L’EUROPA RALLENTA,MA NON È“MAL COMUNE,MEZZO GAUDIO”

È un proverbio nato con Cicerone, che promuove l’idea del mimetizzarsi con il malessere diffuso per tamponare psicologicamente la pena derivante dai propri problemi. In questi giorni i dati macroeconomici di Germania e Francia sono divenuti decisamente negativi: l’indice Pmi manifatturiero emesso a dicembre è in netto calo: in Germania è sceso a 51,5 punti rispetto ai 51,8 di un mese fa mentre quello relativo ai servizi è invece risultato pari a 52,5 punti, in calo rispetto ai 53,3 di un mese fa. Ancora più pesanti i dati francesi: l’indice Pmi manifatturiero della Francia è risultato pari a 49,7 rispetto ai 50,8 del precedente, mentre quello dei servizi si è attestato a 49,6 punti, in discesa rispetto ai 55 punti di metà novembre.

 


(Qui sopra: il disavanzo commerciale francese)

 

I dati del terzo trimestre 2018 hanno rivelato un forte rallentamento della crescita economica per l’intera area Euro che, una volta destagionalizzata, è ridotta allo 0,2% sul trimestre precedente: il peggior risultato dall’inizio del 2013 ! La riduzione delle esportazioni, il regresso del settore “automotive” e una certa fuga di capitali verso l’area Dollaro che ha rinviato qualche investimento hanno congiurato per tale risultato.

(nel grafico qualche numero chiave fornito dal Fondo Monetario):


La Francia si è poi affermata quest’anno il paese con la più elevata tassazione al mondo, raggiungendo il 46,2% del prodotto interno lordo, buona seconda la Danimarca, con il 46% netto. Terza la Svezia, al 44% e soltanto quarta l’Italia, al 42,4% del P.I.L. Anche per questo la Francia non può permettersi di concedere al popolo in rivolta tagli di tasse o altre pubbliche prebende, se non portando il suo disavanzo dei conti pubblici al 3,4% (cosa sulla quale non si è notata la benché minima reazione dell’U.E.) mentre l’Italia può invece permettersi addirittura di tentare una manovra leggermente “espansiva” pur contenendo il deficit al 2% e questo non le risparmia ugualmente la minaccia di una procedura comunitaria d‘infrazione (per eccesso di deficit).


Come si spiega tutto ciò? Probabilmente con la politica e con la psicologia, ma soprattutto con lo scarsa influenza che il nostro paese può vantare nei confronti dei governanti comunitari.

In psicologia il bisogno di appartenenza, di sentirsi “come” gli altri influenza non poco le intere comunità, anche quelle professionali. L’Unione Europea ha indubbiamente fatto leva su sentimenti comuni come questo nel catturare il consenso popolare nei paesi membri come l’Italia. Ma ora stiamo sperimentando cosa significa, in un ambiente in cui gli altri si sentono accomunati da leadership politiche simili, il provare ad essere, anche di poco, diversi. È stato come gettare il guanto in segno di sfida e la reprimenda del governo europeo non si è fatta attendere!

Eppure l’Italia ha il saldo delle partite correnti (Bilancia commerciale + trasferimenti) così come l’avanzo primario dei conti dello stato (cioè prima di contare gli interessi) stabili e positivi da numerosi anni, a differenza di altri paesi europei, come la Francia, che ha un disavanzo primario da lungo tempo, ma oggi l’Italia agli occhi degli altri paesi membri dell’U.E. ha difetti non sanabili da nessuna politica economica:

in primo luogo, in questo momento di sconvolgimento politico dell’Europa ha l’unico governo che gode di oltre del 50% del supporto popolare e che quindi può dirsi democratico e ciò in Europa non è tollerabile,
inoltre non ha Italiani nella Commissione Europea mentre al contrario Moscovici, francese, non casualmente ha posizioni filomacroniane,
infine in questo momento il debito pubblico italiano risulta detenuto per il 72% da soggetti residenti nel nostro paese (ivi compreso il sistema bancario nazionale, che anche per questo motivo è sotto schiaffo) ed è dunque poco influenzabile dalle vendite allo scoperto provenienti dall’esterno che non riesco a giocare troppo spudoratamente al ribasso.

Ora ci manca solo che le tensioni politiche e commerciali dell’Unione con gli Stati Uniti d’America (il nostro alleato di sempre) si acuiscano dopo le ferie perché per l’economia europea si sia costretti definitivamente cantare il “de profundis” facendola sprofondare in recessione prima dell’America. L’effetto spiacevole è che in tal caso vedremo presto inevitabilmente nella recessione anche il nostro paese, con buona pace degli oppositori politici del governo italiano, che ne dedurranno soltanto che la manovra di questo governo (che ha soltanto sei mesi di vita) “era sbagliata”.

Sic transit gloria mundi (si pronuncia ogni volta alla nomina di un nuovo pontefice, anche per ricordare che -morto un papa- se ne fà un altro). Ma purtroppo i burosauri che sono al vertice della Commissione Europea è più probabile che preferiscano affondare con la loro nave (la Commissione) alle prossime elezioni (tra soli tre mesi) piuttosto che scelgano di avviarsi in fretta ad una decisa sterzata circa le loro politiche macroeconomiche, politiche e ideologie che ora si dimostrano sbagliate persino per gli Stati membri che avrebbero dovuto trarne profitto. Politiche e ideologie che tra l’altro fanno ancora trasparire quell’atavica voglia di “austeritàa prescindere” per paesi considerati spendaccioni come il nostro, da sempre malcelata.

Stefano di Tommaso

 




GUERRE COMMERCIALI IMMAGINARIE

Ho appena letto l’articolo di Martin Wolf sul Financial Times di ieri (“TRUMP DICHIARA GUERRA COMMERCIALE ALLA CINA”) nel quale afferma che il Governo Americano è alternativamente matto o sfrontato nel richiedere alla Cina “concrete e verificabili azioni” per raggiungere risultati nelle seguenti direzioni (traduzione testuale):
•Ridurre lo squilibrio commerciale tra i due paesi di 100 miliardi di dollari nei prossimi 12 mesi e di altri 100 miliardi nei successivi 12 mesi

•Eliminare i sussidi di stato che distorcono la concorrenza delle imprese cinesi con quelle americane e conducono ad un eccesso di capacità produttiva delle prime

•Rafforzare la tutela in Cina della proprietà intellettuale straniera

•Eliminare l’obbligo delle imprese straniere di trasferire tecnologia alle imprese cinesi per ottenere il permesso di procedere a joint-ventures in Cina

•Cessare i cyber-attacchi alle imprese americane, il loro spionaggio, la contraffazione dei loro prodotti e la pirateria sui loro diritti

•Rispettare le leggi americane sul controllo delle esportazioni

•Ritirare la richiesta al WTO di imporre tasse sulla proprietà intellettuale straniera

•Cessare azioni di ulteriore rivalsa in risposta alle iniziative degli USA volte al riequilibrio dei rapporti commerciali e alla tutela della loro sicurezza militare

•Bilanciare in pari misura le restrizioni e le tariffe imposte agli scambi commerciali USA-CINA

•Permettere controlli sanitari e sulle condizioni umane di lavoro nelle imprese cinesi che vogliono esportare alimentari in USA.

Al di là della mia incondizionata condanna ai giornalisti ed intellettuali che ritengono di potersi permettere toni così dispregiativi delle istituzioni di paesi terzi che vantano governi davvero eletti democraticamente, ditemi Voi se le richieste di Trump, benché maledettamente dirette ed esplicite e dunque contrarie ai bizantinismi della diplomazia, possano risultare “ridicole” o “impossibili” !

 


A me viene da pensare il contrario e da rivolgere un applauso a chi ha avuto il coraggio di sfidare lo “status quo” e denunciare le disparità di trattamento che sembravano divenute normali sotto le precedenti amministrazioni governative americane.

Ma è chiaro che nel fare ciò, per qualche ineffabile motivo, il presidente americano ha contro l’intero establishment della stampa internazionale.

Il bello è che lo stesso autore sulla medesima testata afferma al termine dell’articolo che in effetti la Cina dovrebbe riconoscere di essere divenuta una superpotenza economica e militare e dovrebbe finalmente accettare i principi del diritto internazionale e quelli del libero commercio aprendosi ad una discussione franca e multilaterale sul commercio internazionale. Ma secondo il medesimo autore non dovrebbe essere l’America da sola e per prima che getta il sasso nello stagno bensì una commissione congiunta con l’Europa e il Giappone. Come dire che l’urgenza non esiste.

Difficile aggiungere commenti a quanto riportato senza rischiare di essere di parte. Basta solo leggere con autonomo giudizio quanto scritto dal medesimo defraudatore delle dignità altrui.

(le immagini riportate sono tratte dal medesimo articolo)

Stefano di Tommaso




PERCHÉ IL DOLLARO SCENDE?

Superato il “sell-off”delle ultime settimane, Wall Street è tornata a toccare nuovi massimi, le statistiche più recenti diffuse dalle autorità americane forniscono riscontri più che incoraggianti e l’attesa per ulteriori incrementi dei tassi di interesse da parte della Federal Reserve è addirittura cresciuta e, con essa, i rendimenti dei titoli obbligazionari ma, nonostante tutto ciò, il Dollaro continua a svalutarsi nei confronti di praticamente tutte le altre valute!

 

IN CADUTA LIBERA

L’anno scorso il biglietto verde si è svalutato infatti del 9% nei confronti delle principali valute di cambio, nonostante una crescita economica superiore alle attese e quest’anno in un mese e mezzo è sceso di un ulteriore 3% sebbene le prospettive del paese siano ancora migliori e si accompagnino a due fattori che dovrebbero migliorarne ulteriormente l’appetibilità : la forte riduzione delle aliquote fiscali e il conseguente rientro dei capitali detenuti all’estero dalle grandi multinazionali americane.

Ovviamente tutti si chiedono perché. La vicenda smentisce una serie di assiomi dettati da tutte le teorie economiche e, evidentemente, desta molti dubbi anche sulla possibilità che possa andare avanti a lungo.

LE POSSIBILI SPIEGAZIONI

Una prima risposta potrebbe venire dalla scarsa fiducia che i maggiori operatori vogliono mostrare sulla capacità dell’amministrazione Trump di tenere a bada il deficit di bilancio che deriverà dalle minori entrate fiscali (questi ha puntato sulla riduzione delle spese deducibili e sulla crescita del prodotto interno lordo per controbilanciarle). Ma l’eventuale ampliamento del debito pubblico americano non è di per se un forte argomento per vendere dollari, perché il primo risultato sarebbe quello di un’ulteriore crescita dei rendimenti dei titoli e quindi invoglierebbe ulteriori capitali a trasferirsi oltre oceano.

Una seconda risposta, questa volta più fondata, potrebbe arrivare dalle attese di inflazione per l’economia americana, che controbilancerebbero la salita dei tassi portandone a nullità l’effetto sui tassi reali d’interesse (al netto dell’inflazione) o peggio riducendoli. Si tratta tuttavia di illazioni non supportate dai fatti, dal momento che nessuno dispone di statistiche sui prezzi che non siano di pubblico dominio.

Ancor più fondati sarebbero però i dubbi sugli effettivi rendimenti degli investimenti finanziari sul mercato americano se sommiamo a quelli sui tassi d’interesse reali anche I dubbi sulla tenuta del mercato borsistico statunitense, oggettivamente sopravvalutato rispetto a tutti gli altri, sebbene questo fenomeno sia una costante da decenni (in compenso è sempre stato più liquido e più trasparente).

Chi vende allora i dollari sarebbero soprattutto gli investitori, i quali hanno ben a mente che veniamo da un periodo recente di grande risalita del biglietto verde e che sino a ieri avevano a lungo controbilanciato l’effetto depressivo sui cambi che deriva dal deficit strutturale commerciale e delle partite correnti tra USA e resto del mondo con l’allocazione di capitali stranieri sul mercato finanziario americano. Ma oggi -grazie anche alla globalizzazione dei mercati finanziari- essi trovano più interessante puntare altrove le loro scommesse.

IL RUOLO DELLA SPECULAZIONE

Ovviamente però a costoro si aggiunge la speculazione, che sembra abbia puntato in totale qualcosa come 13 miliardi di dollari in scommesse contro la valuta a stelle e strisce. Speculazione che spera di trovare nel tempo supporto nelle scelte degli investitori finali perché dovrebbe invece correre presto ai ripari qualora l’economia americana dovesse continuare a correre, Wall Street dovesse stabilizzarsi nuovamente e l’inflazione rimanesse entro i limiti fisiologici del 2-3% (cioè al di sotto della crescita del P.I.L.).

Stefano di Tommaso




L’ENIGMA DEL DOLLARO DEBOLE E LA VARIABILE NASCOSTA DEL 2018

Cosa succede al biglietto verde perché esso scenda in picchiata di oltre il 10% nel 2017 nonostante abbia effettuato tre rialzi dei tassi (e altri tre ne abbia promesso per il 2018) nonostante la crescita del prodotto interno lordo americano abbia raggiunto il 3% e prometta faville a causa del taglio fiscale, nonostante la BCE se le inventi tutte per far scendere l’euro al cambio e nonostante che quest’ultima, insieme alla stragrande maggioranza delle altre banche centrali, stia ancora pompando liquidità a tutto spiano (che in parte finisce anche a Wall Street) ? Difficile, come si può vedere dai quattro dati appena citati, fornire spiegazioni razionali a questa e a altre dinamiche di una finanza globale che sembra aver perso da tempo la correlazione di un tempo tra le variabili economiche e fors’anche il lume della ragione. Eppure le ragioni -perché qualcosa accada- ci sono sempre. Proviamo perciò ad andare un po’ più a fondo per scoprirlo.

LA LEGGE DELLA DOMANDA E DELL’OFFERTA


Innanzitutto teniamo bene a mente che, teorie economiche e correlazioni statistiche a parte, a determinare le sorti di qualsiasi variabile economica insiste, prima di ogni altra, la legge della domanda e dell’offerta: se qualcuno vende dollari e compra altre divise evidentemente è perché preferisce fare così, oppure ve ne è costretto.

Esiste dunque una tematica di fondo relativa alla sfiducia degli investitori globali sull’economia americana? Sebbene ciò non abbia molto senso logico, viene da rispondere che evidentemente sì, esiste, altrimenti succederebbe il contrario: il dollaro si apprezzerebbe. Quasi impossibile inoltre affermare che il corso del dollaro scenda perché I biglietti verdi sono venduti da coloro che comprano bitcoin, oro ovvero qualsiasi altro bene-rifugio o moneta speculativa: le quantità in gioco non sono neppure paragonabili e, se anche tutto ciò avvenisse contemporaneamente e massicciamente, il cambio del dollaro farebbe fatica a segnare qualche minima differenza. L’economia americana è infatti la prima al mondo in valori assoluti e dunque il mercato del dollaro è davvero molto profondo.

Più probabilmente però il vistoso squilibrio della bilancia commerciale americana un ruolo ce l’ha di sicuro nel determinare la legge della domanda e dell’offerta: se gli americani hanno aumentato fortemente nell’anno in corso i loro acquisti online e quasi tutte le merci acquistate sono arrivate dall’Asia, probabilmente l’effetto “si sente”.

IL RUOLO DELLE ASPETTATIVE

Ma questo a dirla tutta non basta a spiegare, ad esempio, il crescente “spread” (differenziale) tra i rendimenti dei titoli di stato americani a dieci anni e quelli europei (ed in particolare quelli tedeschi). Se il differenziale si amplia è perché gli investitori preferiscono comperare titoli tedeschi -denominati in euro e a rendimenti più o meno nulli- che non titoli americani in dollari -già svalutati e che rendono molto di più-. Torna dunque la tematica della domanda e dell’offerta: se essi lo preferiscono un motivo ci sarà e riguarda evidentemente le loro aspettative.

In effetti le aspettative giocano sempre un ruolo fondamentale.

Che si tratti dell’aspettativa che quel differenziale con il “Bund” (titolo di stato tedesco a 10 anni) si riduca presto, ad esempio, o che l’economia europea alla lunga possa correre più di quella americana (sebbene sia oggettivamente un po’ difficile credere a un vero sorpasso), o che sia l’antipatia per l’amministrazione del presidente Trump, sebbene di solito “pecunia non olet” (il denaro non abbia olezzo) ?

LA VARIABILE NASCOSTA E LE POSSIBILI ASIMMETRIE INFORMATIVE

È più probabile però che la “variabile nascosta” che permetta di fare la quadra con le discrepanze osservate nel, quadro economico di fine anno consista nelle aspettative he riguardano l’inflazione. Infatti, nell’ipotesi fantasiosa che l’inflazione americana non corrisponda a quella che attestano le statistiche correnti, bensì risulti molto più elevata, ecco che i tassi di interesse più elevati riscontrati sui titoli del tesoro americano avrebbero più senso e che, evidentemente, anche l’erosione attesa del valore del biglietto verde alla fine giustificherebbe una qualche disaffezione degli investitori che li spinge a venderlo.

C’è solo un particolare però che ancora non quadra: gli investitori professionali internazionali sanno qualcosa che nemmeno la Federal Reserve conosce (o peggio: che non vuole ammettere)? L’enigma finanziario dunque si tinge di giallo e rimanda a possibili trame “complottiste” : forse che esistano pesanti asimmetrie informative che per qualche ragione non devono finire a conoscenza del grande pubblico ? E perché mai ? Oppure l’istinto animalesco degli operatori di mercato li spinge a non fidarsi e a rimanere in sicurezza sospettando che l’inflazione sia più alta pur senza averne le prove?

Forse infine -e più semplicemente- sono in molti a ritenere che l’inflazione, senza essersi ancora manifestata, sia comunque in procinto di fare la sua comparsa. E che questo comporterà un riallineamento monetario nient’affatto grave, ma tale da ispirare tanto ulteriori rialzi del mercato borsistico (nonostante nel 2017 abbia sfondato ogni record precedente) quanto ulteriori scivolamenti del corso dei titoli a reddito fisso, i cui rendimenti nominali dovranno evidentemente crescere perche quelli reali arrivino a incorporare la componente inflattiva. Il punto è che le attuali quotazioni dei titoli a reddito fisso in dollari (ma anche in euro) non sembrano incorporare già uno scenario di forte risalita dell’inflazione, che anzi in Europa preoccupa per la sua quasi assenza.

SE FOSSE VERO COSA SUCCEDEREBBE?

Il problema logico che ne discende però è più ampio: poiché questo scenario comporta l’aspettativa di ulteriori riassestamenti dei titoli a reddito fisso e negli ultimi anni questa “asset class” (categoria di beni sui quali investire) abbia avuto una fortissima correlazione a tutte le altre, esistono solo due possibilità:

•che la possibile ulteriore discesa dei corsi dei titoli a reddito fisso dia luogo a sussulti e scivoloni anche delle borse (e infatti sono in molti a preconizzare maggior volatilità nel 2018), oppure :

•che ritorni una decisa correlazione negativa tra i titoli a reddito fisso e quelli azionari, dal momento che questi ultimi possono contare su un consistente e crescente flusso di dividendi e che dunque possano beneficiare ancora a lungo del superciclo economico espansivo che il mondo sta vivendo oramai da oltre otto anni.

La seconda possibilità farebbe peraltro scopa con le teorie economiche classiche che sino ad oggi appaiono inspiegabilmente inconsistenti con la realtà che vivono gli Stati Uniti d’America, a partire dalla famosa “curva di Phillips” che indica un innalzamento dell’inflazione come conseguenza della maggior pressione salariale e della minor disoccupazione, sino ad oggi completamente smentita dai fatti.

Quella dell’incombenza di maggior inflazione -evidentemente a partire già dal 2018- come variabile nascosta idonea a spiegare le incongruenze, nonché quella che possa approssimarsi un periodo di deciso disaccoppiamento dell’andamento dei titoli a reddito fisso rispetto a quello delle azioni, restano dunque ipotesi più che realistiche, sebbene dell’intero ragionamento sin qui esposto io non possa che avere racimolato soltanto qualche indizio negativo.

Ma come Sir Arthur Conan Doyle faceva dire a Sherlock Holmes: “una volta eliminato l’impossibile, ciò che resta, per improbabile che sia, deve essere la verità”.

Stefano di Tommaso