ECONOMIA DI GUERRA

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Un vecchio proverbio africano dice che quando gli elefanti litigano sono le formiche che si fanno male: ebbene con questa guerra in Ucraina dove il vero scontro è con con gli USA, sono le popolazioni che ne stanno pagando il conto, in Ucraina ma anche in Europa, dal momento che ha generato rialzi dei prezzi di qualsiasi materia prima, con ricadute insopportabili persino per i paesi emergenti. Per l’inflazione poi l’impressione è che il peggio debba ancora venire! E l’Italia appare come uno dei vasi di coccio più deboli nello scontro tra quelli di ferro, con tetre prospettive di ripiombare in recessione.

 

DOVE ARRIVERÀ L’INFLAZIONE…

Stiamo iniziando a fare il callo sui rincari che fioccano in ogni direzione da qualche settimana a questa parte ma, abituandoci, rischiamo di perderne il conto. Le statistiche tendono a minimizzarli citando un’inflazione al 5-6%. Purtroppo però non esiste un prezzo, tra quelli dei beni di consumo della vita quotidiana, che non sia cresciuto ben di più! Quando va bene siamo al +10%. Ed è accaduto solo da inizio d’anno! Per l’energia elettrica siamo arrivati a 600 euro al megawatt, cioè a quasi 5 volte il prezzo fino all’estate scorsa. Lo scorso Gennaio i costi di produzione delle aziende italiane sono saliti del 32,9% anno su anno e, ovviamente l’indice della produzione industriale ha subìto un calo del 3,4% rispetto a dicembre (cioè ancora peggio su base annua).

L’ISTAT fa ancora la media dei prezzi con quelli (rarissimi) che non sono quasi cresciuti, come le sigarette nazionali, il sale, l’acqua minerale, ma anche le pensioni e gli stipendi. Ma nell’anno il conto salirà. A meno di ipotizzare che, dopo la fiammata dei prezzi da inizio anno ad oggi, l’inflazione -come d’incanto- si fermerà per il resto del 2022. Se parliamo di carne, latte, uova, formaggio, pane (il grano poi è letteralmente esploso!) e via dicendo, con ogni probabilità saremo fortunati se ci fermeremo a prezzi più alti di un quinto rispetto a quelli dell’anno prima (20%). Cioè a un’inflazione di stampo sudamericano. Insomma l’inflazione, comunque la calcoliamo, attualmente non viaggia a meno del 10%.

Ma a questo numero bisognerà sommare gli effetti (ancora da venire) dei rincari sulle materie prime conseguiti alla guerra (iniziata 3 settimane fa). I maggiori costi della produzione non si sono ancora scaricati a valle su quelli dei prodotti finiti. Dunque, se proprio dovesse andare molto bene, è probabile che i nuovi rincari del petrolio (passato in queste 3 settimane da meno di 100 USD al barile a oltre 130, con il dollaro americano che per di più si è anche rivalutato sull’euro) si tradurranno alla fine per almeno un terzo in ulteriori rincari dei beni di consumo. Cioè un altro 10% si aggiungerà nei prossimi mesi al +10% reale che abbiamo già totalizzato nei primi due mesi dell’anno.

Ne consegue che il totale dell’inflazione dei prezzi nell’anno 2022 sarà molto più vicino al 20% che non al 10%. A meno -appunto- di magìe politico-fiscali non ancora identificabili al momento o -ancor più magicamente- a meno di ritorni alla normalità dei prezzi di petrolio, gas e altre materie prime, che per il momento sono fantascienza. L’unico paragone storico è con quanto accadde nella prima metà degli anni ‘70, dopo la crisi petrolifera conseguente alla guerra del Kippur (settembre ‘73). Ricordate quali sofferenze ne derivarono? Quante limitazioni furono introdotte, quanti problemi finanziari? E come si svilupparono dì conseguenza le contestazioni giovanili, la rivolta sociale, l’estremismo, il terrorismo e la disoccupazione?

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…E CHI NE PAGA IL CONTO

Dal momento poi che risulta decisamente improbabile che le retribuzioni salariali cresceranno altrettanto velocemente, ecco chiarito sulle spalle di chi andrà a gravare il prezzo della guerra, della retorica politica e delle sanzioni dell’occidente alla Federazione Russa. Ovviamente su quelle di operai, ambulanti, artigiani e impiegati di ogni livello non dispongono di un ufficio stampa, né di un centro studi, per contrastare gli annunci del “mainstream” (cioè il coagulo di stampa, tv, radio e notiziari online). Coloro che dovrebbero rappresentare le classi più disagiate si sperticano invece a ossequiare il “partito della guerra” e vengono poi scoperti a fare grandi affari con le multinazionali (absit iniuria verbis). Ma l’inflazione a doppia cifra invece è reale, e la cinghia dovremo stringerla ugualmente.

Come se non bastasse poi, chi ci rimetterà di più saranno le imprese, molte delle quali dovranno tagliare posti di lavoro e rivedere i programmi di sviluppo, perché difficilmente riusciranno a ribaltare i rincari sui prezzi di vendita. Dovranno quindi tagliare costi di ogni genere, come il personale non necessario, o quelli rappresentanza, comunicazione, i servizi non essenziali e, magari, dovranno rimandare gli investimenti a tempi migliori perché la liquidità scarseggerà e anche la riscossione dei pagamenti sarà più difficoltosa e perché il credito alle imprese sarà centellinato (e non senza una ragione). Molte imprese quindi salteranno in aria, o faranno di tutto per restare in piedi per un po’, per poi aggregarsi.

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Nonostante quanto indicato nel grafico qui accanto, la settimana scorsa la Banca Centrale Europea ha abbassato di nuovo le stime di crescita del PIL dell’Eurozona ad un mero 2,3% per il 2022. Ma sappiamo tutti che verranno probabilmente riviste ancora, perché le statistiche e i dati tendenziali stimati dagli uffici studi possono soltanto riportare i dati già rilevati, non quelli che stanno materializzandosi in questi giorni.

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Per non parlare poi degli USA, dove le statistiche sono un po’ più oneste (per l’inflazione siamo già arrivati al 12%), il paragone con i dati storici è feroce: come si può leggere nel grafico qui riportato infatti, se proviamo a invertire l’andamento dei prezzi (maggiori i prezzi più scende la linea rossa) possiamo trovare un’evidente concomitanza storica della maggior inflazione con il rallentamento dell’economia. Cosa che inevitabilmente sta succedendo anche da noi.

LE IMPRESE PIÙ PICCOLE SPARIRANNO

La tecnologia peraltro ha fatto passi da gigante nel minimizzare i costi di produzione di praticamente qualsiasi cosa. Ma bisogna tenere conto di due fattori che stanno cambiando il mondo: 1) gli investimenti in tecnologia costano, e si applicano meglio alle grandi dimensioni aziendali (le cosiddette “gigafactories” sono già una realtà), con il rischio che ne vengano tagliati fuori tutti gli operatori più piccoli o meno dotati di risorse da investire; 2) una ristretta cerchia che controlla materie prime, energia e risorse naturali ne impone un costo sempre più elevato, contrapponendosi alla discesa dei prezzi dei prodotti finiti.

E ora che uno dei maggiori produttori di materie prime al mondo come la Russia è stato tagliato fuori dai circuiti internazionali dell’offerta, questa si restringe e spinge al rialzo i prezzi della domanda che resta parzialmente insoddifatta. Russia e Ucraina pesavano per il 53% dell’ export globale di ghisa, per il 27% di nickel, il 14% dei fertilizzanti, il 17% dell’uranio e il 32% dell’uranio arricchito (e nel calcolo manca il Kazakhstan che è sempre nell’orbita russa).

Morale: il taglio necessario di costi, derivante dall’esigenza di mettere sul mercato prodotti ancora accessibili al grande pubblico, le cessioni d’azienda, i fallimenti e le varie iniziative che si renderanno necessarie per riequilibrare i conti economici dell’industria, genereranno probabilmente una nuova ondata di “globalizzazione”, la terza, dopo quella derivante dalla digitalizzazione (anni ‘90) e quella conseguente all’ultima pandemia.

Occorre tuttavia notare che gli effetti negativi delle manovre che si renderanno necessarie per contenere i costi di produzione si faranno sentire molto presto: meno occupati diretti delle imprese e anche meno occupati indiretti (terzisti, cooperatori, piccoli artigiani, trasportatori, manutentori e fornitori di servizi vari). Meno investimenti significheranno poi meno lavoro per tutti gli altri: gli impiantisti, i fabbricanti di macchinari e sistemi, gli installatori e tecnici di ogni genere.

ITALIA: ADDIO RIPRESA, NONOSTANTE GLI STIMOLI

L‘attuale spirale inflattiva derivava già tuttavia dalla scarsità di offerta che risale alla ripresa dell’inizio 2021. E ha comportato rincari di energia, materie prime e semilavorati. A questa scarsità di fattori di produzione si aggiungerà adesso anche scarsità di prodotti finiti, perché la razionalizzazione delle attività produttive passerà per un taglio di quelle che non sono massimamente efficienti. Dunque a scarsità di offerta non potrà che sommarsi altra scarsità, con effetti macroeconomici depressivi. La crescita economica italiana, che speravamo andasse ben oltre il rimbalzo parziale del Prodotto Interno Lordo dopo i ripetuti lockdown del 2020 e inizio 2021, con ogni probabilità si fermerà quindi del tutto nel corso dell’anno.

E ciò nonostante i numerosi stimoli allo sviluppo posti dall’arrivo dei primi fondi del programma Next Generation EU, gli acquisti di titoli di stato da parte della Banca Centrale Europea, gli incentivi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, le garanzie di stato a favore del credito alle imprese, lo sviluppo del mercato dei capitali. Figuriamoci senza come sarebbe andata! Il nostro resta un Paese dove all’incirca la metà del Prodotto Interno Lordo passa dalla Pubblica Amministrazione, dove l’export delle piccole e medie imprese del nord conta moltissimo per riequilibrare la bilancia commerciale, dove le grandi imprese sono quasi in estinzione e dove i consumi interni continuano a toccare nuovi minimi perché la gente ha paura del futuro.

L’ITALIA NON È PRONTA AD AMMORTIZZARE LO SHOCK

L’Italia ha un mero del lavoro estremamente rigido e non è pronta ad ammortizzare uno shock sistemico della portata di quello in corso. Siamo ancora, in buona sostanza, privi di una politica industriale, di capacità di ricerca e sviluppo, nonché di estrarre le proprie risorse naturali ed energetiche. In più -per non farci mancare niente- abbiamo scelto di rinunciare all’elettricità prodotta dalle centrali nucleari (e ne abbiamo ugualmente numerose, appartenenti ad altre nazioni ma a pochi chilometri dai nostri confini settentrionali).

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Le piccole e medie aziende che sopravviveranno perciò sono quasi soltanto quelle collegate ai filoni alimentare, sanitario e meccanico (e queste ultime quasi soltanto per le esportazioni). I servizi e i consumi interni languono, e il turismo, la ristorazione e l’intrattenimento sono ancora sono sotto la cappa dell’emergenza pandemica. Come non parlare poi delle banche italiane, ancora importantissime per finanziare le piccole e medie imprese eppure in grande difficoltà perché tutti stimano una mole di insoluti assolutamente fuori dalla normalità. Sono immancabilmente sotto tiro (stanno perdendo quasi il 20% del valore di capitalizzazione di borsa da inizio d’anno e oltre il 30% dai massimi di febbraio) a riprova della gravità della situazione e del timore che stavolta il supporto della Banca Centrale sarà meno generoso!

CHI POTRÀ INTERVENIRE A SUPPORTO?

Cosa possiamo aspettarci dunque in termini di performance economica? Probabilmente le imprese davvero innovative, più capaci di organizzarsi e di rapportarsi meglio con il resto del mondo otterranno ugualmente credito e capitali. Saranno però alcune centinaia al massimo quelle che si quoteranno in Borsa, otterranno Minibond o troveranno la possibilità di aggregarsi e di ricevere aumenti di capitale. Troppo poche per un impatto significativo sull’economia dell’intero Paese. Le altre dipendono dai capitali propri e dal sistema bancario, che però è più che mai allergico a sostenerle.

In altri tempi si sarebbero potuti invocare aiuti di Stato, finanziamenti e investimenti pubblici, la fiscalizzazione degli oneri sociali e qualche ulteriore credito d’imposta. Ma oggi, che siamo sotto il mirino degli osservatori europei per ottenerne il sostegno del nostro debito pubblico e nelle mire dei vari speculatori globali, per il commercio e lo sfruttamento dei beni reali dati in garanzia dei crediti incagliati, sarà molto più difficile invocare altri interventi di Stato che amplierebbero il deficit pubblico o la clemenza dei creditori.

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IL RISCHIO E’ QUELLO DI ASSOMIGLIARE AL SUD-AMERICA

Vediamo perciò una serie di analogie con le vicende dei decenni scorsi nei paesi dell’America Latina. Se l’economia si ferma, noi rischiamo di diventare un una riserva di caccia a disposizione di Americani ed Europei del nord che vogliano fare shopping di aziende in crisi e immobili strategici! Anche se la guerra in corso non subirà un’escalation, le nostre posizioni politiche dovrebbero tenere conto di ciò che ci aspetta dal punto di vista pratico se non vogliono che il Paese finisca in ginocchio.

Gli “alleati” occidentali, imponendoci sanzioni e vincoli allo scambio con la Federazione Russa, stringono cioè di fatto le nostre imprese in un angolo in nome della solidarietà alle vittime delle aggressioni militari. Niente da obiettare, certo, nella misura in cui si trovi il modo di porvi adeguato rimedio economico! Tenendo anche conto del fatto che i paesi che oggi si trovano “oltre cortina”, iniziano ovviamente a considerarci nemici, tanto quanto gli altri paesi occidentali, che però sono nostri rivali di fatto nelle esportazioni (Germania e Francia, in primis) e nell’attrarre investimenti dall’estero.

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COSA FARE?

L’Italia con la sua forte dipendenza dall’estero (per il fatto che non ha una banca centrale, e per la provenienza delle principali fonti energetiche) dovrebbe elaborare invece una propria urgente strategia di sopravvivenza! Basata su defiscalizzazioni degli investimenti, facilitazioni burocratiche, rimpatrio dei capitali, semplificazioni per chi localizza stabilimenti produttivi, premi per chi assume e riduzione dei costi burocratici.

Per non parlare dell’importantissimo ruolo dell’Unione Europea e della relativa Banca Centrale: se l’inflazione deriva da uno shock da offerta non ha senso parlare di restrizioni monetarie, casomai occorrerà l’opposto! E se il rincaro dei prezzi rischia di affossare l’economia bisogna trovare il modo di fare arrivare ai consumatori risorse e liquidità, e di accelerare la velocità di circolazione della moneta.

Riteniamo anche che -se non subito- alla fine questo possa avvenire. E la liquidità aiuterà le borse, come tre-quattro mesi dopo lo shock da COVID. Ma difficilmente controbilancerà il problema del credito (così come è successo allora). Se poi le politiche di transizione verde impongono alle imprese costi che al momento esse non possono permettersi, ecco che bisognerebbe sollevarle temporaneamente dai relativi oneri.

Solo così il nostro paese e il nostro continente potrebbero cercare di contrastare la deriva negativa e contrastare l’impatto delle sanzioni. Le guerre però si combattono purtroppo anche a livello economico e, sebbene le sanzioni siano rivolte a qualcun altro, se non poniamo adeguati rimedi esse danneggiano (talvolta irrimediabilmente) anche chi le applica!

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Stefano di Tommaso




È UNICREDIT LA BANCA UNIVERSALE ITALIANA

Mai peggior “bufala” è stata proposta all’economia italiana di quella della “banca universale” concepita qualche anno fa dalla Banca d’Italia dei tempi di Fazio&C. Ai tempi si pensava che il modo migliore per sottoporre a controlli e salvaguardie le attività finanziarie fosse quello di farle passare piu o meno tutte obbligatoriamente da un’autorizzazione bancaria. Si pensava, o c’era una decisa convenienza a che ciò succedesse e a che la maggior parte delle attività finanziarie non controllate dalle banche maggiori finissero nelle mani di queste ultime, pesantemente asservite alla politica. Ma almeno ai tempi c’era ancora un residuo di concorrenza tra i diversi istituti bancari nazionali e stranieri. Oggi non c’è più nemmeno quella e si è visto quanti miliardi (di future tasse) è costata al popolo italiano la scorribanda della politica nella governance delle banche!

LA PREVALENZA DEL MERCATO DEI CAPITALI SIGNIFICA L’ARRIVO DI FINTECH E L’ADDIO ALLA BANCA UNIVERSALE

Più tardi degli altri, l’Italia ha capito che il sistema finanziario nazionale non poteva andare contro la corrente principale degli eventi, che è quella segnata dal mondo anglosassone, dove la maggior parte dei servizi finanziari alle imprese arrivano dal mercato dei capitali, e le banche svolgono solo specifiche funzioni di raccolta dei depositi e di agenti di pagamento, mentre addirittura molte forme di credito finalizzato sono erogate da soggetti specializzati, come le società di credito al consumo, quelle di leasing o di factoring. Anche talune attività di raccolta dei risparmi sono svolte (spesso anche meglio) da società di gestione del risparmio che possono essere completamente indipendenti dalle banche e che impiegano sempre meno personale esecutivo.

Insomma il mondo finanziario oggi si fraziona, si specializza, si dematerializza e si virtualizza, ma soprattutto viene dominato dal mercato dei capitali, sempre più interessato a finanziare anche le imprese e la loro crescita, i progetti e le opere pubbliche, il credito al consumo e il real estate, come forma di diversificazione rispetto al mero acquisto in borsa di titoli azionari e a reddito fisso.

Sul fronte bancario, d’altronde sino a qualche anno fa i requisiti di capitale e di tracciamento dei rischi effettivi erano molto più bassi, dunque le banche potevano contare su un deciso vantaggio competitivo rispetto agli investitori istituzionali e professionali attivi sul mercato dei capitali. Per questi ultimi ad ogni investimento a reddito si è sempre dovuto associare a un rating esplicativo del relativo rischio, mentre per le banche il tema era decisamente più sfumato. Dunque il mercato dei capitali già ragiona da tempo come stanno imparando a fare le banche .

L’INFLUENZA DI BASILEA E LA STRATEGIA VINCENTE DI UNICREDIT

Poi, dopo la crisi del 2008 (e dopo tutto quello che ne è conseguito) sono arrivate le normative di Basilea (1, 2 e 3), che hanno richiesto di applicare un differente approccio al tema dei rischi e, di conseguenza, di capitalizzare adeguatamente chi intende fare business erogando credito. L’impatto è stato tremendo, ma soprattutto sembra oramai evidente che la necessità di definire meglio rischi e rendimenti nel settore del credito non può che portare ad un deciso restringimento generale della presenza delle banche sui mercati finanziari. Oppure no?

È davanti agli occhi di tutti la performance meravigliosa della banca guidata da Pierre Mustier, con crescite a doppia cifra tanto della marginalità quanto della quota di mercato, ma (abbastanza stranamente) non mi è sembrato di trovare grandi consensi nel fornire una risposta alla questione del segreto del suo successo.

Mustier è un forte comunicatore, capace di ripetere all’infinito slogan semplici e “perforanti”, dissimulando bene ciò che non è parso ai più come una vera e propria rivoluzione copernicana: Unicredit ha scelto (a differenza di quasi tutti gli altri) di concentrarsi sul “core business”, tornando a “fare banca” e gradualmente riducendo la sua presenza sui mercati mobiliari e su tutte le altre attività che non sono strettamente “core”. Questo gli ha permesso sinanco di espandersi e il mercato lo ha premiato.


Le citate attività strettamente “core” per UniCredit significano una cosa sola: ottenere commissioni più alte nelle aree di mercato meglio presidiate dalla banca (raccolta, corporate e servizi correlati), limando invece i costi e la prosecuzione delle altre attività che generano significativi impieghi di capitale per tornare ad essere percepita non solo come la banca più performante sotto le Alpi, ma anche quella meno a rischio.

IL RISCHIO ITALIA PERCEPITO DAGLI INVESTORI

Eh, già. Il fattore rischio – se chi lo valuta è seduto fuori dei confini nazionali- è forse il tema principale quando si valuta di acquistare titoli emessi da aziende italiane! Mustier è riuscito a far crescere la credibilità di UniCredit nei confronti della Banca Centrale Europea e delle altre autorità continentali cogliendo prima degli altri un angolo essenziale per far crescere il valore d’impresa percepito dai suoi azionisti: quello del rischio.

Ovviamente per farlo ha dovuto fare emissioni “monstre” di titoli sul mercato diluendo fortemente i vecchi azionisti e ha dovuto scaricare dai bilanci una montagna di crediti non performanti anche a scapito di qualche buon affare lasciato a terzi. Ma ha ottenuto in cambio la credibilità che quasi nessuna altra banca italiana ha in Europa e oggi nessuno più crede davvero che UniCredit nasconda altri significativi disastri tra le pieghe dei suoi libri contabili, a differenza di tutte le altre banche. E c’è da scommettere che continuerà a liberarsi ancora di crediti di dubbia sorte per rafforzare questa convinzione e accreditare il suo ambizioso piano industriale che lo vede esprimere performance e solidità a due cifre nel 2019.

I titoli bancari italiani sono chiaramente -e persino giustamente- sottovalutati in ragione del fatto che il Paese resta a rischio di collasso del suo debito pubblico (che continua a crescere) e che il settore bancario viene conseguentemente visto a rischio (anche) in quanto detentore di grandi quantità di titoli di Stato. Negli ultimi cinque anni le plusvalenze che questi hanno generato hanno contato non poco nel risanamento di buona parte degli istituti di credito, ma oggi tutti si rendono conto del fatto che prima o poi la liquidità in circolazione si ridurrà e i tassi saliranno (non molto, ma lo faranno). E quando l’acqua alta scenderà chi è rimasto nudo verrà allo scoperto.

UN TITOLO “DIFENSIVO”, CHE POTREBBE PASSARE ALL’ATTACCO


Viceversa per UniCredit l’eventuale azzeramento di 17 miliardi di euro di assets “non performing” che residueranno nella non-core bank a fine 2019 avrebbe l’effetto di portare l’Npe ratio del gruppo al 5%, in linea con la media europea e ben al di sotto del livello italiano (14%), di azzerare le perdite della medesima non-core bank (più di mezzo miliardo l’anno). Ciò contribuirebbe al re-rating del titolo con un multiplo prezzo/capitale tangibile che dalle 0,7 volte attuali dovrebbe avvicinarsi a 1 volta, con un apprezzamento potenziale del valore del titolo del 40% .

Dunque oggi la quotazione di UniCredit resta relativamente “sobria” nei portafogli degli investitori, perché la banca ancora deve dimostrare che realizzerà il suo piano e appartiene a un settore economico visto con diffidenza e perché ha sede in Italia. Nonostante la “pro-ciclicità” del settore bancario perciò esso resta un titolo difensivo con un ottimo potenziale.

UN’ACQUISIZIONE IN ARRIVO?

Ed è qui che volevo arrivare: un Amministratore Delegato che sembra aver finalmente deciso di lavorare sul valore dell’UniCredit per i suoi azionisti con ogni probabilità non appena se lo potrà permettere procederà a fare acquisizioni di altre banche al di fuori dell’arco alpino, per uscire da queste limitazioni e godere di multipli più elevati. Non c’è dubbio infatti che se la banca fosse a Francoforte i suoi moltiplicatori risulterebbero migliori!

Forse è questa l’accezione dell‘aggettivo “universale” che Mustier vede meglio accanto al sostantivo “banca”! In senso geografico, non in quello di voler fare di tutto un po’… Ne è corsa di acqua sotto i ponti dai tempi del governatore Fazio e dei suoi slogan corporativi. E ci voleva un transalpino perché qualcuno se ne accorgesse!

Stefano di Tommaso