B R A D I S I S M I

I mercati finanziari proseguono la folle corsa, senza accennare ad alcuna esitazione. Il fenomeno peraltro si autoalimenta perché i grandi investitori rimasti su posizioni di maggior prudenza stanno cercando di adeguare i loro portafogli, in vista della fine dell’anno, quando non vogliono farsi trovare ad aver pesantemente sotto-performato rispetto ai principali indici azionari. I titoli a reddito fisso però calano di prezzo, soprattutto quelli a lunga scadenza che, in queste occasioni, potrebbero fare il contrario. Cosa sta succedendo in sottofondo? Il denaro che affluisce alle principali borse infatti proviene soprattutto dai fondi di mercato monetario, i quali non investono sulle lunghe scadenze. Sono di nuovo all’opera i “bond vigilantes”? Oppure è il segnale del fatto che è stato raggiunto un limite estremo?

WALL STREET INANELLA NUOVI MASSIMI

Dopo l’ennesima settimana euforica per i mercati finanziari tutti si stanno chiedendo quanto le borse potranno correre ancora. C’è chi ci scommette ed è molto autorevole quando emette delle previsioni, ma c’è anche chi si spaventa, tanto dell’eccessiva indulgenza degli investitori, quanto della sostenibilità delle aspettative relative ai profitti futuri, che comportano le (elevatissime) quotazioni attuali (si veda qui sotto il grafico del principale indice di Wall Street):

LA CRESCITA DELL’INDICE STANDAR&POOR 500 SEMBRA VOLER PROSEGUIRE IMPERTERRITA 

MA MENTRE LA FED “TAGLIA” I RENDIMENTI SALGONO…

E’ però passato quasi inosservato il movimento al rialzo dei rendimenti espressi dai titoli a reddito fisso a medio e lungo termine, proprio mentre la Federal Reserve Bank of America (detta anche FED, che è per molti analisti la banca centrale delle banche centrali) abbassava i tassi a breve termine, cioè il tasso di sconto, ammettendo anche esplicitamente peraltro (lo ha fatto il governatore Powell nel suo discorso) che l’economia a stelle e strisce non sta andando proprio nel migliore dei modi. Qui sotto l’andamento dei T_Bond americani a 20 anni

DOPO UNA BELLA DISCESA IL RENDIMENTO IMPLICITO DEI TITOLI DI STATO A LUNGO TERMINE È RISALITO

Di seguito possiamo vedere alcuni grafici, relativi non soltanto agli OAT francesi (per i quali è anche appena calato il Rating), ma anche ai titoli di stato giapponesi 10 anni e ai Bund tedeschi, i quali esprimono chiaramente una recente ripresa dei rendimenti.




Una ripresa dei rendimenti recentemente espressa sinanco dal BTP nostrano, nonostante l’upgrade del merito di credito nazionale è appena stato innalzato anche da Fitch:


Cosa succede dunque sotto il manto della calma apparente? Si sta sgretolando l’ottimismo? Oppure si sta riducendo la liquidità complessiva? Apparentemente nulla di ciò se non il fatto che il debito pubblico occidentale sta salendo, complessivamente ma anche singolarmente, ad un ritmo giudicato da molti osservatori non sostenibile senza adeguate politiche di “monetizzazione”, cioè di acquisto dei titoli di stato da parte delle banche centrali, allo scopo di ridurne lo stock in circolazione. Cosa che però non potrà non generare, prima o poi, altra inflazione.

La situazione complessiva dei mercati borsistici, dicevamo, appare di estremo ottimismo. Questo tuttavia vale molto più per America e Asia, e molto meno per il vecchio continente, dove l’industria viene più penalizzata da un eccesso di regolamentazione per la decarbonizzazione (che anche fa crescere il costo complessivo dell’energia) ma anche a causa dell’economia che non cresce, dei consumi che ristagnano e della spesa pubblica che incrementa sensibilmente per via del riarmo.

IL PROGRAMMA DI DECARBONIZZAZIONE EUROPEO

La crisi di credibilità relativa alla sostenibilità del debito pubblico da parte della Francia insomma, per quanto accentuata rispetto agli altri Paesi d’Europa, rischia comunque di estendersi a macchia d‘olio nei dintorni. Almeno per ciò che riguarda le scarse prospettive di crescita economica (comuni a buona parte d’Europa). Una crescita del PIL infatti al momento potrebbe essere l’unica possibilità per ridurre il peso del debito pubblico.

IL RISCHIO DI UNA NUOVA RECESSIONE

Quanto agli Stati Uniti d’America peraltro il rischio di imboccare una (mini)recessione appare, secondo l’autorevolissimo commentatore Edward Yardeni, configurarsi sempre più nettamente. Soprattutto se si guarda cosa era successo in passato poco prima di ciascuna recessione. Il grafico da quest’ultimo pubblicato l’altro giorno parla molto chiaro in proposito


Dunque la Federal Reserve avrebbe in programma una serie di “tagli” dei tassi a breve (il mercato ne sconta altri due entro pochi mesi) anche perché la situazione complessiva dell’economia reale starebbe peggiorando.

MA NEL FRATTEMPO I TITOLI “SOTTILI” SALGONO DI PIÙ

Tale possibilità (che i tassi a breve scendano ancora) peraltro giustifica l’ottimismo degli investitori per quanto riguarda l’indice di Wall Street che riguarda la performance di borsa delle piccole e medie imprese (il Russell 2000), il quale infatti non soltanto tocca nuovi massimi ma cresce anche più degli altri:


Da notare che la prospettiva di ulteriori “tagli” della FED alimenta questa crescita, dal momento che le imprese a minor capitalizzazione americane ricorrono al credito bancario ben più delle “major”! Di seguito una tabella relativa al maggior tasso (espresso in punti base percentuali) che viene mediamente pagato rispetto alla media delle imprese appartenenti all’indice SP500 per ciascun settore economico di appartenenza. E quanto più pagano le “small cap” in termini d’interessi, tanto più potranno risparmiare con la discesa dei tassi e di conseguenza potranno migliorare i loro margini industriali.


Ma la super-risalita delle quotazioni delle imprese a minor capitalizzazione potrebbe essere osservata anche da un altro punto di vista: se gli investitori diversificano i loro acquisti travasando denaro dai grandi titoli super-tecnologici a quelli di piccola e media levatura allora probabilmente la crescita dell’indice delle quotazioni di Wall Street appare più sana (e potrebbe durare più a lungo). Quantomeno sin tanto che i tassi scendono e la liquidità in circolazione resta sui massimi…

MA LA BASSA VOLATILITÀ NON INDICA UN ECCESSO DI “COMPIACENZA” ?

Oppure questo fatto potrebbe indicare il rischio che ci sia fin troppa liquidità in giro, la quale genera un eccesso di auto-compiacenza da parte degli investitori. A favore di questa tesi viene portato ad esempio il vistoso calo della volatilità delle quotazioni azionarie, sintetizzato dall’indice VIX (quasi mai stato così basso in assoluto):


Eppure la narrativa di un eccesso di ottimismo non quadra con la risalita dei rendimenti dei titoli di stato di tutto l’Occidente. Perché gli investitori, una volta giunti ai massimi storici di sempre, decidono di abbandonare il reddito fisso per abbracciare i titoli azionari? Una ragione potrebbe risiedere nella resilienza dell’investimento azionario all’erosione di valore derivante dall’inflazione.

INTANTO L’INFLAZIONE NON CALA, ANZI !

Forse appunto la spiegazione la troviamo nel grafico qui sotto riportato, che testimonia inequivocabilmente la tendenza a risalire (o quantomeno a non scendere) dell’inflazione americana (la quale traina quasi sempre quella di tutto il resto dell’Occidente):


Tant’è vero che da più parti si inizia a pensare a una revisione al rialzo dell’obiettivo di inflazione da parte delle banche centrali: dal precedente 2% all’attuale (di fatto) 3%. Un numero sotto al quale vanno soltanto le economie in conclamata recessione quali quelle europee.

LA PERDITA DI VALORE DELLE DIVISE MONETARIE (DE-BASING)

Non è un’ipotesi troppo peregrina, data la tendenza alla perdita di valore (“de-basing”) delle principali valute occidentali, tra le quali il Dollaro, implicitamente inevitabile a causa della monetizzazione di fatto dei debiti pubblici. E che ovviamente rimane la prima causa dell’inflazione.

LE BARRE VERTICALI CORRISPONDONO AI PERIODI DI RECESSIONE

È noto infatti che la proprietà delle attività reali (delle quali i titoli azionari sono una frazione) costituisce nel medio termine un baluardo contro l’inflazione molto migliore di quanto possano esserlo i titoli a reddito fisso. Il cui capitale viene sempre restituito al nominale. Insomma le borse restano orientate al rialzo, ma lo fanno perché il terreno dell’economia reale sotto i piedi della moneta in cui sono espressi i valori finanziari si sta sgretolando.

Quanto ci vorrà perché tali movimenti affiorino in superficie? Magari con un rialzo del costo dell’indebitamento? A volte sono più letali i movimenti lenti che non quelli repentini…21/09/25

Stefano di Tommaso




PERCHÉ LE BORSE CONTINUANO LA CORSA

I mercati finanziari appaiono euforici e il loro ottimismo spinge anche i più scettici tra gli investitori a cercare di non perdersi la possibilità di partecipare a questo rialzo delle borse che sembra non finire mai. Quanto però questo ottimismo sia davvero giustificato dai fatti è tutt’altro affare, dal momento che l’enorme liquidità in circolazione contribuisce non poco ad alimentare la volontà degli operatori di leggere ogni evento con le lenti rosa. E l’elenco dei motivi per i quali l’ottimismo potrebbe non durare in eterno inizia ad allungarsi, a partire dalla lettura dell’inflazione dei prezzi che potrebbe prima o poi avere un effetto rialzista sui rendimenti richiesti dal mercato obbligazionario e potrebbe, di conseguenza, andare ad intaccare proprio la radice stessa dell’attuale ondata di ottimismo: la liquidità dei mercati.

 

Altro ovvio motivo per il quale le borse potrebbero far partire una correzione degli attuali picchi massimi riguarda proprio la concreta possibilità che i grandi operatori inizino a ridurre la propria esposizione per prendere qualche beneficio delle plusvalenze realizzate, soprattutto in virtù del fatto che, statisticamente, quello di Settembre appare come un mese in cui le borse calano per effetti stagionali (ad esempio il pagamento delle imposte o la ripresa di ingenti spese spingono che hanno un effetto riduttivo sulla liquidità), come si può vedere dal grafico qui riportato con la media degli ultimi 65 anni a Wall Street:

Partiamo dunque dall’analisi dell’ultimo aggiornamento relativo all’inflazione dei prezzi nella nazione che ancora oggi più ha la capacità di influenzare il resto dei mercati finanziari internazionali: l’America. La crescita dell’inflazione in America è causata innanzitutto dal rialzo del Prodotto Interno Lordo (PIL) americano, che continua a viaggiare ad un ritmo superiore al 3% annuo. Questo è dovuto principalmente a due fattori: gli investimenti e i consumi.


I primi (gli investimenti), oltre che dalla spinta dell’Intelligenza Artificiale (AI) ora sembrano anche trainati non poco dalla ripresa della spesa militare dopo che, a seguito della guerra d’Ucraina, il Pentagono ha dovuto prendere atto della necessità di aggiornare in maniera radicale i propri sistemi d’arma, prima che il resto del mondo possa prendere atto del fatto che sono risultati in buona parte tecnologicamente arretrati rispetto a quelli russi e cinesi. Gli investimenti in quella direzione sono inoltre alimentati dai profitti generati dai grandi ordinativi di armamenti che iniziano ad arrivare dai paesi europei, i cui fornitori sono principalmente gli americani.

Una seconda e forse più importante ragione per cui gli investimenti (soprattutto privati) corrono negli USA più forte che nel resto dei paesi occidentali è la grande priorità strategica che si sono dati i principali colossi industriali e e tecnologici americani di vincere la corsa allo sviluppo dell’intelligenza artificiale. Non tanto sul fronte della ricerca, per la quale gli investimenti contano soltanto fino a un certo punto, quanto piuttosto nell’applicazione dei sistemi d’intelligenza artificiale all’automazione (cioè anche alla robotica) dell’industria e di molti servizi avanzati.

Per le grandi imprese che possono permettersi tali investimenti avere successo su questo fronte significa riuscire ad incrementare la produttività del lavoro e, di conseguenza, a generare migliori margini di guadagno, soprattutto negli USA dove il lavoro costa più caro che in quasi tutto il resto del mondo. E in effetti la produttività dell’industria americana sta aumentando.

Non sappiamo in realtà quanto l‘aumento della produttività dipenda strettamente dall’adozione delle prime forme di utilizzo dell’intelligenza artificiale e quanto, invece, possa più biecamente dipendere dall’incremento di digitalizzazione dei processi che costituisce l’indispensabile premessa per utilizzare poi le tecnologie più evolute. Sicuramente l’America è molto avanti nella digitalizzazione di praticamente qualsiasi cosa e buona parte dello sviluppo di questa digitalizzazione viene registrata come “investimenti”.

Quanto all’AI tutti oramai si rendono conto del fatto che per il momento è quasi un mito e che porterà nell’immediato benefici assai limitati a coloro che ci investono sopra. Ma quel che conta è che esistano comunque piccoli margini tangibili di progresso di tali benefici, i quali possono così giustificare che la giostra continui a girare. Perché -appunto- già solo la digitalizzazione di tutti i processi (che costituisce la premessa dell’adozione dell‘AI) ha ricadute positive sulle grandi imprese e sta imponendo una tendenza nei confronti di tutto le imprese anche del resto del mondo che a sua volta genera per l’industria americana montagne di ordinativi di microchip, di software e di servizi avanzati.

Ma il PIL americano non cresce soltanto grazie agli investimenti appena citati, bensì anche per il fatto che i redditi personali continuano a crescere e, con essi, i consumi, buona parte dei quali ricadono anch’essi nella categoria digitale e nella spesa per la salute, intesa anche come cure per la persona e per limitare gli effetti del progressivo invecchiamento delle classi più agiate della società civile. E la tendenza americana all’aumento di tali consumi comporta un’effetto imitativo in buona parte del resto del mondo, soprattutto occidentale, che dunque sospinge l’inflazione anche fuori dei confini americani.


L’inflazione dei prezzi peraltro non dipende soltanto da investimenti e consumi, bensì anche e soprattutto dalla progressiva perdita di potere d’acquisto (“debasing”) da parte delle principali divise di conto valutario (Dollaro, Euro, Sterlina, Yen, eccetera) che a sua volta dipende dalle politiche monetarie delle banche centrali, spesso indirettamente espansive anche quando vorrebbero far credere il contrario, ad esempio attraverso il rifinanziamento di ultima istanza del sistema bancario (cronicamente a corto di depositi) e attraverso il sostegno alle emissioni di titoli del debito pubblico che vanno ad alimentare politiche fiscali espansive da parte dei governi.

Una misura dell’espansività di fatto delle politiche monetarie è data dalla misura della crescente liquidità complessiva in circolazione, che gli economisti classificano come “M2” e “M3”. Nel grafico qui riportato la tendenza appare lampante!

Una delle manifestazioni più evidenti del “debasing” è l’inarrestabile corsa del prezzo dell’oro, degli altri metalli preziosi e, in generale, di più o meno tutti gli altri “beni-rifugio”. Il “debasing” genera infatti innanzitutto un’inflazione finanziaria, molto più veloce nella sua corsa rispetto ai rialzi del prezzo dei beni di prima necessità. L’incremento di questi ultimi appare costantemente in ritardo rispetto i beni “cospicui” (a partire dai gioielli fino agli yacht e alle case di lusso), soprattutto a causa del fatto che il prezzo dell’energia viene mantenuto artificialmente basso dai governi occidentali attraverso la manipolazione dei prezzi del petrolio e, in misura più limitata, del gas.

Ma, se il prezzo dell’energia si misura in termini di Dollaro e Euro e non in termini di once d’oro, con la svalutazione del potere d’acquisto di questi ultimi appare tuttavia inevitabile che alla fine anch’esso dovrà salire. E quando accadrà allora l’eventuale maggior costo dell’energia avrà un inevitabile quanto immediato effetto al rialzo sui costi di produzione di beni e servizi, anche essenziali.

Questa lunghissima premessa è per spiegare per quali ragioni si può ritenere -nel tempo- inevitabile che l’inflazione dei prezzi arrivi ad adeguarsi all’inflazione finanziaria e che perciò i tassi nominali di rendimento dei titoli a reddito fisso (cioè quelli a lungo termine) siano prima o poi costretti ad incorporare la tendenza al rialzo che ne deriverà (con la loro conseguente riduzione di valore), anche in presenza di ulteriori allentamenti della politica monetaria delle banche centrali, le quali agiscono prioritariamente sui tassi di sconto, cioè di breve termine.

Nel breve termine la grande liquidità in circolazione genera un indubbio effetto benefico sulla domanda (e dunque sui prezzi) dei titoli azionari, che a sua volta fa un inevitabile “effetto vetrina” di incremento del valore nominale dei medesimi e dunque dei listini delle borse valori.

Oltre il breve termine tuttavia occorre ricordare che l’eventuale risalita dei tassi d’interesse non può che comportare due importanti ricadute negative sui listini borsistici: il primo derivante dal fatto che il tasso d’interesse a lungo termine è quello al quale le valutazioni delle aziende scontano i flussi di cassa futuri (più sale e meno vale l’azienda). La seconda ricaduta negativa dipende dal fatto che un eventuale rialzo dei rendimenti dei titoli obbligazionari tende a ridurre la liquidità in circolazione, dal momento che buona parte di questi ultimi viene utilizzata sui mercati come collaterale di finanziamenti speculativi e che dunque, con la conseguente perdita di valore dei tali collaterali, si riduce il moltiplicatore del credito. E dal momento che sembra che il principale “motore” dei rialzi borsistici sembra essere proprio la grande liquidità disponibile, quando questa dovesse arrivare a ridursi verrebbe meno il principale sostegno alle attuali valutazioni delle borse.

Il ragionamento appena fatto tende a spiegare per quali motivi oggi non si è ancora arrestata la corsa al rialzo dei listini delle borse (in buona parte, tuttavia, solo apparente cioè in termini monetari nominali e non in termini di once d’oro) e per quali motivi tale corsa sia -prima o poi- inevitabilmente destinata a invertirsi, seppure il suo effetto sarà maggiore in termini di ricchezza reale e minore in termini strettamente monetari, data la svalutazione.

E soprattutto quanto esposto fornisce un’indicazione decisamente rialzista (almeno nel breve termine) relativamente ai cosiddetti “beni-rifugio”, quali oro e, parzialmente, criptovalute. L’oro poi sembra oggi acquistato soprattutto dalle “altre” banche centrali, cioè principalmente da quelle dei paesi non OCSE, cosa che fa pensare che ciò favorirà un incremento anche della domanda da parte dei privati di once d’oro e di chilogrammi di altri metalli “nobili” cioè rari, che vengono utilizzati nell’industria più tecnologica.

Occorre infine far presente che l’attuale fase di grande liquidità dei mercati, unitamente all’euforia dei mercati, può favorire lo sviluppo delle quotazioni dei titoli a più bassa capitalizzazione, il lancio di nuovi processi di IPO per le imprese che intendono quotarsi e la raccolta di finanziamenti a lungo termine ad un tasso relativamente basso (rispetto a quelli che potrebbero essere richiesti in futuro) per le imprese che vogliono emettere prestiti obbligazionari. Anzi è proprio il caso di cogliere l’occasione del momento positivo che potrebbe non ripresentarsi in seguito!

Stefano di Tommaso

 




SINDROME FRANCESE ?

Il debito pubblico francese è arrivato al 120% del PIL, in una situazione di declino economico e importante deficit del bilancio pubblico (quasi il 6% del PIL). Ovviamente il tasso d’interesse pagato dai titoli di stato di Parigi è cresciuto (oltre quello italiano) e la prossima settimana il governo potrebbe cadere. Si pone allora una questione: quanta probabilità c’è che un polverone speculativo si alzi su buona parte dei debiti pubblici europei? E qual’è il rischio che una crisi politica d’oltralpe possa propagarsi anche al resto d’Europa? Se da un lato esiste la teorica possibilità che le ombre del 2012 ritornino nel 2025 a causa del costante deficit di bilancio di tutte le principali economie continentali, occorre anche notare che le condizioni generali dei mercati finanziari appaiono positive, l’economia globale sia in buona forma e la liquidità in circolazione sia piuttosto ampia. E che dunque il rischio teorico non sia elevato.

 


I MERCATI FINANZIARI NON MOSTRANO PARTICOLARI DEBOLEZZE

I mercati finanziari sono stati fino ad oggi piuttosto tonici, soprattutto evidentemente quelli d’oltre oceano, dove l’economia, nonostante tutto, cresce in media del 3% all’anno sinanco nel terzo trimestre 2025. Il principale indice della borsa americana (lo Standard & Poor 500) in settimana ha segnato nuovi massimi:

L’INDICE STANDARD & POOR 500 DI WALL STREET

E soprattutto l’indice dei titoli a piccola e media capitalizzazione di Wall Street (il Russell 2000) ha registrato significativi passi avanti in attesa del primo taglio del tasso di sconto che i mercati danno per praticamente certo la prossima settimana:


Ma comunque le cose non sono andate male nemmeno per i mercati finanziari europei che restano intorno ai massimi di sempre:


MA GLI INVESTITORI PREFERISCONO L’ORO E LA CINA

Ciò nonostante il fatto che le due categorie d’investimento preferite dagli investitori siano tutt’ora l’oro fisico e la borsa cinese. Anzi, soprattutto quest’ultima rappresenta la vera novità dell’estate, dal momento che l’indice MSCI relativo ai titoli cinesi è cresciuto di quasi il 50% da un anno a questa parte, come si può leggere dal grafico qui sotto riportato:


Per quanto riguarda le quotazioni dell’oro, la sensazione per molti è che, nonostante sia in crescita costante da parecchio tempo, il meglio addirittura debba ancora arrivare. Più precisamente questa è la narrativa implicita nelle quotazioni a termine (i cosiddetti “future” sull’oro) espresse nel grafico qui sotto riportato (che, come si può vedere, prevedono un prezzo che arriva a sfiorare i 3600 dollari per oncia) :


PERCHÉ L’ORO VIENE PREFERITO ?

Il punto però è il motivo per il quale le quotazioni dell’oro crescono così tanto: le banche centrali di tutto il mondo hanno iniziato a preferirlo per le proprie riserve, come si può vedere dal grafico qui sotto riportato (che peraltro si riferisce soltanto alla fine del 2024 mentre oggi la tendenza potrebbe essere molto più accentuata):


Il principale motivo è da attribuirsi al cosiddetto “debasement” delle principali valute di conto (dollaro, euro, yen, ecc…) dovuto alla monetizzazione dei debiti pubblici operata nel tempo dalle banche centrali attraverso progressivi acquisti di titoli di stato. Quest’ultima provoca una inevitabile svalutazione del potere d’acquisto che si riflette nelle quotazioni dell’oro, ma anche in un’inevitabile inflazione strisciante dei prezzi al consumo.

MA PER IL MOMENTO I TASSI A LUNGO TERMINE SCENDONO

L’inflazione a sua volta impedisce ai tassi d’interesse di scendere troppo, anzi! Al momento si registra una piccola riduzione dei rendimenti impliciti offerti dai titoli di stato americani ed europei, come si può ad esempio leggere dal grafico qui riportato:


E LA LIQUIDITÀ IN CIRCOLAZIONE RESTA SOVRABBONDANTE

Ma, per le ragioni sopra asserite, e soprattutto per il fatto che oggi si registra un’incremento senza precedenti della liquidità globale in circolazione sui mercati, come si può vedere dai grafici qui sotto riportati, è difficile asserire con certezza che tale discesa dei rendimenti possa continuare a lungo:

L’ANDAMENTO DELLA LIQUIDITÀ IN CIRCOLAZIONE (M2) PER AREA

ANCHE IL PETROLIO TENDE A CALARE

Il fatto che i prodotti petroliferi (e dunque anche, indirettamente, il costo dell’energia) riesca a venire contenuto, nonostante le forti tensioni geopolitiche, aiuta a sostenere la tesi di un’inflazione che non si riaccende, come da più parti spesso temuto:


Tuttavia il declino dei prezzi dei titoli di stato francesi, in particolare evidenza dalla scorsa settimana, appare tuttavia come un pericoloso segnale di attenzione, circa la possibilità che i mercati internazionali possano avvicinarsi ad una crisi di fiducia degli investitori, che potrebbe essere alimentata dal fatto che i mercati registrano tutti quotazioni alle stelle (e che dunque più di un operatore sia tentato di cavalcare un’ondata speculativa al ribasso).

LA FRANCIA STA PAGANDO TASSI CRESCENTI

I rendimenti dei titoli di stato francesi hanno fatto progressi a causa di un debito pubblico crescente, accompagnato da grandi deficit del bilancio pubblico e dalla stagnazione economica cui è sottoposto il paese. E dunque la crescita dei tassi pagati dal tesoro parigino riflette i timori di sostenibilità del debito pubblico nazionale.

La situazione peraltro appare potenzialmente esplosiva perché la settimana entrante potrebbe registrare altri problemi di instabilità politica della Francia, guidata da un Presidente che non rappresenta più la maggioranza degli elettori e che fa fatica ad esprimere un governo nazionale. Di seguito una traccia dell’andamento, per diverse scadenze, degli ultimi mesi:

 


Tuttavia il rischio di una crisi di fiducia sul debito pubblico di tutta Europa purtroppo incombe, e a nulla potrebbe valere in tal caso il miglioramento del giudizio di rating recentemente incassato dal governo italiano. Tuttavia l’eventualità di un attacco speculativo al debito pubblico francese (ipotizzabile soprattutto in caso di crisi politica dell’attuale establishment parigino) non è una certezza, anzi! Al momento la traiettoria dei mercati è positiva e i dati macroeconomici non sono così disastrosi e la Francia ha mostrato una certa capacità di attrarre capitali dall’estero.

Il problema casomai sarebbe legato al fatto che i titoli europei a più larga capitalizzazione non sono tanto legati alle tecnologie come in America, bensì principalmente banche, il cui rischio di gestione verrebbe sicuramente influenzato in caso di downgrading dei titoli di stato, dei quali hanno grandi quantità in portafoglio. Allo scorso dicembre 2024 infatti le banche dell’area UE/EEA detenevano circa 3,6 trilioni di euro in esposizioni verso controparti sovrane, in aumento rispetto ai 3,3 trilioni di euro di fine 2023.


Stefano di Tommaso




OTTIMISMO, NONOSTANTE TUTTO

Viviamo in tempi non proprio tranquilli: l’America non ha ancora finito di digerire le guerre commerciali con il resto del mondo (tramite l’imposizione di tariffe doganali) volute dalla nuova amministrazione presidenziale, anzi: qualcuno dice che non ha nemmeno iniziato, la guerra della NATO in Ucraina contro la Russia sembra inasprirsi mentre si aprono nuovi focolai bellici in Sud America e in Asia. Eppure i listini delle borse valori sembrano infischiarsene, toccando nuovi massimi e facendo calare (seppur di poco) i tassi d’interesse pagati dai titoli di stato di nazioni occidentali sempre più indebitate (a partire dagli USA, come si può vedere dal grafico sotto riportato).

 

VOLATILITÀ AI MINIMI

Per di più ciò è avvenuto in un contesto di volatilità sempre minore dei mercati finanziari. Nel grafico qui sotto riportato possiamo vedere l’indice VIX vicino ai minimi assoluti, confrontato però con il suo andamento stagionale degli ultimi 35 anni, il quale richiama inevitabilmente alla mente l’ovvia considerazione che -dopo tanta bonanza- le acque potrebbero anche incresparsi con la ripresa autunnale:


Molti osservatori attribuiscono la magia del momento alla sempre maggiore liquidità in circolazione e in effetti è difficile pensare altrimenti, dal momento che persino la principale delle criptovalute, normalmente considerata un asset alternativo alle borse e ai titoli di stato, galleggia ben oltre i 100.000 Dollari, cioè vicino ai suoi massimi storici, come si può leggere dal doppio grafico qui sotto riportato:


QUANTO DURERÀ LA BONANZA?

Dunque stiamo assistendo ad un miracolo che pare anche voler continuare e non svanire nel nulla come il sogno di una notte d’estate. Ma si ripropone la domanda delle domande: quanto durerà? È Sempre difficile vaticinare in proposito e pur tuttavia, incredibilmente e nonostante l’attesa di maggior volatilità dei corsi, la prospettiva per Wall Street appare quella di poter segnare ulteriori progressi (vedi il grafico qui sotto riportato relativo alle previsioni di un istituto noto per il suo rigore metodologico come Yardeni Research), dati i significativi margini di crescita e di guadagno delle grandi multinazionali americane e l’ottimismo che si diffonde per l’attesa di una discesa dei tassi d’interesse da parte delle principali banche centrali.


Ma occorre precisare che ciò può accadere soprattutto in America, la quale in compenso pagherà questa situazione al prezzo sempre più salato di una svalutazione strisciante del Dollaro (forse anche contro Euro), da tempo strutturalmente debole e ora, dopo un periodo di traslazione laterale, di nuovo suscettibile di altri scivolamenti, come si può peraltro intuire dalle linee di tendenza qui sotto riportate:


BIG TECH, BIG PROFITS

Se si riesce ad isolare il rischio valutario dunque le prospettive per Wall Street sembrano ancora una volta positive. Sicuramente in funzione dell’enorme liquidità in circolazione, che pian piano non potrà che ritornare dai fondi di mercato monetario verso i titoli azionari, ma anche per il fatto che le imprese americane diverse dalle ”Big Tech” restano ancora equamente valutate (ad esempio quelle dell’indice Russell 2000, qui sotto riportato), mentre, anche se al momento appaiono sopravvalutate, ricordiamoci che le grandi multinazionali non accennano a flettere dal loro percorso di crescita e di profitti.


PROSPETTIVE POSITIVE ANCHE IN EUROPA

In Europa il rischio di inflazione è oggettivamente minore (anche a causa della grande debolezza dell’industria continentale) ma in compenso le dinamiche sono molto meno positive, tanto a causa del rischio di flessione delle esportazioni verso gli USA, quanto a causa della ”deflazione salariale” che le leadership europee perseguono pervicacemente al posto di una più sana svalutazione competitiva (che invece è la scelta di Donald Trump).

Tuttavia il costo del debito pubblico a casa nostra sembra veleggiare decentemente, come si può leggere dal grafico qui sotto riportato:


BENE PETROLIO E GAS

Nonostante le tensioni geopolitiche anche il costo dell’energia, per vari motivi, sembra restare su una china discendente, cosa che allontana il pericolo di nuove vampate di inflazione e fa ben sperare circa i margini industriali delle imprese (di seguito l’andamento dei prezzi di gas e petrolio), il che fa sperare in un andamento relativamente positivo anche delle borse europee, sulla scia della possibile continuazione del trend rialzista americano:


L’ORO POTREBBE RIPRENDERE LA SUA CORSA

Ma la sorpresa maggiore potrebbe arrivare, nel prossimo futuro ancora una volta dalla “asset class” che ha più performato nell’ultimo anno: l’oro, la cui linea di tendenza sembra impostata ancora una volta verso l’alto, dopo un periodo di relativa calma:


Stefano di Tommaso