invece ha subìto danni ingenti nelle proprie filiere di approvvigionamento delle fabbriche e nel numero di morti nella popolazione (soprattutto quella più indigente), ma può innanzitutto contare su un’assoluta auto-sufficienza energetica e inoltre ha la capacità di incrementare il proprio debito pubblico senza il timore non vederlo coperto dalla banca centrale. Ma è anche il Paese che sta reagendo più velocemente all’inflazione, onde poter rimettersi in ordine prima di altri.

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L’Europa invece non soltanto rischia di pagare un elevato prezzo economico per la sua unione politica a metà, ma è anche l’area geografica che rischia di subìre le peggiori conseguenze nello scontro frontale che sta per prendere piede tra Oriente e Occidente ai confini della Federazione Russa con l’interruzione della fornitura di metà di tutto il gas che importa. Ed è anche la regione la cui Banca Centrale (la BCE) stava sperando di tirare dritto il più a lungo possibile con la politica dì tassi bassi onde non vedere frantumata l’Unione nella spirale dei debiti pubblici più elevati del mondo.

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SE LA FEDERAL RESERVE SI FA PRENDERE DAL PANICO…

Inutile dire che, se la Federal Reserve Bank of America (FED) dovesse accelerare la stretta dei tassi d’interesse già preannunciata sarà sufficiente il gioco delle aspettative (pur senza che si scateni alcun conflitto armato, che auspicabilmente nemmeno stavolta prenderà corpo) per mandare in crisi l’approccio da colomba della BCE, rilanciando le aspettative inflazionistiche e, probabilmente, rilanciando ancora una volta i prezzi di gas e petrolio, che tutto sommato fanno comodo agli americani che ne sono esportatori netti.

L’euro-zona, già esposta più di altre zone geografiche alle possibili conseguenze dì un conflitto armato ai suoi confini, rischia cioè oggi di entrare in un limbo fatto di “stag-flazione” (cioè stagnazione più inflazione) dove potrebbe rimanere sepolta molto a lungo se le proprie imprese dovessero mettere in pausa i propri programmi di investimento e se i propri governi dovessero traballare nella volontà dì spendere molto altro denaro nell’ampliamento delle proprie infrastrutture, tecnologiche, architettoniche e strategiche.

Il rischio geo-politico insomma, oggi soltanto marginalmente ”prezzato” dai mercati finanziari, potrebbe far esplodere soprattutto in Europa le tensioni speculative e i timori sulla tenuta dei giganteschi debiti pubblici accumulati sino ad oggi e ulteriormente esasperati dalla necessità di contrastare la deriva pandemica.

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…È L’EUROPA CHE RISCHIA DI FARNE LE SPESE

Se tale rischio dovesse iniziare a prendere forma concreta tra l’altro si materializzerebbe la possibilità che le quotazioni delle borse europee si sgonfino e che la liquidità evapori dai mercati finanziari e dal sistema creditizio del Vecchio Continente per prendere la volta dell’Asia (dove ci si attende maggior stabilità politica) e dell’America (che arriverebbe a offrire più elevati rendimenti).

Ovviamente (e grazie a Dio) non vi è alcuna certezza che la FED si lasci prendere dal panico accelerando il proprio programma di contrasto all’inflazione, né nella possibilità dell’aggravarsi delle tensioni geopolitiche con la Russia, con il conseguente probabile ulteriore rincaro delle materie prime. I timori del possibile maggior costo del denaro e dell’energia non sono perciò del tutto fondati, ma è comunque il gioco delle aspettative ciò che può far saltare il banco.

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Se la NATO accumula infatti truppe e munizioni in Ucraina (cioè ai confini della Federazione Russa e in un territorio dove un terzo della popolazione è di lingua ed etnia russa, cioè diversa da quella imperante ucraìna e questo terzo della popolazione è sotto continui attacchi provenienti addirittura dalle forze governative) è logico che anche la Russia rafforzi le sue posizioni ai propri confini e che valuti ogni possibile scenario, anche soltanto in soccorso di quelle popolazioni. E man mano che l’ammassamento prosegue, i rischi di qualche incidente tattico aumentano e, con esso, le probabilità della guerra.

Dunque è plausibile ancorché al momento sia anche improbabile, che si scateni la cosiddetta tempesta perfetta. E la sua possibilità è più che sufficiente ad accrescere le pressioni speculative che puntano a ulteriori rincari dei combustibili di derivazione fossile. Gli analisti se lo attendono e, come corollario, anche i prezzi di molte altre materie prime potrebbero seguirli.

IL COSTO DELL’INCERTEZZA POLITICA

La crisi diplomatica e l’imperversare dell’inflazione portano quindi con loro ulteriore incertezza politica a tutti i livelli, a partire dai rapporti secolari tra America e Cina, fino alle sempre più frequenti manifestazioni di piazza in Occidente, che nascono spontanee per contrastare la soppressione delle libertà individuali che è seguita alle misure di prevenzione dai contagi. E l’incertezza politica ha sicuramente un costo: quello della necessità da parte dei governi in carica di tenere elevate le loro politiche di welfare (cioè di assistenza socio-sanitaria) che a loro volta alimentano i deficit pubblici e i timori di nuovi shock di fiducia sui mercati finanziari.

La possibilità di una nuova frantumazione delle filiere internazionali di fornitura di manufatti provenienti dal blocco asiatico danneggerebbe infatti i consumatori occidentali, ma ancor più le imprese, che si vedrebbero costrette a creare nuove fabbriche in Occidente e, nel frattempo, a subire maggiori costi di produzione, che inevitabilmente si rifletteranno anche a valle, sui mercati di sbocco.Ma il costo di gran lunga più elevato relativo al propagarsi dell’incertezza risiede nella possibilità che essa arresti quella tanto attesa “normalizzazione” che il mondo si aspettava con l’esaurirsi della pandemia, dalla ripresa dei viaggi e -soprattutto- dalla piena ripresa del commercio mondiale (si veda il grafico qui sotto riportato relativo al commercio mondiale).

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La considerazione che prevale dunque è quella che stavolta, a dispetto delle rosee previsioni diffuse sino a ieri, sulle prospettive economiche europee, sia proprio il vecchio continente quello che potrà partire le peggiori conseguenze derivanti dalle tensioni geopolitiche alle proprie porte e dalla possibilità che le risorse energetiche arrivino a scarseggiare, rilanciandone il prezzo.

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Quanto è concreto questo rischio? Difficile dirlo, dal momento che le variabili geopolitiche non seguono una traiettoria lineare né sono figlie soltanto delle conseguenze razionali. Spesso prendono pieghe inaspettate, tanto in senso positivo quanto negativo. Bisogna dunque riuscire a gettare il cuore al di là dell’ostacolo e prefigurare anche scenari decisamente più positivi, nei quali le tensioni inflazionistiche arrivino presto a scendere di concerto con quelle geopolitiche, e permettano alle banche centrali atteggiamenti più accomodanti, ancora oggi ultra-necessari per procedere nell’ampliamento delle infrastrutture che il progresso economico richiede a gran voce!

MA -INFLAZIONE O NO- I TASSI SALIRANNO UGUALMENTE

Ma persino in tal caso (inflazione domata e tensioni attutite) la forte volatilità dei mercati finanziari potrebbe permanere ai livelli attuali, tanto per effetto della grande liquidità in circolazione che, in caso di scenari più positivi che si rifletterebbero in una crescita economica globale più accentuata, quanto per il sommarsi ad essa anche di una maggior velocità di circolazione della moneta. Lo scenario più positivo dunque vedrebbe comunque un rischio di surriscaldamento dell’economia che porterebbe comunque a far crescere i tassi di interesse, pur in presenza di una riduzione dei rischi di inflazione dei prezzi.

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Cosa che fa pensare che i rialzi dei tassi attesi (circa un punto percentuale, spalmato in circa un anno di tempo, secondo la FED) arriveranno comunque, e che si propagheranno più che probabilmente anche al resto del mondo, anche qualora le tensioni si placassero e la Banca Centrale Europea potesse riuscire a mantenere un assetto rilassato. Anzi la BCE farebbe sicuramente bene a restare cauta nel virare in direzione di maggior rigore. Non soltanto per venire incontro alle esigenze dei paesi periferici come il nostro, dove le tensioni sulla tenuta dei debiti pubblici potrebbero farsi più pressanti, ma anche per permettere alle proprie banche di proseguire ad erogare finanziamenti, che altrimenti scarseggeranno.

Ma -comunque andrà- l’effetto finale in Europa non dovrebbe essere molto diverso: è probabile che i tassi di sconto delle banche centrali si manterranno indietro rispetto all’innalzamento quasi certo della curva dei tassi d’interesse, con il rischio (ovvero l’opportunità, per Paesi come il nostro) che la Divisa Unica torni a svalutarsi rispetto al resto del mondo. Questo significherà un nuovo apprezzamento del Dollaro, o quantomeno una sua maggior forza di fondo, cosa che porta ad escludere nel medio termine (entro l’anno, dunque) il tanto ventilato rimbalzo verso il basso del biglietto verde.

E LE BORSE TRABALLERANNO, MA NON CROLLERANNO

In conclusione tanto le tensioni geopolitiche (con il conseguente rischio che l’inflazione si consolidi verso l’alto), quanto la probabile risalita dei tassi d’interesse, come pure la possibilità che il Dollaro torni ad apprezzarsi, fanno pensare nel medio termine a scarse performances delle borse mondiali, i listini delle quali peraltro si sono ridimensionati sino ad oggi quasi solo per l’incidenza negativa della discesa dei titoli più speculativi e dove i moltiplicatori del reddito erano ascesi a livelli eccessivi.

Ma la situazione attuale di tassi di interesse reali negativi, di elevata liquidità (con la possibilità che essa permanga a lungo in circolazione nonostante i proclami delle Banche Centrali) e anzi gli si sommi anche l’effetto dell’accelerazione della velocità di circolazione della moneta, sono tutti fattori che fanno ritenere sia relativamente improbabile un crollo delle borse, pur in presenza di un incremento delle tensioni internazionali.

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A meno di importanti conflitti armati dunque, lo scenario condiviso dalla maggioranza degli osservatori non prevede alcun crollo delle borse. Ma una maggior volatilità invece sì, a partire dalla giornata odierna. Ed è sempre più difficile discernere tra i due fenomeni senza perdere la bussola di una navigazione sicura.

Stefano di Tommaso