L’ECCESSO DI DEBITO MAL SI CONCILIA CON LA RISALITA DEI TASSI REALI. ANDIAMO VERSO LA FINE DEL CICLO DEL CREDITO?

Gli analisti si interrogano se siamo finalmente arrivati alla fine del lungo ciclo del credito di cui le aziende americane hanno goduto sino ad oggi, e la risposta è tendenzialmente positiva. Lo stesso non vale per le imprese europee, che ne stanno beneficiando soltanto adesso e che avrebbero grandi benefici dal poter constatare il prolungamento della situazione attuale, utilizzando le ampie risorse finalmente disponibili per quegli investimenti in tecnologie che in Asia e in America sono stati effettuati da tempo e per dare più spazio alle acquisizioni e aggregazioni che permetterebbero loro di migliorare efficienza, competitività e produttività del lavoro.

 

Momenti come questo, vicini all’inversione della curva, sono solitamente i più favorevoli per reperire risorse finanziarie per acquisizioni a forte debito e non per niente il mondo sta vivendo un picco delle operazioni di fusioni e acquisizioni in leva.

Il punto è che un certo numeri indicatori sta iniziando a lampeggiare, segnalando un eccesso nei multipli recentemente riconosciuti, qualche rincaro nei tassi e, soprattutto, il peggioramento dei rating.

Nel grafico si può vedere l’evoluzione negli ultimi quindici anni delle valutazioni aziendali in termini di multipli del Margine Operativo Lordo:


L’ECCESSO DI INDEBITAMENTO

Il fenomeno è strettamente legato alla crescita degli utili che le imprese quotate stanno realizzando al culmine di un lungo ciclo economico e in un momento in cui né l’inflazione né il surriscaldamento delle richieste salariali hanno ancora rovinato loro la festa.

La forte digitalizzazione dell’economia (soprattutto quella americana, ovviamente) e la maggiore sincronia tra i cicli economici dei paesi più sviluppati con quelli dei paesi emergenti ha inoltre portato in alto anche le aspettative circa i profitti attesi per i prossimi esercizi, scatenando l’appetito degli investitori di private equity, sempre a caccia di opportunità di allocazione delle loro ingenti risorse liquide e, se possibile, con la prospettiva di innalzare il più possibile i livelli di rischio e rendimento attesi, divenuti perciò più disponibili a riconoscere non soltanto valutazioni più elevate, ma anche un maggior livello di indebitamento.

Nel grafico qui sotto riportato di può vedere l’evoluzione del valore medio del debito per le acquisizioni in termini di multiplo del Margine Operativo Lordo:


Un altro fattore che ha permesso di giungere al momento aureo oggi registrato dal mercato dei capitali per la disponibilità di credito è sicuramente stato il deciso e prolungato intervento delle banche centrali che, nel timore di un avvitamento della scarsa velocità di circolazione della moneta, hanno immesso moltissima liquidità sui mercati finanziari.

Se in America quello scenario oramai volge al termine, ciò non vale per la Banca Centrale Europea, alle prese con un tentativo assai tardivo di restituire fiato all’ erogazione del credito nei paesi ‘eriferi come il nostro, dove la ripresa si è vista soltanto da un paio d’anni e quasi solo sulle tabelle statistiche, perché spiazzata dall’eccesso di spesa e debiti pubblici.

LA DISCESA DEI CREDIT RATING

Ma i costi dei credit default swap (il costo per l’assicurazione del rischio credito) stanno rapidamente risalendo oltre oceano e il fenomeno del deterioramento della qualità del credito potrebbe attraversare l’Atlantico più velocemente di quanto non si possa pensare, col rischio di togliere ossigeno ad una già asfittica ripresa dell’attività ordinaria delle banche italiane.

Nel grafico l’andamento del costo dei CDS secondo l’indice Markit:


I TITOLI A REDDITO FISSO RESTANO UNA DELLE MIGLIORI OPZIONI

Eppure dal punto di vista degli investitori i bond (attraverso i quali si finanziano la maggior parte degli istituti di credito) restano una delle opzioni migliori in questo momento in cui l’increme dell’inflazione resta quasi una chimera ma i tassi a breve termine vengono fatti salire ugualmente, poiché evidentemente i rendimenti reali salgono e la scelta di mantenere liquidi i portafogli importanti si giustifica soltanto nell’imminenza di un crollo delle quotazioni.

Difficile però dire se è quando le borse vedranno una catastrofe (anche perché la crescita dei profitti potrebbe portare ulteriori buone sorprese e ulteriore liquidità ai mercati.

Dunque nel dubbio sull’inflazione e sulla durata del ciclo economico il reddito fisso mantiene una certa appetibilità, ma ovviamente la discesa dei rating una domanda di fondo la lascia eccome: con il mondo occidentale che ha di nuovo accumulato un elevato livello di indebitamento, cosa succederà se I timori inflazionistici (e dunque anche i tassi) dovessero risalire in maniera consistente?

Ecco perché la fine del ciclo del debito è probabilmente vicina, e con essa la possibilità che le banche tornino prima del previsto a restringere i cordoni della borsa. Chi deve effettuare investimenti o acquisizioni ne tenga conto. Non è sempre primavera !

Stefano di Tommaso




I PROFITTI AZIENDALI VANNO ALLE STELLE MA WALL STREET TENTENNA

Quest’anno le 500 società che compongono l’indice Standard & Poor della borsa americana ci si attende che dichiareranno mediamente quasi il 20% di crescita degli utili aziendali rispetto al 2017. Si tratterebbe del maggior incremento dal 2010 rispetto al 2009 (l’anno in cui vennero contabilizzati i disastri della crisi dell’esercizio 2008) e, in assoluto, di uno degli anni migliori della storia economica americana.

 

Qui in basso un grafico di Reuters che riporta le stime degli analisti, normalmente un po’ più prudenti di quanto viene poi effettivamente pubblicato (è per questo che le attese vere sono al 19,7%, e non al 17,2% ufficiale):

Ma quello che più conta è che negli stessi prossimi giorni in cui verranno resi noti I dati definitivi dell’esercizio 2017, verranno anche comunicate le prime notizie circa l’andamento prospettico del primo trimestre 2018 e, anche in questo caso, gli analisti si aspettano ulteriori formidabili incrementi rispetto allo stesso trimestre del 2017. Qui sotto uno spaccato delle aspettative per ciascun macrosettore economico:

Fino qui le buone notizie, con l’aggiunta che oggi ci si aspetta forti miglioramenti dei conti non soltanto nei settori che se la passavano peggio l’anno prima (come le energie, che hanno pagato caro il petrolio basso prima e poi la crescita tumultuosa del suo prezzo, oppure le banche, che pagavano il prezzo di tassi troppo bassi fino all’anno prima), bensì anche da quelli per cui il mercato si attendeva già un’ottima performance, come ad esempio l’ “information technology” o le cure mediche, che già andavano benissimo l’anno precedente.

DUE POSIZIONI CONTRASTANTI

Il punto però è che il mercato azionario nel corso del 2017 è appunto cresciuto in media del 20% e che, dunque, quel risultato lo aveva già scontato l’anno prima. Come dire che l’ufficialità della conferma degli utili attesi potrebbe non commuovere affatto Wall Street ma anzi, al contrario, farle dubitare fortemente che le medesime brillanti performances del 2017 (registrate nell’Aprile 2018) potranno risultare ancora migliori nel corso del 2018 (quelle che saranno registrate nella primavera 2019).

E qui -com’è ovvio- gli analisti si dividono in due scuole di pensiero: da una parte quelli che tenendo conto delle buone notizie concernenti l’andamento globale dell’economia reale (da tanto tempo le notizie non erano così positive) ritengono che il super-ciclo economico sia tutt’altro che esaurito (e dunque le borse continueranno a correre anche nel 2018) e dall’altra parte coloro che ritengono che le borse guardino uno-due anni avanti e che le attuali quotazioni azionarie già incorporino le straordinarie attese di profitti in corso (e che pertanto nel resto dell’anno le borse non brilleranno).

LE DIVERSE MOTIVAZIONI

A dare manforte a questa seconda scuola di pensiero peraltro sono i più, e con ottime argomentazioni, quale ad esempio lo scostamento tra i due grafici (utili e quotazioni) che si è accumulato nell’ultimo anno e mezzo:

A dare conforto alla prima tesi (gli ottimisti) peraltro ci sono soggetti molto autorevoli come ad esempio le maggiori banche d’affari del mondo e con un ragionamento che, anch’esso, sembra non fare una piega:

Se infatti le aspettative per l’indice SP500 sono quelle proiettate “dal basso” dagli analisti sulla base degli utili attesi, non si può non tenere conto del fatto che la medesima proiezione con il medesimo approccio “dal basso” per i periodi precedenti ha funzionato benissimo, come mostra il grafico seguente:

D’altra parte i moltiplicatori degli utili attesi, dopo l’ultimo pesante storno di Wall Street e con le prospettive di profitto per I 12 mesi successivi che oggi si vedono, sembrano essere divenuti molto convenienti, come mostra il grafico qui sotto riportato:

Dunque basterebbe una piccola variazione in senso positivo al contesto generale ( che prevede contemporaneamente: prospettive di guerre commerciali, disordini geopolitici, aumento dei tassi di interesse e dei deficit pubblici) perché gli investitori possano tornare ad un relativo ottimismo.

LA CONCORRENZA DEI FONDI MONETARI

Ma un’altra variabile rischi di rovinare loro la festa: la maggior convenienza a tenere in portafoglio strumenti di mercato monetario che non azioni o obbligazioni, come dimostrano i grafici qui sotto comparati:

Se si tiene conto del fatto che i rendimenti di questi ultimi appaiono completamente privi di rischio (tranne ovviamente quello delle quotazioni del Dollaro in cui sono denominati), si capisce perfettamente che, qualora le banche centrali si spingeranno troppo oltre nel rialzare i tassi d’interesse a breve termine, potrebbe aumentare la convenienza per chi investe ad abbandonare i mercati borsistici (che sono quelli che portano risorse fresche alle imprese) per concentrarsi su depositi a brevissimo termine. Il vero nemico dell’investimento azionario non sono dunque le obbligazioni (i cui corsi hanno un’elevata correlazione con quelli dei titoli azionari), bensì i depositi di liquidità a breve durata.

IL DISCRIMINE LO FANNO L’INFLAZIONE E LE BANCHE CENTRALI

È ovvio che, in assenza o quasi di fiammate inflazionistiche la cosa non avrebbe molto senso poiché aumenterebbero i rendimenti reali e dunque il costo netto del capitale, ponendo un freno all’economia. Il rischio è quantomai reale e, anzi, è noto che parecchie delle ultime recessioni sono proprio state scatenate da politiche troppo restrittive delle banche centrali!

La morale è perciò solo una : le borse potrebbero performare ancora bene ma solo se gli aumenti dei tassi programmati dai banchieri centrali troveranno riscontri nell’incremento corrispondente dell’inflazione effettiva, oppure se verranno posticipati.

Altrimenti con quei rialzi non proteggeranno da un’inflazione ampiamente già sotto controllo bensì faranno da freno alla crescita economica, e sarebbe un vero peccato visti i risultati positivi ottenuti fino ad oggi dai medesimi banchieri centrali nella lotta alla disoccupazione!

Stefano di Tommaso




AMAZZONIZZAZIONE DELL’ECONOMIA?

Siamo giunti alla fine del super-ciclo economico positivo decennale (2008-2018, sebbene in Europa ci si sia giunti per motivi politici soltanto cinque-sei anni più tardi) che ha spinto per altrettanto tempo le borse all’insù verso massimi storici senza precedenti, oppure ci sono altre forze che spingono verso una “normalizzazione” dell’economia che tutto sommato la consolida e la rende capace di non avvitarsi in una spirale inflazionistica (che inevitabilmente aprirebbe le porte ad una fase di recessione globale)?

 

Non potendo prevedere il futuro, la domanda non ha ovvie o scontate risposte, ma uno strumento per interpretare gli accadimenti di queste settimane potrebbe sintetizzarsi in una parola (o più probabilmente un vero e proprio concetto) che torna periodicamente a risuonare, pur senza alcuna certezza, nelle orecchie di molti economisti: l’ “amazzonizzazione” dell’economia.

L’IMMAGINE ESTERNA DI AMAZON, QUALE LEADER PIGLIA-TUTTO DEL COMMERCIO ELETTRONICO INCORPORA LE NUOVE TENDENZE GLOBALI

È noto che Amazon, leader mondiale del commercio elettronico, incorpora nell’immaginario collettivo l’idea stessa di effetto pratico della globalizzazione dei consumi risultante nella rottura al ribasso dei prezzi al dettaglio, dell’effetto disinflattivo che esso ha e nel cambiamento profondo della relazione tra domanda e offerta sul mercato del lavoro (che ovviamente provoca una contrazione dei salari).

Fino all’altro ieri infatti la maggior domanda di lavoro che sta materializzandosi a partire dal 2017 e che in molti casi si traduce in una crescita reale dei salari, avrebbe più o meno immediatamente provocato un’innalzamento corrispondente dei consumi e si sarebbe quindi potuto osservare il noto effetto inflattivo che consegue alla riduzione della disoccupazione, osservato dagli economisti on la cosiddetta “Curva di Phillips”.

IL ROVESCIAMENTO DELLA CURVA DI PHILLIPS

Tra il 2017 e il 2018 però, almeno negli Stati Uniti d’America (che spesso sono solo i precursori delle tendenze economiche globali) si è invece dovuto prendere atto del venire meno di quella forte relazione tra mercato del lavoro, consumi, prezzi e inflazione, che sembrava elementare e dunque anche inequivocabile (nel grafico qui sotto riportato, da leggersi da destra verso sinistra, l’inclinazione della curva sembra infatti rovesciata).

Per tentare di rispondere alla domanda sopra indicata, proviamo perciò a porcene un’altra: ma se per effetto della ripresa economica e della crescita globale dei redditi la disoccupazione scende un po’ ovunque nel mondo e se più o meno di conseguenza anche i salari crescono, per quale diavolo di ragione questo non si riflette nell’aumento dei consumi e, di conseguenza, nella crescita dei prezzi al dettaglio?

L’ESPLOSIONE DEL COMMERCIO ELETTRONICO

A una tale domanda si prestano centinaia di risposte possibili che spaziano dall’effetto di normalizzazione dei prezzi dovuto all’aumento del commercio internazionale e all’entrata sul mercato di merci provenienti dai paesi emergenti alla maggior efficienza produttiva dettata dalla digitalizzazione fino alla minor incidenza del consumo energetico.

Ma il punto è che l’individuare risposte corrette a questa domanda ci può rivelare le sorti dell’inflazione attesa e, di conseguenza probabilmente, quelle dei tassi di interesse, nominali e reali. E queste a sua volta sono tutt’altro che irrilevante ai fini degli andamenti dei mercati borsistici.

In altre parole se riusciamo a comprendere i meccanismi di inceppamento nella trasmissione della maggior domanda di beni e servizi ai prezzi dei medesimi (inflazione)possiamo trovare una chiave di risposta alla questione di tutte le altre questioni: il ciclo economico in corso sta esaurendosi oppure è magicamente destinato a prolungarsi, magari indefinitamente?

LE BORSE CONTINUERANNO A SCENDERE?

In una sorta di gioco all’auto-realizzazione delle aspettative, molti investitori hanno di recente diminuito i titoli azionari sul totale dei loro investimenti. Questo, insieme ad un processo di normale rotazione dei portafogli e insieme alle notizie allarmanti che sono state strombazzate dai media di tutto il mondo circa i pericoli di una guerra commerciale, hanno amplificato la volatilità delle borse e ridotto i loro livelli si o ad azzerare la crescita che avevano compiuto nel primo trimestre 2018.

Ma non possiamo chiederci come sta andando l’economia reale osservando i mercati finanziari. Sarebbe come indovinare la strada guardando dallo specchietto retrovisore: la cosa funziona soltanto se il veicolo va a marcia indietro (cioè in caso di recessione). Perché altrimenti non si può fare previsioni a partire dall’ultima derivata (le borse) ignorando le variabili fondamentali che possono muoverla.

E per tornare alle variabili fondamentali, la stagione della dichiarazione degli utili aziendali (e quindi dei dividendi) che sta per aprirsi sembra indicare tutt’altra direzione (estremamente positiva) rispetto alla presunta conclusione del ciclo economico espansivo. Così se questo è l’ennesimo fattore di confusione per interpretare l’andamento delle quotazioni delle borse, esso d’altro canto fornisce anche solide ragioni perché il processo di conversione dei redditi aziendali in investimenti, consumi e risparmio, possa agire in direzione dell’ulteriore crescita economica, anche per gli anni a venire, allontanando lo spettro della recessione.


LA MANCATA CRESCITA DELL’INFLAZIONE

Ma più di ogni altro fattore sono i rendimenti nominali quelli che (seppur pesantemente manovrati dalle banche centrali) esprimono il vero stato di salute dell’economia.

E al momento non possiamo che prendere atto che, pur risaliti di qualche frazione di punto (e nonostante gli sforzi di “forward guidance” della banca centrale americana), su scala globale i loro livelli sono vicini ai minimi di sempre, così come quello dell’inflazione.

Le statistiche infatti spesso non indicano il vero andamento dell’economia reale.

I consumi cambiano e la spesa della gente non si rivolge più come prima ai negozi fisici, ai beni voluttuari, all‘arredo o all’abbigliamento e ai suoi accessori, dal momento che l’abbigliamento formale non è più di moda e le abitazioni diventano minimaliste. Molte altre categorie di beni e servizi sono invece entrate prepotentemente a rubare loro la priorità, a partire dal benessere fisico e mentale (che in passato veniva in qualche modo pagato dallo stato), alla cura della persona, alla formazione continua, all’elettronica e all’informatica domestica, ai servizi online. Tutte spese divenute quasi “necessarie”, soprattutto con una famiglia a carico, che hanno trasformato il concetto di necessità e hanno di fatto ridotto la quota di extra-reddito disponibile per i consumi voluttuari.

I COSTUMI CAMBIANO E LE IMPRESE DEVONO ADEGUARSI

I grandi operatori di internet come Amazon, Facebook, Netflix e Google lo hanno capito benissimo e per primi, e “coccolano” il loro cliente con ogni genere di proposta, frutta e verdura a domicilio comprese (con consegna immediata) a prezzi nemmeno immaginabili dagli altri, complici il mercato dei capitali (che sussidia generosamente le loro perdite) e il basso livello di manodopera richiesto da quei servizi.

Sul fronte dell’occupazione questa tendenza porta a incrementare il numero di persone che lavorano sulla consegna di pacchi e pacchetti, a far crescere l’investimento informatico che ci sta dietro e l’occupazione conseguente, a incrementare l’acquisto di beni e servizi provenienti dall’altro capo del mondo e a ridurre le segreterie e le posizioni apicali in azienda dal momento che tutto si automatizza.

Anche la pubblica amministrazione tende a ridurre il proprio personale e a fare acquisti solo in rete, mentre e le piccole aziende che fornivano servizi specializzati a quelle grandi oggi trovano insidia nella concorrenza online degli stessi servizi.

Ma il fenomeno dell’espansione del commercio elettronico a ogni settore dell’economia non sembra fermarsi solo a questo. Se lo paragoniamo alla rivoluzione che è derivata dal l’avvento della grande distribuzione organizzata (GDO), il bello deve ancora venire !

Il fenomeno americano che ha preceduto Amazon infatti si chiama Walmart e sulla rivoluzione industriale che l’avvento di quest’ultima ha generato sono stati versati fiumi di inchiostro (soprattutto in America, ovviamente, ma in Europa ci sono stati fenomeni paragonabili come IKEA, ad esempio). L’impatto sulle sorti delle piccole e medie imprese è stato devastante ma in qualche caso anche estremamente positivo.

Stefano di Tommaso




LA QUOTAZIONE IN BORSA DI SPOTIFY FA LUCE SUL VERO VALORE DEI TITOLI TECNOLOGICI A WALL STREET

Il giorno dell’ “incoronazione” a Wall Street dell’APP musicale più famosa tra i giovani, il carismatico (e problematico) leader di Spotify, Daniel Ek, non l’ha proprio mandata a dire : la quotazione in borsa non cambia niente nella vita della società. È solo un altro passo nel duro percorso verso il successo.

 

E indubbiamente quella di Spotify, una delle più bislacche e controverse operazioni di quotazione in borsa degli ultimi anni, avvenuta perdipiù in uno dei momenti peggiori per l’andamento dei titoli tecnologici quotati, è risultata, alla fine della prima giornata di contrattazione, un successo!

La società svedese, leader nella distribuzione di musica tramite l’omonima applicazione per cellulari, ha altrettanto indubbiamente optato per una serie di scelte molto forti, a partire dalla modalità con cui ha scelto di varcare la soglia di Wall Street : quella “diretta”, cioè priva di banche e intermediari e senza alcuna forma di collocamento di titoli.

IL DIRECT LISTING

Con la modalità “diretta” non c’è stata infatti alcuna delle operazioni tipiche per una matricola che accede alla quotazione il primo giorno : niente campana suonata all’inizio delle negoziazioni, niente raccolta fondi in aumento di capitale per la società e, ovviamente, nessuna commissione pagata al consorzio di collocamento (normalmente si tratta di svariati milioni).

I soli titoli trattati durante la giornata sono quelli che i numerosi soggetti che già erano azionisti hanno messo a disposizione del mercato che li voleva comprare : i due fondatori Daniel Ek e Martin Lorentzon che possedevano rispettivamente il 9,35 e il 12%, i dipendenti, i piccoli e grandi finanziatori della prima ora come ad esempio Sony Music che possedeva il 5,7% .

Ovviamente è un’operazione che solo un grande nome con indubbia notorietà può permettersi e che solo un’azienda che non ha bisogno di nuove iniezioni di capitale può affrontare!

Altrettanto ovviamente si è vista una certa volatilità: in apertura delle negoziazioni. Senza “market makers” e consorzio di collocamento, ma soprattutto senza lock-up dei titoli (il vincolo agli azionisti precedenti alla quotazione a non vendere le proprie azioni per almeno un determinato periodo onde evitare di deprimere il titolo all’avvio delle trattazioni) e con soltanto l’indicazione di un prezzo “fair” (cioè raccomandato dalle autorità di borsa) di 132 dollari (corrispondente ad una valutazione di 23 miliardi di dollari) Spotify è giunta alla mirabolante quotazione di 166 dollari per azione (equivalente ad una capitalizzazione totale di circa 30 miliardi di dollari) per poi discendere e chiudere a 149 dollari.

Niente male per un titolo che fino allo scorso dicembre era stimato “soltanto” 120 dollari (peraltro già più che raddoppiato rispetto alle valutazioni fatte all’inizio del 2017)!

Ovvia contropartita della strada prescelta è stata la prudenza circa l’ammontare delle azioni che sono state messe a disposizione delle negoziazioni durante il loro primo giorno: un piccolissimo 3% che rappresenta il record inferiore ma che ha soddisfatto tutti in termini di cautela: autorità di borsa e soci fondatori. Di seguito una comparazione con altre internet companies che si sono quotate negli ultimi anni mettendo sul mercato un piccolo “flottante”:

I “BENEFICIARY CERTIFICATES”

Ma quella del direct listing non è stata l’unica stranezza dell’operazione prima della quotazione I due fondatori di sono attribuiti diritti di voto “ad personam” che soltanto essi possono avere (sino a quando resteranno azionisti) , tali per cui essi hanno mantenuto oltre l’80% dei diritti di voto in assemblea. In altri termini, sintanto che i due resteranno uniti, nessuno potrà cacciarli via.

L’iniziativa non è la prima del genere per assicurare continuità al management (e rimandare il momento in cui potrebbero arrivare rovesci in assemblea) e si è vista spesso nei collocamenti delle internet companies, ma la modalità prescelta è stata assai singolare, facendola assomigliare più a un’azienda familiare che a una “public company” tra le prime 10 del settore quotate a Wall Street. Di solito infatti una misura del genere si accompagna ad altre che vanno in direzione della protezione dei diritti della minoranza. Ma non è questo il caso: i due fondatori non hanno concesso alcuna contropartita al mercato, proprio in un momento in cui la debole risposta di Zuckerberg alle critiche successive allo scandalo di Facebook avrebbero fatto optare per una maggior moderazione.

I “NUMERI” PREMIANO SPOTIFY

D’altra parte la società sta realizzando un’ottima performance e non solo è riuscita ad andare controcorrente rispetto all’andamento fiacco dell’intero comparto tecnologico, ma ha addirittura dato lo spunto perché gli altri titoli del comparto ne beneficiassero al rialzo.

Eppure i concorrenti che propongono musica al grande pubblico attraverso i telefonini sono “bestioni” di tutto rispetto e dalle tasche profondissime: Apple Music, Amazon Music, Pandora, Google Play Music eccetera!

Ma resta senza dubbio il problema che persino per una società di indubbio successo su un mercato nuovo come quello della “musica on demand”, i conti alla fine debbano tornare.
E nonostante le ottime prospettive in termini di quota di mercato e di attese nel miglioramento dell’efficienza dei costi, nel 2017 Spotify su un fatturato di 4 miliardi di euro ne perdeva più di uno.


Quanto tempo, quali performances e quanto denaro aggiuntivo serviranno per raggiungere un equilibrio di bilancio? Nel prospetto di quotazione in borsa di Spotify si parla del 2028 (dieci anni) per arrivare a un margine operativo del 13%. Quanto gli attuali soci e dipendenti sono disposti a resistere per dieci anni prima di vedere la luce senza essere tentati di vendere le loro azioni e deprimere il valore del titolo in borsa come è successo per Snapchat? In fondo, in assenza di un collocamento azionario, di un aumento di capitale, di un’offerta di pubblica vendita, la quotazione in borsa è giusto servita ai soci fondatori per creare liquidità sul titolo e, attraverso questa, affermare il suo corretto valore di mercato.
Ma quale sia questo valore non è ancora chiaro dopo soltanto il primo giorno di quotazione.
Lo scopriremo forse già in quelli successivi…


Stefano di Tommaso