ECONOMIA GLOBALE A DUE VELOCITÀ

Alla fine degli eccessi di mercato e dei dubbi conseguenti circa la sostenibilità di quotazioni troppo elevate, una piccola correzione delle borse è arrivata. Ora è piu lecito chiedersi se sia stato soltanto l’inizio di una svolta nell’atteggiamento di risparmiatori e investitori professionali o se essa sarà classificabile soltanto come una pausa prima che i mercati riprendano la loro corsa. Ma per trovare una risposta occorre guardarsi intorno: come va l’economia reale? Continua l’entusiasmo degli operatori? Le banche centrali hanno finito di restringere la politica monetaria? I tassi d’interesse sono davvero in discesa? La risposta, però, non è univoca…


Cominciamo col dire che la Federal Reserve (la più importante di tutte) ha effettivamente dato segnali di distensione, indicando -a seguito del rischio di togliere troppo ossigeno al sistema bancario- la conclusione del “tapering”, cioè della politica monetaria restrittiva. Questo non significa necessariamente che diventerà espansiva, ma è sicuramente qualcosa.


Anche i rendimenti espressi dal reddito fisso sono scesi un filino, più che altro perché le vendite dei titoli azionari hanno dato luogo ad acquisti dí quelli obbligazionari. La qual cosa è tuttavia un secondo segnale “non-negativo”, perché indica che gli investitori stanno riposizionandosi su un approccio meno speculativo ma non stanno fuggendo dai mercati finanziari, come l’ascesa strepitosa del prezzo dell’oro e degli altri metalli preziosi poteva far pensare.


I principali dubbi tuttavia (al di là delle eccessive valutazioni di molti titoli americani) riguardano l’evoluzione della crescita economica: proseguirà indisturbata dai sempre più impetuosi venti di guerra e dalle crescenti restrizioni commerciali internazionali o alla fine fletterà? Ai listini delle borse (composti principalmente di azioni delle grandi multinazionali) più che altro però interessano i profitti attesi: essi continueranno la loro corsa o dovranno riflettere un contesto generale deteriorato?


La congiuntura economica effettivamente può dar luogo a preoccupazioni in tal senso. Il punto però è che manca la sincronizzazione tra le tendenze delle varie principali economie del mondo: quella americana è passata da una foga nei consumi cospicui (che non si è ancora interrotta) ad un incremento degli investimenti tecnologici e dunque ha sostanzialmente proseguito la sua corsa. Le prospettive americane inoltre sono ottimistiche a causa del “reshoring” (il ritorno di numerose attività industriali) che comporta altri investimenti e nuova occupazione. Si può perciò continuare a parlare di “eccezionalismo americano”.

Quella europea molto meno, anzi è chiaramente in decrescita e gli investimenti tecnologici non controbilanciano molto il calo dei consumi nonostante la maggior necessità di inseguire l’iper-digitalizzazione, richiesta dall’utilizzo crescente dell’intelligenza artificiale. L’Europa in generale deve poi confrontarsi con il problema strategico dei costi della guerra con la Russia e con quello conseguente dell’escalation dei costi di approvvigionamento energetico.

Il settore trainante in Europa (quello dei veicoli da trasporto) resta boccheggiante, almeno per ora. L’impiantistica industriale soffre della caduta verticale del mercato interno, le costruzioni e l’immobiliare hanno fino ad oggi beneficiato degli incentivi europei ma adesso devono fare i conti con la scarsità di risorse pubbliche e il settore bancario, che prometteva grandi profitti non potrà che limitarli a causa della sua (almeno parziale)dipendenza intrinseca dall’industria e dal commercio.

L’economia asiatica (così come quella sud-americana) prosegue la sua crescita in funzione delle prospettive positive dei consumi interni ma indubbiamente deve fare i conti con il calo atteso delle esportazioni verso l’Occidente. Le economie emergenti (esclusa la Cina, che oramai è un colosso) risentono a loro volta della crescita demografica ma stanno subendo il calo dei prezzi delle materie prime (in particolare il petrolio è sceso sotto la soglia psicologica dei 60 dollari) e continuano a soffrire il deflusso netto di risorse finanziarie a favore per lo più degli U.S.A.


\Persino nel caso di una crescita a due o tre velocità (America, India, Cina e Giappone da una parte, Europa dall’altra e in mezzo i Paesi Emergenti) le prospettive complessive non appaiono così rosee. C’è poi lo spauracchio del moltiplicarsi dei conflitti armati. Ė vero che le guerre sono sempre un gran business ma il loro eccesso può sortire il contrario.

Dunque le preoccupazioni generali si addensano come nubi nere all’orizzonte delle prospettive di profitto delle imprese quotate e di quello, ancor più pericoloso, della sostenibilità dei debiti pubblici con le entrate correnti. Una preoccupazione ulteriore in tal senso genererebbe una fuga dai titoli a reddito fisso e una conseguente crisi di fiducia. Un problema più per le prospettive a medio termine che non per l’immediato dei mercati finanziari, i quali oggi risentono più della liquidità in circolazione che delle attese di profitto.


A fronte di una decisa risalita della volatilità dei mercati infatti i grandi portafogli si sono “dovuti” riposizionare su una strategia di contenimento dei rischi, che ha favorito il piccolo calo delle borse e l’ancor minore crescita delle quotazioni obbligazionarie. Se essa proseguirà la tendenza negativanbsp; delle borse non potrà che continuare. Se si invertirà i grandi gestori torneranno a comperare azioni e le borse invertiranno la rotta al ribasso. Quello attuale è perciò (almeno da un punto di vista tecnico) un punto di domanda: prevarrà il Toro (cioè l’ottimismo, o rispunteranno forme dí Quantitative Easing che lo favoriscono) oppure le borse dovranno prendere atto delle zampate dell’orso e vireranno decisamente a “sud”?

A favore della prima delle due possibilità c’è la fondamentale considerazione che l’inflazione (mai completamente sopita a causa della crescente monetizzazione dei debiti pubblici che di fatto svaluta la moneta)erode il reddito fisso e favorisce gli investimenti in attività reali (comprese le azioni che sono pur sempre quote di aziende). A favore della seconda i rischi in aumento della geopolitica e quelli ancor più immanenti dei deficit dei bilanci pubblici che minano la capacità di sostenere non soltanto il debito, ma anche i salari reali (e con essi i consumi).

LA,FIDUCIA DEL CONSUMATORE AMERICANO CONTINUA A CRESCERE

Da notare che il prezzo dell’oro (anch’esso una misura dei timori dei risparmiatori) ha potuto beneficiare non soltanto della domanda che da tempo ha superato l’offerta, ma anche del contesto attuale di attese (forse eccessive) di pesante svalutazione monetaria in un contesto di tassi reali dunque sotto lo zero. Se viceversa i rendimenti dovessero tornare a crescere e il “debasement” (il calo del contenuto di valore delle principali divise monetarie) percepito dovesse ridursi al che le quotazioni del metallo giallo potrebbero ridimensionarsi. Senza contare il fattore minerario: alle quotazioni attuali conviene parecchio di più investire per estrarre altro oro e nel lungo termine la sua offerta potrebbe tornare a sorpassarne la domanda.

Stefano di Tommaso




ALLACCIATE LE CINTURE !

Mercati al bivio, dopo il venerdì nero della scorsa settimana! Dopo l’ennesima esternazione di Trump circa nuovi dazi doganali alla Cina, tutti hanno paura e la paura genera sempre altra paura, soprattutto quando i dati macroeconomici non vengono pubblicati. Perciò le borse sono scivolate del 3%? Forse. Oppure sono scese perché dovevano già scendere, dal momento che stava per esaurirsi un ciclo e ne stava iniziando un altro ? Il momento della verità arriverà con le prime trimestrali d’autunno.

IL PROBLEMA DEL DEBITO PUBBLICO

In realtà il presidente degli Stati Uniti d’America sbraita contro Xi Jin Ping perché sa che non è facile centrare l’obiettivo di rientrare dall’immenso deficit di bilancio ereditato dalla precedente amministrazione federale senza riaccendere il cerino dell’inflazione. E per riuscirvi ha bisogno di trovare accordi con il resto del mondo, Cina compresa, e incassare molti dazi.


L’Europa l’ha già spremuta abbastanza e non riuscirà a fare molto altro. L’Asia (con la Cina sua egemone ) invece resta la gallina dalle uova d’oro, anche se rappresenta il più temibile degli avversari. Quindi serve una manovra a tenaglia, che farà fatica a mettere a segno: i mercati lo sanno bene e per questo si preoccupano. Tuttavia Trump qualche risultato nel frattempo lo sta portando a casa: la crescita economica dell’America è altrettanto importante della riduzione del deficit federale e va alimentata a tutti i costi (guerre comprese, che siano solo commerciali o anche militari) altrimenti le prospettive del debito pubblico peggiorano a vista d’occhio.


RIEMPIRE LE CASSE FEDERALI CON LE DOGANE

E la politica tariffaria è oramai parte integrante della strategia di galleggiamento della finanza pubblica americana: nel resto dei paesi OCSE le entrate fiscali derivanti dalle tariffe doganali non superano il 2% delle entrate, mentre nell’America di Trump si avvicinano al 20%, segno che il traguardo del pareggio di bilancio è più vicino a condizione di tenere il piede sull’acceleratore. Ma quest’ultimo non potrà non avere conseguenze in termini d’inflazione e d’instabilità finanziaria, a meno di non vedere qualche ribaltone sui mercati finanziari, che è esattamente quello che sta succedendo negli ultimi giorni.

SE LE BORSE SCENDONO VANNO GIÙ ANCHE I TASSI A LUNGO TERMINE

I risultati infatti per il momento l’amministrazione parrebbe averli a portata di tiro, dal momento che il calo improvviso dei mercati azionari ha avuto come effetto collaterale il calo dei rendimenti del titolo decennale americano, giunto alla soglia del 4%, come si può vedere dal grafico qui allegato:


Anche il petrolio ha avuto una svolta al ribasso, toccando minimi che non si vedevano dalla scorsa primavera (come si vede dal grafico qui sotto) e evidentemente questa tendenza aiuta non poco a contenere il rischio inflazione dei prezzi.


Le borse poi erano cresciute troppo e troppo presto, perché la vera scadenza alla quale devono presentarsi in ottima forma è a fine anno, cioè tra poco meno di tre mesi. Nel frattempo, visto che non possono soltanto crescere, sarà meglio che arrivino a ridimensionarsi un po’, dando così fiato al mercato monetario (dal quale il Tesoro americano attinge per piazzare i propri strumenti di debito).


QUANTO DEVE SCENDERE WALL STREET PER DICHIARARE IL PANICO?

Il calo improvviso di Wall Street dello scorso venerdì era dunque parte di un disegno superiore, volto a dare respiro all’intero sistema finanziario americano. Non per niente nel corso della settimana si è visto qualcosa di assai poco insolito: i grandi investitori vendevano mentre quelli piccoli acquistavano, fino a quando non lo hanno fatto più e l’indice Standard amp; Poor 500 è sceso del 3% in un solo giorno, come si può vedere dal grafico:


Ovviamente perché si innesti un vero e proprio trend ribassista occorre infrangere supporti importanti (evidenziati dalle linee rosse) e questo non è certo che succederà, ma il rischio è concreto e le ragioni vanno ben al di là delle esternazioni del presidente.

IL PRIVATE EQUITY STAVA GIÀ SCENDENDO

Si guardi ad esempio il paragone dell’andamento dello SP500 (linea bianca qui sotto ) con l’andamento del principale titolo del Private Equity americano (KKR, linea verde) che aveva già iniziato da qualche tempo la sua discesa probabilmente a causa di qualche dubbio sull’abbondanza futura della liquidità dei mercati:


Oppure si guardi un andamento analogo sul fronte del Bitcoin, cioè la principale delle criptovalute (che sono scese tutte più o meno della stessa proporzione), tornato di colpo sotto al livello di fine Agosto:


MOLTO DIPENDE DAL LIVELLO DELLA LIQUIDITÀ GLOBALE

E’ chiaro dunque che i mercati finanziari si aspettano che la liquidità in circolazione non resti così alta per sempre, che i profitti aziendali non restino così rosei per sempre, che gli investitori non continuino a vendere titoli a reddito fisso per comperare azioni per sempre. O quantomeno non subito.


CON L’ORO “BOLLENTE” CI SI PUÒ BRUCIARE LE DITA ?

Ma la vera questione delle questioni sui mercati finanziari è relativa a come si comporterà l’asset class che è stata la superstar dell’ultimo anno: l’oro, giunto a livelli nemmeno pensabili sino a pochissimo tempo fa. Nel grafico qui sotto riportato si può leggere un qualche tentennamento nella prosecuzione della sua pazza corsa verso il cielo, anche perché a comperarlo fino ad oggi sono state soprattutto le banche centrali.


Ma anche le quotazioni dell’oro (si legga il grafico qui riportato), giunto alla sogli psicologica di 4000 Dollari, potrebbero ritrarsi leggermente qualora la sfiducia si propagasse sui mercati. Una sfiducia che non farebbe che aumentare le quotazioni dei titoli a reddito fisso, cioè che ne farebbe ulteriormente calare i rendimenti. Cioè esattamente quello di cui l’America ha bisogno!

Dunque se Trump avesse la bacchetta magica (o la possibilità di influenzare i mercati) potrebbe aspettarsi di meglio? Difficile dirlo. Salvo il fatto che a giocare col fuoco (il prezzo dell’oro è incandescente) si rischia di bruciarsi le dita, quantomeno relativamente alle conseguenze indesiderate della svalutazione monetaria che segue inesorabilmente all’ascesa impareggiabile del metallo giallo. Ma qualcosa occorre pur rischiare, no? Ad esempio l’andamento recente delle borse, in termini aurei, non è stato poi così brillante, anzi! (si veda il grafico qui sotto). Dunque il problema è quello della brillantezza: più sale quella del metallo giallo più scende quella di tutto il resto:


QUANTO DURERÀ LA CORREZIONE?

Tutto bene dunque? Lo scivolone di venerdì scorso è temporaneo. Ovviamente dipende dai profitti che scaturiranno dalle nuove trimestrali, ma se si riesce a trattenere il fiato fino al prossimo mese (perché il ciclo di ribasso che sta per prendere piede potrebbe non durare meno) probabilmente si: i mercati avranno tempo per riprendersi prima di Natale e segnare nuovi massimi, ma nel frattempo il costo del debito americano può rientrare sotto controllo e la (piccola per ora) discesa dei rendimenti dei titoli a lunga scadenza aiuta il mercato monetario e dunque la liquidità futura. A tagliare il costo del denaro a breve termine potrà invece pensare la Federal Reserve (il cui stato d’assedio sembra ben riuscito). E la banca centrale sicuramente risulterà meno preoccupata nel farlo qualora la corsa delle borse dovesse arrivare prendersi una pausa.

Stefano di Tommaso




C’È L’INFLAZIONE DOPO I RICCIOLI D’ORO?

ANDAMENTO DELL’INDICE “MORGAN STANLEY” RELATIVO ALLE QUOTAZIONI DELLE BORSE IN TUTTO IL MONDO

Le borse continuano a correre e i titoli a reddito fisso “tengono” (cioè i tassi d’interesse a lungo termine non sono saliti che marginalmente) nonostante i ripetuti allarmi relativi alla difficoltà che possa perdurare la straordinaria congiuntura favorevole delle ultime settimane. Stavolta però a lanciare l’allarme è addirittura il colosso globale dell’investment banking Goldman Sachs, che ha parlato di “tre orsi” esprimendo preoccupazioni per un potenziale shock di mercato che potrebbe sconvolgere l’attuale economia “Riccioli d‘Oro” (uno scenario economico equilibrato, non troppo caldo da causare inflazione né troppo freddo da rallentare la crescita, che favorisce le quotazioni sui mercati finanziari).

PRINCIPALE INDICE DELL’’ANDAMENTO DELL’OCCUPAZIONE NEGLI USA

WALL STREET “COMPIACENTE

La situazione attuale, soprattutto per gli Stati Uniti d’America, appare moderatamente positiva e, di conseguenza perfetta per i mercati finanziari, anche se incombono numerosi rischi che l’idillio dei mercati si interrompa presto. Le quotazioni di Wall Street, segnalate dall’indice SP 500, attualmente ai massimi storici, mostrano per di più una sorprendente stabilità (l’indice della volatilità dei titoli azionari giace infatti ai minimi di sempre).

L’INDICE DELLA VOLATILITÀ DI WALL STREET

I TRE ORSI

Dunque gli investitori sembrano sperare in una prosecuzione della congiuntura e ignorare i numerosi rischi provenienti dall’economia reale. Tuttavia il responsabile della strategia azionaria globale di Goldman Sachs, Christian Mueller-Glissmann, ha identificato tre potenziali rischi che potrebbero sconvolgere questo equilibrio:

  • uno shock di crescita, che potrebbe derivare dallaumento della disoccupazione o dalla riduzione dei salari reali;
  • uno shock di tassi, nel caso (relativamente probabile) in cui la disoccupazione smetta di salire e la Federal Reserve, prendendo atto della crescita sostenuta del PIL americano, decida di non dare seguito a quegli ulteriori tagli dei tassi che il mercato si aspetta entro pochi mesi;
  • una svalutazione del 10% del dollaro, che potrebbe convincere gli investitori stranieri a non investire ulteriormente sul mercato finanziario statunitense.

E GLI ALTRI CIGNI NERI

In realtà il numero di possibili “cigni neri” che potrebbero guastare la festa di Wall Street appare molto più elevato. Proviamo a elencarne qualcuno :

  • taluni si aspettano possibili delusioni dal traino all’economia fornito dalle vendite di semiconduttori o dagli investimenti nei ”data center” necessari all’intelligenza artificiale (AI);
  • i data center consumano una quantità crescente di energia e, nel caso questa finisse per recepire le istanze ambientaliste che Trump vorrebbe ignorare, potrebbe costare troppo per gli ancora scarsi ricavi dell’AI;
  • altri temono prosegua la risalita dell’inflazione, soprattutto in caso di rialzo dei prezzi del petrolio, o del gas o delle principali materie prime, magari in caso di peggioramento della già difficile congiuntura geo-politica globale;
  • non è da escludersi poi che i cosiddetti “bond vigilantes”(grandi investitori nel mercato obbligazionario che intervengono sui mercati vendendo il debito pubblico degli Stati considerati poco responsabili in materia di politiche fiscali) decidano che la misura è colma per la montagna di debiti che tutte le principali nazioni occidentali continuano tranquillamente ad incrementare.

L’INFLAZIONE PUNTA AL RIALZO

Anzi, la possibilità di un risveglio degli allarmi lanciati dai Bond Vigilantes appare anche più che una mera eventualità, come fa notare Robert Burrows, portfolio manager della M&G, a proposito della cosiddetta “inflazione nascosta”. Burrows ricorda che l’attuale tendenza al rialzo dei debiti ha soltanto tre possibili vie d’uscita: a) il default, b) la crescita, c) l’inflazione. E che l’inflazione, nella situazione attuale, sembra essere l’esito più probabile.

DIVERSE RILEVAZIONI DELL’INFLAZIONE USA MOSTRANO UNA TENDENZA A RISALIRE

L’inflazione, seppur marginalmente, è già in crescita da qualche mese a questa parte, soprattutto oltre oceano, dove i consumi corrono e gli investimenti si moltiplicano.

La possibilità che l’unico modo di ridurre i debiti pubblici in Occidente sia quello della progressiva svalutazione monetaria discende dalla difficoltà che si realizzi l’una o l’altra delle due vie d’uscita alternativa (il default o un’importante crescita economica). Il default sembra non rientrare in alcun possibile scenario preso in considerazione dalle banche centrali, a causa degli enormi danni che apporterebbe all’economia reale, dunque a tale possibilità vedremmo contrapporsi tutta la loro forza.

UNA SORPRENDENTE ACCELERAZIONE DEL PIL AMERICANO

In piu -come si può vedere dal grafico riportato qui sotto- gli USA stanno mostrando una sorprendente accelerazione del Prodotto Interno Lordo (che fermerebbe la FED dal procedere a nuovi tagli dei tassi):

MA IL DEBITO PUBBLICO CONTINUA A CRESCERE

Una prolungata crescita economica globale costituirebbe lo scenario migliore per ridurre, in proporzione, lo stock dei debiti pubblici. Ma la probabilità che questa si possa realizzare in misura sufficiente a sminare i timori di sostenibilità del debito appare relativamente bassa, dal momento che le forti barriere doganali elevate dagli USA limitano la possibilità di una cooperazione globale alla crescita economica e danneggiano le esportazioni dei loro principali alleati (gli stati europei) condannandoli ad una relativa stagnazione.

Per converso occorre tenere conto della grande liquidità immessa in circolazione dalle banche centrali di tutto il mondo per sostenere il rifinanziamento dei titoli di stato in scadenza. Liquidità che genera un relativo “annacquamento” del valore intrinseco della moneta convenzionale. In passato questo fenomeno è stato efficacemente contrastato, quantomeno in termini di inflazione netta, dai benèfici effetti della globalizzazione, la quale ha reso più economiche numerose produzioni affidate ai paesi emergenti, soprattutto asiatici. Ma oggi non è più così: la crescente contrapposizione tra i due blocchi di nazioni (i BRICS e i Paesi OCSE) nonché il protezionismo crescente, provocano il progressivo rimpatrio di numerose attività industriali, e i costi di produzione salgono.

IL PREZZO DELL’ORO CERTIFICA LA SVALUTAZIONE MONETARIA

A testimoniare la concretezza di tale problematica (il rischio latente di accelerazione dell’inflazione) c’è un indicatore che nel lungo termine l’ha sempre rilevata con inequivocabile precisione: il prezzo dell’oro, bene rifugio per eccellenza. Non soltanto questo negli ultimi mesi è letteralmente schizzato alle stelle, ma sembra anche voler proseguire indefinitamente.

ANDAMENTO DEL PREZZO DELL’ORO IN DOLLARI

IL RISCHIO “BOLLA SPECULATIVA” DELL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE

Se il rischio d’inflazione si materializzasse dunque si potrebbe affermare che i mercati azionari (con Wall Street in testa) siano entrati in una bolla speculativa che non potrebbe che scoppiare presto. Già allinizio di settembre, Michael Hartnett, capo della strategia d’investimento di Bank of America, aveva lanciato un allarme sulla potenziale bolla speculativa relativa ai colossi dell’intelligenza artificiale, citando la sproporzione dei parametri di valutazione aziendale rispetto ai dati storici e al resto del mercato.

LE VALUTAZIONI SI SONO SPINTE TROPPO IN ALTO

Inoltre il rapporto prezzo/valore contabile espresso in media dai titoli dell’indice SP 500 ha raggiunto livelli record, superiori a quelli registrati durante la bolla delle dot-com nel 2000. E nonostante ciò Wall Street ha iniziato il quarto trimestre ancora in crescita. Quando i prezzi d’ingresso sul mercato azionari arrivano a questi livelli, nessuna strategia d’investimento può garantire ai risparmiatori performance elevate nel tempo. Ecco perché molti gestori, pur restando investiti (almeno fino a fine anno) cercano di diversificare la liquidità eccedente acquistando immobili, criptovalute, titoli a reddito fisso, metalli preziosi e beni di lusso.

LE VALUTAZIONI D’AZIENDA HANNO RAGGIUNTO LIVELLI ECCESSIVI A WALL STREET

Di questo passo infatti è piuttosto probabile che l’orizzonte di programmazione dei principali investitori dei mercati finanziari non vada oltre la fine del corrente anno, quando potranno raccogliere i benefici della formidabile performance dei mercati e attribuirsi ottimi premi. Questo appare logico un po’ per la possibilità che si moltiplichino, a fine anno, le prese di beneficio delle attuali quotazioni, un po’ per il timore che la giostra dell’eterno rialzo dei corsi non possa andare avanti in eterno.

IL RISCHIO E’ CHE I TASSI RIPRENDANO A CRESCERE

In termini di quali possono essere le conseguenze di un tale scenario di termine dell’attuale ciclo positivo dell’oro e delle borse intorno a fine anno, potremmo mettere in primo piano il rischio che i tassi d’interesse a lungo termine ritornino a crescere, provocando una riduzione della liquidità in circolazione e la perdita di valore della componente più lunga dei titoli a reddito fisso.

Anche la disponibilità di credito per le piccole e medie imprese ne risentirebbe negativamente, tanto in termini di volumi quanto in termini di maggior costo, dal momento che il rischio che si riducano i margini industriali, contestualmente all’inflazione dei prezzi, appare pronunciato.

Stefano di Tommaso




LE RAGIONI DELL’ORO

La ripida ascesa delle quotazioni dell’oro segna un solco profondo nelle finanze di ciascuno di noi, ed è soltanto la punta dell’iceberg di un mondo in forte trasformazione. Dal momento che il metallo giallo viene considerato il miglior scrigno nel quale conservare valore nel tempo, evidentemente il suo maggior costo certifica il crollo delle aspettative di conservazione del valore nelle principali divise monetarie: in primis il Dollaro americano e in rapida sequenza anche lo Yen giapponese, la Sterlina inglese e l’Euro.


E’ un indicatore della forza del cambiamento che sta travolgendo non soltanto i mercati finanziari ma anche l’intera economia reale del mondo occidentale, che fino ad oggi è stata buona parte di quella globale.

Non a caso contemporaneamente al decollo del prezzo dell’oro sono venuti a galla alcuni fattori dei quali occorrerà tenere conto nei ragionamenti:

  • l’economia americana non soltanto appare lanciata verso una crescita che rischia di rasentare il 4% annuo, ma appare addirittura in miglioramento! Ovviamente misurando il tutto in dollari, non in oro. Un vero e proprio surriscaldamento che cancella ancora una volta la periodicità delle oscillazioni dello sviluppo economico dei decenni passati e ogni precedente indicazione di “soft landing” che si è trasformato in un “no landing”;
  • anche i profitti delle aziende americane sono alle stelle e i motivi della prosecuzione dell’ “eccezionalismo americano” sono numerosi ed interessanti: a partire dalle maggiori vendite di armamenti al resto del mondo, per proseguire con lo sviluppo di avanzatissime tecnologie innovative (che contribuiscono ad accelerare la digitalizzazione dell’economia), fino alla grande disponibilità di credito e alla bassa tassazione dei redditi personali che contribuiscono a non ridurre i consumi;
  • tutto questo (insieme alla grande performance delle borse) sta comportando un afflusso netto di liquidità agli USA che, evidentemente, corregge la narrativa recente che prevede una debolezza strutturale del dollaro (dal momento che la sua domanda supera l’offerta). Ovviamente stiamo parlando del cambio del Dollaro verso Yen, Sterlina ed Euro (e probabilmente anche verso lo Yuan cinese, ma per altri motivi), non della debolezza del Dollaro nei confronti dei metalli preziosi e dei principali beni rifugio, che invece appare destinata a perdurare;
  • i debiti pubblici di quasi tutto il mondo continuano a correre, incrementando negli investitori la sensazione di dover prima o poi prendere atto della diminuita sostenibilità dei conti pubblici e di conseguenza dell’ineluttabile incremento della remunerazione in termini di tasso d’interesse richiesta dai risparmiatori per acquistarli;
  • le banche centrali continuano al tempo stesso (e non potrebbero fare diversamente) a sostenere le emissioni dei debiti pubblici, da un lato acquistando parti delle emissioni (dunque monetizzando direttamente parte del debito pubblico), dall’altro assicurando liquidità al mercato e agli intermediari finanziari che li acquistano per favorire il successo delle emissioni. In questo modo però esse favoriscono inevitabilmente la perdita del contenuto di valore delle monete, cioè la loro svalutazione, che non potrà non riflettersi nell’inflazione dei prezzi;
  • un’inflazione che dunque (almeno in America) appare destinata a crescere ancora. Non per i dazi alle importazioni (oramai correttamente vissuti come un evento isolato e non ripetibile), bensì per l’inevitabile risalita dei prezzi espressi in Dollari;
  • le banche centrali al tempo stesso hanno continuato a preferire di acquistare oro per le loro riserve, e quindi hanno contribuito alla crescita delle quotazioni di quest’ultimo.

Da notare che nel corso di quest’anno il costo dell’energia è rimasto relativamente contenuto nonostante la crescita economica, soprattutto a causa delle manovre messe in atto dalla nuova amministrazione americana (ivi compreso l’abbandono di fatto delle politiche di riduzione delle emissioni nocive) e al tempo stesso a causa dell’eccesso di offerta di petrolio, che ha superato abbondantemente la domanda.

Anche la stagnazione della produzione industriale globale ha determinato la debolezza del prezzo dell’energia. Ma per quanto tempo potremo girarci dall’altra parte rispetto alle esigenze globali di politiche ambientali, le quali comportano costi aggiuntivi per l’energia, che siano di stato o che siano addebitate a privati ? Prima o poi ne potrà conseguire che il costo dell’energia tornerà a salire, e con esso i costi delle produzioni industriali.

Di fronte a tali considerazioni appare più chiaro per quali motivi le attuali tendenze sembrano poter continuare nella medesima direzione:

  • le borse a proseguire la loro corsa, dal momento che la liquidità continua ad abbondare e i profitti anche;
  • l’oro a continuare nella sua folle corsa, dal momento che le ragioni per acquistarlo ancora superano quelle per iniziare a venderlo;
  • i tassi d’interesse a lungo termine (cioè i rendimenti richiesti dal mercato per i titoli a lunga durata espressi nelle principali valute) a crescere per soddisfare le aspettative crescenti degli investitori, i quali altrimenti preferiscono i titoli azionari o altre tipologie di beni reali quali gli immobili e i beni rifugio;
  • l’inflazione a riprendere corpo, alimentata dalla svalutazione operata dalle banche centrali, dalla crescita dei redditi nominali (soprattutto USA) e dall’inevitabile aumento dei costi dei fattori di produzione;

I prezzi dei beni reali quali anche quelli degli immobili e delle grandi infrastrutture sembrano perciò anch’essi destinati a crescere, quale riparo indiretto dalla svalutazione monetaria e ovviamente in funzione della loro relativa scarsità. Già oggi possiamo constatare un’ “inflazione finanziaria” che preme soprattutto sugli asset di maggior pregio, probabilmente destinata a crescere.

Stefano di Tommaso