SINDROME FRANCESE

La bufera che ha investito nell’ultima settimana i mercati finanziari europei, nonostante sia partita dal risultato elettorale francese, sembra aver colpito l’intera Eurozona e soprattutto l’Italia, che insieme alla Francia sta per ricevere la notifica ufficiale dell’apertura della procedura d’infrazione per eccesso d’indebitamento. Lo spread con i Bund tedeschi è risalito e il cambio dell’euro ne ha risentito. Ma soprattutto com’era prevedibile molti capitali hanno lasciato le sponde orientali dell’Atlantico per affluire a Wall Street.

 

TANTO LA BORSA DI NEW YORK QUANTO IL NASDAQ GUADAGNANO DALLA BAGARRE

 

LO SPREAD BTP-BUND A 10 ANNI

L’INCERTEZZA

A preoccupare in Europa non è tanto l’avanzata delle destre (che peraltro nulla sembra cambiare nella formazione della nuova Commissione Europea a Bruxelles) quanto piuttosto l’incertezza derivante dalle elezioni anticipate convocate da Macron. Questi si conferma il falco che è sempre stato: convocare elezioni anticipate significa lasciare che un eventuale governo di destra in Francia prenda corpo subito, cioè tre anni prima che debba rinnovarsi l’elezione del presidente della repubblica (il quale ha poteri molto più ampi di quelli italiani), così da azzopparlo e crocifiggerlo lasciando prendere a quest’ultimo le decisioni impopolari che sarebbero necessarie per contenere il disavanzo pubblico.

Non per niente lo spread tra il titolo di stato francese e quello tedesco è decollato:

E la borsa di Parigi è letteralmente crollata:

I mercati hanno subodorato l’azzardo, perché è probabile che in Francia un governo di destra in presenza di un presidente di sinistra non ne farà alcuna, portando così il paese ad una situazione difficilmente gestibile. Il che avrà indubbie ripercussioni in tutta l’Eurozona, dove anche la Germania ha visto avanzare non poco le forze dell’opposizione.

I CAPITALI FUGGONO

Dunque le maggiori economie europee potrebbero tutte peggiorare il loro indebitamento (anche a causa degli impegni al rafforzamento del proprio arsenale bellico appena presi con la NATO) e, giustamente, i mercati fanno due conti.

EUROPA CONTRO TUTTI

In realtà più o meno in contemporanea sono piovute molte brutte notizie come ad esempio l’annuncio di nuovi dazi sulle importazioni cinesi:

La NATO poi ha rincarato la dose in risposta alla proposta di pace della Russia, cosa che evidentemente fa temere un peggioramento della situazione geopolitica, già a sua volta aggravata dall’accentuarsi del conflitto di Israele al confine con il Libano, contro gli Hezbollah. Un’altro elemento di disordine globale è ovviamente la scelta di proseguire nell’intento di utilizzare le risorse sequestrate alla Russia per alimentare la guerra in Ucraina. Come si può vedere qui sotto dal grafico pubblicato dal Financial Times, lo scorso in Maggio l’Europa ha acquistato più gas dalla Russia che dagli U.S.A. (e da questo si può comprendere chi ha davvero un interesse a soffiare sul fuoco dello scontro…) :

Il risultato della congiuntura che si sta delineando è che l’Europa sta tra l’altro incrementando il rischio di essere coinvolta in una guerra ai suoi confini orientali, si trova a due passi dall’ennesima crisi tra Israele e Libano che può sfociare in un’altra guerra allargata all’intero Medio Oriente (con il rischio che la navigazione nel Mediterraneo possa divenire molto difficoltosa), vede dunque peggiorare le proprie prospettive economiche e al tempo stesso anche la sostenibilità dei debiti pubblici (con il conseguente rialzo dei rendimenti che annullerebbe il taglio recente della BCE). Non stupisce perciò il ribasso del cambio della valuta.

LA DE-DOLLARIZZAZIONE SCHIACCIA ANCHE L’EURO

Segnali di un distacco dell’intero Medio Oriente dalle politiche occidentali provengono peraltro anche dall’Arabia Saudita, che ha deciso di non rinnovare con gli U.S.A. l’accordo “Petrodollari” che le imponeva fino a ieri di scambiare le sue riserve petrolifere soltanto in Dollari americani. Non è difficile intuire che la manovra la porterà ad allontanarsi anche dall’Euro, troppo schiacciato dalle politiche atlantiste e più povero di rendimenti. Si teme pertanto che il prossimo passo di Riad sarà quello di favorire la risalita delle quotazioni del Petrolio, sino a ieri tenute schiacciate in vista delle prossime elezioni presidenziali U.S.A.

Insomma in pochi giorni una serie di nuvole nere si sono addensate sull’Europa e i mercati finanziari ne hanno preso atto facendo fluire molti capitali verso Oriente e verso gli Stati Uniti d’America. La quota dell’Euro nelle riserve di valuta estera era già scesa dal 21% al 20% nel 2023. I gestori delle riserve ufficiali delle altre banche centrali ne hanno ridotto la quota in euro per un importo di circa 100 miliardi, come conferma la Banca Centrale Europea lo scorso mercoledì. La sola Banca nazionale svizzera ha diminuito di 35 miliardi le sue riserve in euro.

LE RISERVE IN ORO HANNO SUPERATO QUELLE IN EURO

Ora con la bagarre politica e il taglio dei tassi della scorsa settimana da parte della Banca Centrale Europea l’attrattività della divisa unica continentale rischia di picchiare ulteriormente verso il basso, perché i tassi d’interesse sono più alti in molti altri paesi senza che siano migliori le prospettive economiche dell’Eurozona.

Si può dunque presumere che il deflusso dei capitali investiti in euro continuerà e che questo affliggerà anche le nostre borse valori. Da notare infatti il vistoso calo nei giorni scorsi dei titoli azionari che si erano rivalutati di più in Europa: quelli delle principali banche.

Anche la Banca Centrale Russa (che deteneva circa l’8% delle sue riserve in titoli denominati in euro, prima che fossero immobilizzate nel 2022) dopo le dichiarazioni del G7 Italia ha deciso di sospendere le contrattazioni di Euro e Dollaro alla propria borsa valori. Cosa che riduce ulteriormente la circolazione internazionale della divisa unica. Non per nulla il governatore della banca d’Italia Fabio Panetta ha dichiarato: “l’uso di una valuta come arma riduce inevitabilmente la sua attrattiva e incoraggia l’emergere di alternative”.

LA BRUSCA DISCESA DEI MAGGIORI TITOLI DELLA BORSA ITALIANA

Insomma la presa d’atto della svolta politica in Francia ha soltanto accelerato il declino del vecchio continente, il quale dovrebbe farsene in fretta una ragione invece di continuare a elargire capitali e armamenti come se potesse ancora permetterselo.

Ma la linea politica dei prossimi anni per la (dis)Unione Europea sembra viceversa voler marcare la continuità. Ciò a meno di ulteriori, pesanti stravolgimenti politici interni che tuttavia -nel breve termine almeno- non farebbero che favorire ulteriori fughe di capitali.

Un vero peccato per noialtri, pensando al fatto che -viceversa- nel resto del mondo la crescita economica sembra aver ripreso a correre!

CHI CI PUÒ GUADAGNARE

Gli unici comparti economici a casa nostra che potranno ottenerne un beneficio saranno dunque quelli legati alla produzione di armamenti e, indirettamente, quella parte di manifattura da esportazione che potrà meglio beneficiare della competitività derivante dalla svalutazione dell’Euro. Grossi problemi però potrebbero avere le aziende di minor dimensioni (che sono soprattutto italiane), qualora il deflusso di capitali oggi in corso arrivi a costringere le banche ad una forzosa riduzione dell’erogazione di credito.

Stefano di Tommaso




APPUNTI DI TRADING

N. 22 – sabato 11 marzo 2023

Acquistati martedì 7 marzo 2023 5 micro apr gold fut a 1840, che da lu 13.3 avranno stop loss a 1840 ( in pari )

GOLD APR 23

Nella N.21 avevo scritto : “………….. GOLD CASH ha segnato 1804.70 la scorsa settimana ed è risalito immediatamente quasi il 40 % della discesa da 1960 a 1804. In soli tre giorni. Sembra quindi un mercato molto forte. Non mi convince.”

Effettivamente l’ennesima esternazione del presidente della FED J. POWELL ha spinto in giù GOLD fino ad azzerare ( quasi ) la violenta salita di cui sopra, sfiorando lo stop loss stabilito nella N.21 ( 1813,40 il minimo toccato dal future aprile merc. 8 marzo ) per poi risalire sopra il prezzo di acquisto di 1840 apr fut

Che fortuna. Oppure lo stop loss era piazzato con accuratezza.

Questo doppio minimo crescente, anche se molto ravvicinato nei tempi, spero recluterà qualche altro investitore alla mia visione, che punta a proseguire qualche gg questa salita, ma non oltre il top dell’anno 2011 ( 1919, ovviamente cash )

Non oltre, nell’ àmbito di questa prima gamba in su.

Poi si vedrà.

Nella speranza che la salita possa proseguire 3 – 5 gg, da lu 13.3 inserirò il seguente ordine :

vendere 5 micro apr gold fut a 1840 stop loss valido da lu 13.3 e la seguente modifica da giovedì 16.3 : alzare lo stop loss al minimo dei due gg precedenti

Per la prima volta la Lettera prova a ovviare alla periodicità settimanale.

BTP FUT MARZO 2023

Le banche dati hanno iniziato a fare roll over dal contratto marzo 23 a quello giugno 23, con conseguente gap di prezzo; nuovamente il roll over “rovina“ la fruibilità dei grafici in mio possesso.

Eliminerò questo mercato.

DOW JONES INDU CASH

Brutta settimana

La N. 21 ha subito il più dannoso stop loss dal suo esordio, pari a USD 3000 (circa euro 2830 ) in seguito all’acquisto del future DOW JONES a 33100 durante POWELL’S speech di martedì 7 marzo, poi stoppato a 32500 gio 9.3, dopo la notizia delle difficoltà di una banca che finanziava in prevalenza le start up.

Quando ho scritto la N.21 una settimana fa, DOW JONES apr fut era a 33400 circa e misi enfasi nel fatto che l’ingresso eventuale, se DJ fosse sceso a 33100, comportava uno stop loss molto costoso a 32500, oltre i miei parametri, tanto che avevo stabilito di alzarlo, ove fosse stato rotto il massimo del giorno di ipotetico acquisto,evento non verificatosi.

Mart. 7.3 durante il discorso di POWELL, che ha ribadito che i tassi resteranno alti a lungo e saliranno, se necessario, il mercato ha perso circa 600 punti, eseguendo l’acquisto a 33100, con successiva discesa fino a 32626 ( lo stop loss era a 32500 ) il successivo merc 8.3, per poi rompere gio 9.3 il top del giorno precedente.

Lo stop loss era stato avvicinato, ma non raggiunto, vale a dire : pareva ben piazzato.

Qui arriva l’imprevedibile : la SVB – SILICON VALLEY BANK, non paragonabile a LEHMAN BROS, ma di rilievo in quanto pare che abbia venduto in fretta e furia attivi allibrati a 21 billions, sopportando una perdita di 2 billions, così scendendo sotto i parametri patrimoniali, annuncia la necessità di raccogliere oltre 2 billions; immediatamente perde in quotazione il 60 % e crea molta apprensione.

DOW JONES, che aveva retto alle parole poco accomodanti di POWELL, rompe il livello 32500 di stop loss e accelera fino a 31787 il giorno successivo.

Quei cari ( sembrerebbe più bravi di me ) amici, che ipotizzavano la rottura di 32500 piuttosto che di 34350, hanno gentilmente telefonato per commentare.

Non voglio annoiarvi, ma credo poco ad un eventuale crollo del DOW JONES sulla notizia; tuttavia temo che non vi siano molti gg di tempo per ritornare sopra 32500, se non si vuole che un incidente si trasformi in una tragedia.

Sembra purtroppo che altre banche del pianeta vedano gli attivi costituiti in parte non irrilevante da bond di durata ben oltre i 12 mesi, iscritti a costi di acquisto antecedenti l’estate 2021, vale a dire a prezzi di affezione.

Il verde è per la speranza.
(Che non vi debbano essere altre vendite urgenti )

Allego il consueto grafico giornaliero del DOW JONES nel quale ho aggiunto alla linea che partiva dal minimo del 13 ott 2022 a 28660 un’altra con la stessa origine, ma pendenza dimezzata; essa ci offre un possibile supporto, proprio intorno ai minimi di ieri ven. 10.3.

Come annunciato, allego infine un grafico intraday che evidenzia che DJ, dopo le parole di POWELL di martedì, era risalito da 32626 fino a 33002, vicino al prezzo di ingresso, ma il crash di SVB di gio 9.3 ha innescato una discesa di oltre 1200 punti da 33002 a 31787, in meno di un giorno.

Dopo uno stop loss, la lettera non inserisce ordini per una settimana.

Leonardo Bodini





 

 

 




IN BORSA PER $100 MILIARDI XIAOMI, L’APPLE CINESE

Esiste una “nuova Cina” dove la realtà può ampiamente superare l’immaginazione, al limitare della rivoluzione maoista con le più ardite fantasie del capitalismo più sfrenato, il cui paradigma socio-economico è forse ancora più difficile da assimilare per noi occidentali del Vecchio Continente di quanto possa esserlo la California della Silicon Valley.

 

La prova del fatto che esiste questa iper-Cina è la fantasmagorica quotazione in borsa della cosiddetta “nuova Apple”, Xiaomi: la start-up tecnologica più celebre dell’ex-Celeste Impero. Partita nel 2010 e già da tempo divenuta “Unicorno” (come si dice nel gergo dei capitalisti di ventura quando una nuova società supera il valore di un miliardo di dollari), gli esperti che ne hanno curato lo sbarco sul listino della borsa dì Hong Kong ne hanno decretato il successo attribuendole una capitalizzazione della bellezza di 100 miliardi di dollari (si, avete letto bene) dopo che le aspettative per il bilancio di quest’anno la rivelano in perdita per oltre un miliardo di dollari, sebbene sia giunta in soli 7 anni a un fatturato di 18 miliardi.

FIGLIA DELLA NUOVA CINA : CAPITALISTA E SUPER-TECNOLOGICA

Dalle nostre parti sarebbe forse bastato che arrivasse a perdere soltanto un milione perché le bande gialle di precipitassero a sirene spiegate ai suoi cancelli ad arrestarne il titolare con l’accusa di bancarotta, magari nelle more di riscuotere qualche credito verso lo Stato e di esserne scagionato! Ma nella Cina sud-orientale dalle grandi metropoli del futuro, la cui società civile esprime questo nuovo paradigma iper-pluto-digitale no, non è bastato che Xiaomi arrivasse a perdere un miliardo per impedirne la quotazione in borsa delle sue azioni, facendone ricchi i soci della prima ora, e permettendole di raccogliere sul mercato oltre una decina di miliardi di dollari di nuove risorse, che saranno tutti reinvestiti per crescere e (forse un giorno) prosperare.

Super tecnologica, avanzatissima non soltanto per le monorotaie che sfrecciano alla velocità del suono sopra le sue nuove città, futuristica persino nei sistemi di pagamento con i telefoni cellulari e strapiena di quei dollari che i fondi di investimento di “venture capital” della Silicon Valley d’oltre-oceano le hanno messo in tasca per sviluppare nuove tecnologie e nuove imprese, in quella Cina del futuro divenuto realtà può oggi esistere ed esprimere forte valore la più estrema di tutte le aziende che hanno scelto di provare a percorrere nuove strade, persino quando esse incrociano quelle di colossi globali come Apple o Samsung con prodotti più competitivi.

Agli investitori che si chiedono se Xiaomi valga davvero 100 miliardi di dollari, il mercato finanziario sembra aver risposto subito: al momento dell’annuncio le azioni delle più dirette concorrenti di Xiaomi come ZTE e Lenovo sono crollate! Ad accompagnarla sul mercato finanziario come sponsors si annoverano peraltro i più grandi nomi della finanza mondiale come Goldman Sachs, Morgan Stanley, Credit Suisse, Deutsche Bank, JP Morgan Chase e altre 6 banche cinesi.

ALL’INSEGNA DELLA FANTASIA E DELL’UMILTA’

Nota anche con il marchio MI che contraddistingue i suoi prodotti di ottima qualità, venduti in tutto il mondo a prezzi stracciati, Xiaomi è un’espressione cinese che sta a indicare l’umiltà del miglio (il cibo dei poveri di una volta) e che, nelle intenzioni di Lei Jun, il visionario fondatore che ha tratto la sua ispirazione imprenditoriale leggendo una biografia di Steve Jobs (il più noto tra i fondatori di Apple) avrebbe dovuto indicare lo spirito con il quale le nuove generazioni asiatiche avrebbero potuto inseguire il loro riscatto industriale. Quel che è successo poi è stato l’esatto opposto!

In Occidente fino ad oggi per le start-up di successo è prevalso un “modello di business” completamente diverso da quello di Xiaomi: estremamente focalizzate su una particolare tecnologia, con una proprietà molto diffusa e con un percorso evolutivo facilmente prevedibile e rassicurante.

Mentre la campionessa cinese di creazione di valore dopo Alibaba (che però si è quotata nel 2014, in un contesto di mercato molto più favorevole) sembra essere proprio tutto il contrario: controllata da un gruppo ristretto di azionisti, dalle iniziative deliberatamente imprevedibili e tentacolare nei suoi numerosissimi e diversissimi prodotti che uniscono design, tecnologia e fantasia, Xiaomi è riuscita a definire un nuovo modello di business che (al momento) non ha avuto bisogno di mostrare profitti e focalizzazione per risultare vincente.

Certo, in Occidente la mano pubblica eroga ben pochi sussidi alle nuove imprese che vogliono inseguire le loro fantasie, mentre nella Cina statalista di qualche anno fa, che doveva a tutti costi esprimere investimenti e piena occupazione per inseguire il primato della crescita economica e del progresso digitale, trovare le risorse iniziali per provarci è stato forse più facile.

E così quando si è trattato di incrementare le dimensioni aziendali Lei Jun ha preferito crearsi una rete di fornitori strategici terziarizzati, piuttosto che provare a investire direttamente nelle strutture, affinché anch’essi potessero godere del medesimo supporto statale e risparmiarsi i mal di testa della crescita interna.

DAI PRODOTTI AI SERVIZI ALL’ECOSISTEMA “MIUI”

Xiaomi oltre che aver prodotto negli ultimi sette anni oltre 190 milioni di telefoni cellulari, si è messa a fare proprio di tutto: dai computer portatili alle biciclette, agli aspirapolveri-robot che puliscono la casa, alle vaporiere per il riso, alle lampade intelligenti, ai giocattoli, fino ad erogare servizi finanziari. E il prossimo passo consiste nel fornire a tutti questi strumenti un‘interconnessione intelligente per tenerli sotto controllo e fare dell’insieme dei propri prodotti a marchio un “ecosistema” simile a quelli sviluppati dalle altre grandi aziende del settore tecnologico, come Apple, Sony, Samsung eccetera.

Anzi: è proprio dai servizi a valore aggiunto che la sua fedelissima base di clientela (giovane, motivata e rampante) è disposta a pagare a Xiaomi.
È dai suoi 9 milioni milioni di “fans” che partecipano in continuazione ai “forum MIUI” (MIUI è il nome del sistema operativo proprietario di Xiaomi, sebbene sia comunque basato su Android) contribuendo a fornire idee e soluzioni che arrivano per la maggior parte a Xiaomi i ricavi da servizi che rappresentano i maggiori margini di guadagno, i quali invece scarseggiano nella produzione di cellulari (sono stimati intorno ad un mero 1%) e degli altri oggetti da questa venduti, sui quali ha dichiarato che non marginerà mai più del 5%.

Come dire che Xiomi ha venduto fino ad oggi centinaia di milioni di prodotti senza guadagnarci affatto per poi arrivare a conquistare una fetta di mercato cui è stata capace di vendere servizi a valore aggiunto su internet. Una strategia paragonabile più a quella di Google che di Apple, sebbene possa essere percepita ancora più estrema e pericolosa (quando il boom delle tecnologie digitali dovesse mostrare segni di stanchezza).

IL PROPRIO VENTURE CAPITAL TECNOLOGICO

Xiaomi cavalca tuttavia con molta intelligenza l’onda favorevole di entusiasmo sulla quale essa poggia le sue fortune: sino ad oggi non solo ha venduto centinaia di milioni di prodotti ma soprattutto ha “esternalizzato” il suo ufficio Ricerca & Sviluppo “incubando” al proprio interno la nascita di 29 nuove aziende dotate di idee di prodotto brillanti e in qualche modo interconnesse alle proprie e, soprattutto, “sponsorizzando” altre 55 start-up le quali, evidentemente ancora più meritevoli di attenzioni e capitali, sono state finanziate da Xiaomi ma sono rimaste indipendenti!

Al di là dell’ottimo intento socio-economico la società ha fatto bene i suoi conti, ottenendo dall’iniziativa un flusso impetuoso di idee di prodotto che le ha permesso di contenere i costi interni e di cavalcare il suo successo.


Ma anche in questo l’ancora quarantenne Lei Jun -le cui fortune personali sono oggi valutate quasi 13 miliardi di dollari- ha voluto seguire il modello di Steve Jobs: non copiare la Apple bensì il suo fondatore, innovando continuamente e infrangendo ogni vecchia abitudine (ma anche procurandosi le risorse per farlo)!

Stefano di Tommaso




LA STAGIONE ITALIANA DELL’M&A

Molte altre volte in passato si era pensato che la peculiarità della piccola dimensione delle imprese italiane, talune delle quali estremamente competitive e miracolosamente capaci di compiere realizzazioni straordinarie, le avrebbe spinte prima o poi verso un processo di rapida aggregazione delle une con le altre, quantomeno allo scopo di liberare risorse e attirare capitali.
E poi nulla o quasi.

Molti fattori hanno frenato o impedito quella corsa. Dalla scarsità di credito alla sotto-capitalizzazione fino alla natura estremamente circoscritta alla famiglia del fondatore di buona parte delle imprese italiane di successo.


NON PIÙ “PICCOLO È BELLO”

È tempo ormai che è finita l’epoca del “piccolo è bello” . Uno slogan che faceva riferimento alla capacità di adattamento e di innovazione delle PMI, che avrebbero fatto premio sulle efficienze derivanti dalla grande dimensione.

Oggi, alla luce dei cospicui investimenti necessari per balzare sul carro delle nuove tecnologie e a causa della globalizzazione della concorrenza sui mercati di sbocco (a sua volta in buona parte dovuta alle vendite online che continuano a crescere sbaragliando i canali distributivi convenzionali), il paradigma dell’azienda di successo sta tornando rapidamente verso fatturati più rotondi e, soprattutto, verso la capacità di attirare finanziamenti e capitali per la crescita (che, notoriamente, mal si sposano con la piccola dimensione).

E qual’è la strada più veloce e più sicura per crescere dimensionalmente nel business dal momento che essa sembra la prima delle chiavi del successo d’impresa? Ovviamente quella di acquisirne un’altra o -ancor meglio- quella di fondersi con un’altra, attivando ugualmente le sinergie possibili e migliorando le dimensioni senza nemmeno dover tirare fuori quattrini per farlo! Semplice, vero?


POCHE ACQUISIZIONI E QUASI NESSUNA FUSIONE TRA LE IMPRESE ITALIANE

 


E invece no: questo semplice ragionamento non sembra tenere alla prova dei fatti, quantomeno in Italia. Poiché almeno dieci volte negli ultimi anni si è auspicata una vera e propria esplosione delle fusioni e acquisizioni che per qualche motivo non c’è poi invece mai stata, dobbiamo dedurne che ci sono molte altre determinanti in gioco nel nostro Paese che impediscono di perseguire la crescita aziendale.

Inutile ripeterci che da noi le imprese sono quasi tutte famigliari e sottocapitalizzate, spesso immerse in distretti super specializzati per know-how e che la risposta alla questione fatidica “chi comanda?” evidentemente conta ben più del reddito e della dinamica della creazione di valore.


QUALCOSA STA CAMBIANDO

Qualcosa però si sta muovendo: sono state censite 551 acquisizioni nei primi 9 mesi del 2016 per un controvalore di € 33 miliardi, in aumento del 56% rispetto ai 25 miliardi del 2015. Di quelle 551 sono poi 110 le acquisizioni oltreconfine per €11,8 miliardi e questa sì che è una notizia! Erano forse vent’anni che le imprese italiane non sceglievano così pesantemente la strada delle acquisizioni all’estero.

Per quel che si può vedere dal nostro osservatorio peraltro la corsa prosegue, anche perché nel 2017 finalmente le risorse finanziarie per scalare la montagna del successo questa volta sono disponibili in quantità più cospicue, dal credito bancario ai fondi che sottoscrivono i Minibond fino alle emissioni azionarie da collocare all’A.I.M. della Borsa Italiana.

Anche la trasparenza nei bilanci e nelle modalità di gestione aziendale (più managers e meno “rampolli”), almeno al Nord-Italia, è migliorata negli ultimi anni, così come il numero delle società che hanno scelto di far revisionare ufficialmente i propri bilanci.
Ciò fluidifica il processo e provoca più attenzione da parte degli investitori, mentre il ritmo delle operazioni aumenta soprattutto a causa dell’enorme arretrato in cui giaceva il tessuto economico del Paese.


RECUPERARE IL TERRENO PERDUTO

 


Con la più elevata frammentazione industriale tra i Paesi avanzati, il più arretrato dei sistemi distributivi e la più problematica tra le reti infrastrutturali per trasporti e logistica, all’azienda-Italia non resta che valutare molto seriamente la possibilità di recuperare il terreno perduto attraverso una corsa alle aggregazioni e concentrazioni di settore!
Anche perché può valere pure il ragionamento opposto: se per crescere ho bisogno di risorse finanziarie e con la mia piccola dimensione nessuno me le fornisce, allora per la mia azienda è meglio superare determinate soglie dimensionali e rendere i suoi conti più trasparenti per evitare di morire di inedia finanziaria!

Per lo stesso motivo crescono vorticosamente le imprese che stanno iniziando a considerare l’entrata in borsa (per la massima parte al segmento A.I.M., cioè il circuito riservato alle piccole e medie imprese), sebbene tra il considerarlo e il farlo permangano numerosi impedimenti di ogni genere che per ora hanno partorito ben poche conclusioni positive rispetto alle migliaia di imprese che potrebbero farlo e alle centinaia di aziende iscritte al circuito “Elite” della Borsa italiana, con il quale quest’ultima ha inteso iniziare a preparare gli imprenditori al grande passo.


LA COLLABORAZIONE INTERNAZIONALE

 


Ma al di là delle risorse finanziarie la vera scommessa per le aziende nostrane è la collaborazione e/o aggregazione a livello internazionale con coloro che possono fornire loro le esperienze già maturate in mercati più consolidati ovvero le tecnologie mancanti: è quello l’agòne dove si gioca il futuro dell’imprenditoria italiana! Ed è anche la strada più complessa, quella più insidiosa ma anche la più interessante per coloro che non si limitano ad essere reattivi agli stimoli del mercato, ma desiderano coglierne i mutamenti e cavalcarne le onde in modo “pro-attivo”.

Terrorismo, crisi finanziarie e shock energetici permettendo, la crescita economica del Bel Paese sembra finalmente aver imboccato l’autostrada delle operazioni straordinarie, della raccolta di capitale di rischio e dell’interazione internazionale!

Fosse questa la volta buona ?

 

Stefano di Tommaso