IN RIALZO ORO BORSE E TASSI NEL ’26

È opinione comune che l’incremento della volatilità dei mercati finanziari registrata nella seconda parte dell’anno 2025 potrebbe addirittura intensificarsi all’inizio del 2026. Quello che sta per chiudersi è stato un anno caratterizzato da grandi contraddizioni: da un lato si visto il pericoloso aggravarsi delle tensioni geopolitiche globali, che ha portato Oriente e Occidente a scontrarsi in numerosi conflitti bellici locali e in generale a contrapporsi sempre più pericolosamente, come non si era vista nemmeno ai tempi della guerra fredda. Dall’altro lato si sono registrati nuovi record delle quotazioni dei metalli preziosi e in particolare dell’oro, che è stato acquistato sia da chi ha voluto proteggersi dal rischio di tenuta dell’economia globale come pure dalle stesse banche centrali, a caccia di riserve strategiche alternative al Dollaro e ai titoli di stato americani, soprattutto a seguito al congelamento dei beni russi nel 2022.

Ma nel 2025 si è anche registrato uno sviluppo altrettanto radicale della liquidità in circolazione, cosa che sospinge non soltanto i nuovi record dell’oro e di numerosi beni rifugio, ma anche le quotazioni delle borse valori di tutto il mondo. I mercati azionari hanno poi toccato nuovi record anche per altre tre importantissime motivazioni:

  • i profitti record delle principali imprese globali,
  • le elevatissime aspettative che concernono la diffusione dell’intelligenza artificiale, che a loro volta hanno esaltato i processi di digitalizzazione globale, necessari per consentirne un utilizzo più vasto, che hanno alimentato le aspettative di prosecuzione della crescita dei profitti e di automazione di numerose attività, con il conseguente contenimento dei costi,
  • la mancata risalita (per il momento, almeno) dell’inflazione, che ha alimentato anche lo sviluppo delle emissioni di bond e titoli derivati, aiutando a contenerne i rendimenti impliciti.

È anche per questi motivi che uno dei più autorevoli analisti di Wall Street, Edward Yardeni, nonostante timori e tensioni, prevede la continuazione anche nel 2026 di queste tendenze. Cioè ulteriori rialzi delle quotazioni tanto dei metalli preziosi quanto delle borse, nonostante il fatto che la storia indichi che il prezzo dell’oro si muova generalmente all’inverso delle quotazioni azionarie. Ma la ragione principale è che, in parallelo ai fenomeni sopra descritti, le banche centrali di tutto il mondo stanno ancora ampliando l’immissione di liquidità sui mercati finanziari.

Eppure per l’anno a venire ci sono molte ragioni che dovrebbero indurre prudenza sui mercati, a partire dal rischio oggi maggiormente discusso tra gli analisti: quello che si ”sgonfi” presto la bolla speculativa creatasi attorno allintelligenza artificiale (AI). Le valutazioni stratosferiche raggiunte dalle grandi multinazionali tecnologiche anima infatti il dibattito fra i responsabili degli investimenti, impegnati proprio in questi giorni a fare previsioni per il prossimo anno. Ad esempio pare che gli utili delle medesime aziende risultino gonfiati a causa della necessità di accorciare la durata degli ammortamenti degli investimenti effettuati per produrre tanto i software e le infrastrutture dell’AI quanto i nuovi microchip necessari per l’AI. In particolare ora che Google, introducendo la sua Gemini3, utilizza i propri chip concorrenti di INTEL e NVIDIA, viene accelerato di fatto il ritmo della rivoluzione tecnologica. Lo stesso stanno facendo alcune aziende cinesi, le quali non soltanto hanno sviluppato nuovi sistemi di AI (ad esempio “DeepSeek) e stanno sviluppando in parallelo anche microchip alternativi.

E pur tuttavia, nonostante i (fondati) timori sull’AI, le quotazioni in borsa delle cosiddette “Magnifiche 7” sono cresciute del 23% da inizio anno (vedi il primo grafico sotto riportato), cioè ben più di quanto è salito lindice Samp;P500, (“solo” del 16%) nello stesso periodo (vedi il secondo grafico qui sotto riportato), entrambe vicine ai massimi storici toccati lo scorso 29 ottobre :



Anche i dati macroeconomici sono contraddittori. Gli analisti si chiedono per quanto tempo ancora il PIL americano potrà continuare a crescere attorno al 4% al netto dell’inflazione (come ha fatto nel secondo e terzo trimestre 2025) mentre i dati sul mercato del lavoro invece peggiorano. Le imprese maggiori hanno registrato un aumento netto di 90.000 dipendenti ma quelle con meno di 50 dipendenti ne hanno persi 120.000 e la produzione industriale americana nel suo complesso praticamente non cresce (istogramma rosso al centro del grafico sotto riportato), anche se il dato medio tiene conto di vistose crescite nelle tecnologie e per le public utilities e di importanti cali nelle produzioni industriali tradizionali:


Eppure le indicazioni di massima per Il 2026 continuano a restare positive. Tipicamente dopo un ottimo anno per i dati macroeconomici, ci si aspetta un assestamento, ma i numeri suggeriti dagli analisti finanziari per il prossimo anno sono invece in miglioramento. Diversi settori, tra cui Informatica, Sanità e Servizi di comunicazione, hanno registrato aumenti dal 2,6% al 6,4% nelle stime dei ricavi. Yardeni Research ha osservato che sono aumentati del 5,8% dall’inizio dell’anno, mentre gli utili previsti sono aumentati del doppio, cioè dell’11,9% dall’inizio dell’anno. E la spesa dei consumatori, nonostante il peggioramento del mercato del lavoro, non accenna a diminuire. Per quanto riguarda i profitti aziendali, nel complesso la previsione per il 2026 è piatta. Ma questa è un’ottima notizia dopo i rialzi del 2025. Quattro settori In particolare: Tecnologia, Servizi di comunicazione, Servizi Finanziari e Public Utilities, registrano addirittura stime di utili ancora in crescita.

Per il 2026 tuttavia dai titoli a reddito fisso provengono segnali contrastanti: nonostante il probabile taglio dei tassi a breve termine del prossimo 10 dicembre da parte della Federal Reserve (che potrebbe essere seguita a ruota dalle altre banche centrali), i tassi a lungo termine, cioè quelli impliciti nelle quotazioni della maggior parte dei titoli pubblici potrebbero invece risalire.

ANDAMENTO DEI RENDIMENTI DEI TITOLI DI STATO AMERICANI A 30 ANNI

Gli analisti sembrano concordi nel prevedere rendimenti crescenti nel prossimo anno soprattutto sulle scadenze lunghe e, soprattutto, concordano nel prevedere che la curva dei tassi d’interesse (la differenza tra i tassi a breve e e lungo termine) diventi più ripida. Nei paesi OCSE il differenziale fra i titoli a 2 anni e quelli a 30 anni si è già allargato di poco meno dell’1% rispetto alla fine dello scorso anno.

Le cause di tale diffusa opinione sono:

  • l’aumento dellofferta di titoli emessi (che si prevede ai massimi storici nei prossimi 12 mesi) potrebbe non venire bilanciato dalla domanda di titoli da parte degli investitori e
  • la pressione al rialzo esercitata sui rendimenti più a lungo termine dalle politiche fiscali espansive dei principali governi occidentali e dal conseguente aumento del debito pubblico.

Gli analisti di BNP Paribas proiettano il rendimento del bond decennale americano almeno al 4,5% a fine 2026 rispetto al 4,1% attuale, e quello giapponese oltre il 2,1% (dall’1,9% attuale) mentre per il Bund tedesco vedono il superamento del 3,1% (dall’attuale 2,8%).

Sulle scadenze lunghe (20 e 30 anni) potrebbe andare ancora peggio a causa del rischio di sorprese al rialzo dellinflazione. Il rischio è infatti che gli elementi deflattivi dei prezzi (derivanti principalmente dal progresso tecnologico e dal contenimento della dinamica salariale) non siano sufficienti a controbilanciare la spinta inflattiva derivante dall’ampliamento costante della base monetaria globale. Qualora l’inflazione percepita alla fin salga oltre i livelli attuali infatti, i rendimenti offerti dai titoli di stato rischiano di dover crescere più che proporzionalmente.

Epicentri di tale fenomeno potrebbero essere il Giappone e l’Europa più che gli USA, dove le entrate derivanti dalle tariffe doganali stanno mitigando il disavanzo pubblico. In particolare la Germania potrebbe vedere al rialzo i rendimenti dei titoli di stato, a causa della svolta espansiva della politica fiscale, volta a finanziare il riarmo e la riconversione dell’industria automobilistica. Questa dovrebbe implicare un incremento dellofferta netta di titoli “Bund” ad almeno 130 miliardi di euro: quattro volte la media degli ultimi 25 anni e del 30% superiore al livello che si raggiungerà a fine 2025. Invece per l’Italia, nonostante la crescita del prodotto interno lordo resterà probabilmente quasi nulla, le proiezioni dei rendimenti dei BTp risultano meno allarmanti che nel resto dEuropa. Dunque lo spread tra i nostri BTP e i Bund tedeschi potrebbe scendere ancora nel 2026.

Stefano di Tommaso




FINE ANNO COL BOTTO ?

È’ arrivato Dicembre, l’ultimo mese dell’anno, che del punto di vista lavorativo sarà poi particolarmente corto: Venerdì 19 si fermerà quasi tutto per fare spazio ai “ponti” e alla pausa natalizia. È dunque tempo di fare delle riflessioni sulla congiuntura economica e di prospettive per l’anno che verrà. L’anno 2025 ha presentato non poche sorprese, e non sempre negative rispetto a quanto ritenevamo 12 mesi fa. Il 2026 si presenta ancora più difficile da interpretare, ma per il momento è probabile godersi la festa…

La cosa che più preoccupa è la guerra alle frontiere orientali dell’Unione Europea, la quale appare sempre meno politicamente compatta e sempre più in difficoltà finanziarie. Una guerra che noi stiamo perdendo (anche se nessuno ha il coraggio di ammetterlo) e che ci sta portando via risorse preziose per adeguarci alle nuove direttrici dell’economia. Le risorse che dissipiamo non sono soltanto finanziarie (i debiti pubblici europei esplodono per supportare l’Ucraina e stimolare un’economia senza più crescita, mentre i grandi capitali hanno mangiato la foglia e stanno fuggendo dall’Euro), ma anche quelle energetiche (paghiamo più cara la bolletta), quelle commerciali (i BRICS oggi sempre più nostri rivali politici sono tuttavia anche il principale mercato di sbocco per le nostre esportazioni) e quelle industriali (i dazi americani ci impoveriscono e desertificano la nostra industria spingendola a investire oltre oceano).


In tutto questo anche la situazione dei mercati finanziari appare convulsa, agitata, in bilico. Ma il “tono” dei mercati finanziari resta dettato principalmente da ciò che accade oltre oceano e per questo motivo è ancora una volta mediamente positivo. Gli operatori finanziari stanno metabolizzando l’accresciuta volatilità e restano sostanzialmente ottimisti. Questo li spinge ad alimentare le quotazioni delle borse, le aste dei titoli di stato, e sinanco i finanziamenti delle opere infrastrutturali. Restano all’orizzonte nuvole e cigni neri, dubbi e pericoli e molta incertezza geopolitica, ma nessuno vuol farsi mancare un altro fine anno col botto! Le banche centrali si preparano a rilasciare altra liquidità e i governi a disporre ulteriori incentivi. Magari meno in direzione di una sempre piu improbabile “economia verde” ma in compenso a favore de riarmo e di un’ulteriore digitalizzazione diffusa, senza la quale non sarà possibile beneficiare delle nuove applicazioni dell’intelligenza artificiale. Un concerto di politiche fiscali e monetarie che sta riuscendo a sostenere le economie e ad abbassare i tassi d’interesse.


Ma è soprattutto l’America della nuova era Trump a beneficiare del momento storico, e sembra poter chiudere l’anno con una crescita del prodotto interno lordo che si avvicina addirittura al 4% (si veda il grafico al riguardo), anche grazie alla vendita forzosa di tecnologie, armi e software ai suoi principali alleati. Niente male comunque; per un Paese che ancora pochissimi mesi fa si aspettava una recessione o quantomeno un “soft landing” e una bella figuraccia per tutte le cornacchie che prefiguravano la “stag-flazione” e la fine del commercio internazionale con l’arrivo di Trump alla Casa Bianca. Semplicemente è successo il contrario: non c’è stato alcun rallentamento dell’economia americana, anzi: un’accelerazione. E gli Stati Uniti d’America, si sa, contano per quasi il 70%dei mercati finanziari di tutto il mondo. Dunque se le cose vanno bene da quelle parti, le borse e i tassi d’interesse del resto del pianeta non fanno che adeguarsi. Di seguito l’andamento degli ultimi mesi di Wall Street attraverso l’indice Standard & Poor’s 500:


Quello che non è successo è in particolare che il deficit del governo federale americano non è esploso perché ha potuto beneficiare di introiti straordinari grazie alle tariffe doganali imposte all’importazione e, contemporaneamente, ha potuto contenere con vari artifici il costo del denaro e quindi anche del debito pubblico. Di seguito l’andamento dei rendimenti impliciti dei titoli di stato americani a 10 anni, chiaramente discendente:


Ma anche quello dei titoli di Stato americani a 30 anni ( notoriamente più sensibili all’inflazione ) sembra essere discendente:


Il successo sul fronte del contenimento dell’inflazione e dei tassi d’interesse ha evitato il più classico degli scivoloni sui mercati finanziari: quello che poteva essere provocato dal timore circa l’andamento degli investimenti e dei consumi e il potenziale scoppio della bolla speculativa relativa all’Intelligenza Artificiale. Anzi: al momento le cose sembrano andare molto bene alle cosiddette “Hyper-scaler” (cioè alle grandi multinazionali tecnologiche che stanno cavalcando la tigre della tecnologia) e, sebbene i loro multipli di valore fossero un tantino esagerati, le quotazioni non sono crollate come molti si attendevano, principalmente perché i profitti che esse riescono a generare dall’iperdigitalizzaziobe sembrano cospicui e sostenibili anche nel prossimo futuro.


Dunque l’amministrazione Trump sembra aver vinto la più importante delle sue battaglie: quella per il governo della banca centrale americana, la Federal Reserve. A breve si potrà conoscere il nome del successore di Powell (l’attuale governatore) ma tutti scommettono su nomi di personaggi piuttosto in linea con le richieste del Presidente in termini di allentamenti della stretta monetaria. Peraltro la politica di “Tapering” sembra già oggi abbandonata e si scommette per un taglio ulteriore dei tassi di sconto alla prossima riunione del 10 Dicembre (il mercato gli attribuisce oramai una probabilità superiore all’80%).


Se i mercati finanziari possono brindare peraltro non dipende soltanto dell’ottimo stato di salute dell’economia e dei profitti aziendali, ma soprattutto dal mancato (o ritardato) rialzo dell’inflazione che, anche grazie ad un prezzo del petrolio in progressiva discesa e al ritardato effetto dei dazi sui rincari delle materie prime, risulta ancora una volta sotto controllo (sebbene non in decrescita). Un’inflazione strisciante più marcata avrebbe potuto incidere sui tassi d’interesse a lungo termine (i rendimenti dei titoli di stato con le scadenze più remote).


Invece al momento (anche grazie alla buona liquidità disponibile che risulta ancora oggi il principale “market mover”) è sostanzialmente successo il contrario: i tassi d’interesse sembrano calare su tutte le scadenze.

Morale: la liquidità è prevista restare abbondante quantomeno fino a fine anno, momento in cui i gestori dei grandi patrimoni potranno iscrivere una cospicua plusvalenza e attribuirsi grandi “bonus” a valere sui risultati dei portafogli amministrati. Ovviamente resta la questione relativa a cosa potrebbe succedere dopo la fine dell’anno in corso, dal momento che i moltiplicatori di valore dei profitti risultano decisamente più alti delle medie storiche.


Ma ancora una volta ciò dipenderà dall’inflazione dei prezzi al consumo. Che difficilmente potrà andare in direzione opposta a quella della svalutazione monetaria (cospicua, come dimostrano le quotazioni dell’oro e degli altri metalli preziosi).


Una svalutazione monetaria innegabile ma che sembra tuttavia non interessare troppo al momento ai cittadini degli Stati Uniti d’America, dato che anche il Dollaro, lungi dall’essere in via di abbandono e deprezza-mento come tutti preconizzavano fino all’estate scorsa, sembra anch’esso tenere botta.


E se l’America traina ancora una volta l’economia occidentale alla fine si può sperare che qualche briciola cada anche a beneficio dell’Europa dalla tavola che è stata imbandita per il giorno del ringraziamento!

Dei tassi d’interesse che scendono possono beneficiare infatti le “Public Utilities”, l’industria pesante, le piccole e medie imprese e le fusioni e acquisizioni. Della liquidità che abbonda possono inoltre giovarsi le banche per supportare gli investimenti tecnologici e infrastrutturali nonché le transazioni del private equity e i consumi di beni durevoli.

Ragione per cui appare presumibile che l’esigenza di elevati investimenti per adeguarsi ad un mondo che accelera il cambiamento spingerà le imprese a mantenere elevata la domanda di credito e, insieme ad essa, anche la spesa per commissioni bancarie e finanziarie.

Stefano di Tommaso




“CRIPTOFOBIA”

Le quotazioni delle criptovalute sono in caduta libera? Difficile fare pronostici ma l’elevata volatilità delle quotazioni ha fatto si che il mercato finanziario registrasse scosse potenti di assestamento che hanno contribuito a diffondere un certo scetticismo sul valore intrinseco di questa “asset class”. Tra le motivazioni principali: il rischio che l’inflazione si riprenda, che i tassi tornino a salire e che la liquidità defluisca rapidamente, soffocando la radice primaria delle valutazioni delle divise digitali.


IL SELL-OFF

La settimana scorsa i mercati finanziari hanno sofferto una pesante sfiducia da parte degli investitori. Le borse sono scese e la maggior parte di coloro che avevano scommesso sulla tenuta delle quotazioni ha dovuto prendere atto del calo generalizzato dell’entusiasmo. Le buone notizie che arrivano dal mercato del lavoro negli USA hanno per assurdo pesato più di quelle cattive nel determinare i ribassi, dal momento che sembra sia diventato più difficile che la banca centrale tagli ancora il costo del denaro o, meglio, che possa abbracciare nuovamente politiche monetarie espansive.

LA VITTIMA PIÙ ILLUSTRE È IL BITCOIN

Il vero e proprio crollo delle quotazioni però l’ha registrato il Bitcoin (la più diffusa tra le cripto valute e l’unica che può vantare un fondo di investimento a lei dedicato quotato a Wall Street) con un calo più rapido e sanguinoso dallo scorso Aprile, scendendo lo scorso Venerdì fino a 78.000 dollari. Dal picco dell’Ottobre 2025 (126mila dollari) il Bitcoin è perciò sceso di oltre il 30%. Anche le altre cripto valute sono scese in misura simile. La pubblicazione di dati positivi sull’ occupazione e la riluttanza della Federal Reserve a tagliare i tassi di interesse a dicembre hanno infranto le speranze di una politica monetaria più indulgente, trasformando l’ottimismo in paura.


I RISPARMIATORI FUGGONO

A ottobre, l’open interest sui future su Bitcoin ha raggiunto i 94 miliardi di dollari, per poi scendere del 43%. Le vendite automatizzate ne hanno eroso la liquidità, spinte anche dalla speculazione che la Federal Reserve si sarebbe vista costretta a ripristinare i depositi per le posizioni più speculative. L’indice di “paura” per le cripto valute ha toccato i minimi dell’anno, con la capitalizzazione totale del mercato delle cripto valute calata di 161 miliardi di dollari (quanto una decina di manovre finanziarie del nostro governo).


IL RISCHIO DI CALO DELLA LIQUIDITÀ

La causa primarie della crisi di fiducia nelle cripto valute risiede nel crollo delle aspettative di taglio dei tassi a Dicembre della Federal Reserve (fondamentali per un investimento che non produce reddito) ma ancor più dipende dal rischio di svendita dei titoli tecnologici nel Nasdaq, cosa che contribuisce a ridurre la liquidità dei mercati finanziari.


QUAL È IL VALORE INTRINSECO ?

L’elevata volatilità del prezzo Bitcoin è legata al fatto che il suo valore di mercato non riflette quello di alcun elemento tangibile sottostante e non è gestito (o difeso) da alcuna istituzione finanziaria. Esso dipende perciò unicamente dall’equilibrio tra domanda e offerta.

LA VICENDA DI MICRO STRATEGY (MSR)

Sulla vicenda delle quotazioni di cripto valute pesa poi il caso Strategy, grande società quotata a Wall Street attraverso la quale passava una grande mole di acquisti cripto: le richieste di liquidazione da parte degli investitori che se ne erano avvalsi di Strategy si sono fatte sempre più pressanti nel corso della settimana e il titolo ordinario della società è precipitato di quasi il 70% rispetto al picco dello scorso anno, mettendo in discussione – per alcuni – la capacità dell’azienda di continuare a soddisfare i propri impegni. Nel corso del 2025, Strategy aveva fatto affidamento sull’emissione di azioni privilegiate perpetue come principale veicolo di finanziamento per gli acquisti di bitcoin, utilizzando principalmente l’emissione di azioni ordinarie at-the-market (ATM) per coprire gli impegni assunti sui dividendi (tra l’8% e il 10,5%) sulle azioni privilegiate. Con buona probabilità si è trattato in definitiva dell’ennesimo schema Ponzi (o Madoff), insomma.

L’andamento del titolo Micro Strategy

MOLTIPLICATORI TROPPO ELEVATI TOLGONO LIQUIDITÀ AL MERCATO

I mercati finanziari in generale però non se la passano benissimo perché è diffusa la percezione che i massimi storici raggiunti dai multipli dei profitti nel corso del 2024 e 2025 saranno difficilmente replicabili negli anni successivi al prossimo (dei quali non si ha visibilità): l’indice globale MSCI ALL COUNTRY è a 19 volte gli utili attesi dei prossimi 12 mesi e l’indice SP500 di Wall Street supera le 23 volte (cioè oltre il 30% sopra la media degli ultimi 20 anni), con le quotazioni dei titoli del NASDAQ che superano le 30 volte gli utili (molto sotto i picchi della bolla delle “dot.com”.


I PROFITTI SEGUITERANNO A CRESCERE ?

Le principali banche d’affari prevedono per la fine del 2025 una crescita media dei profitti dell’11% rispetto all’anno precedente e del 10% per la fine del 2026. Il punto è che i multipli citati incorporano già queste aspettative e che dunque per alimentare multipli di valore così elevati dovrebbero esserci prospettive ulteriormente in crescita per gli anni a seguire. Ma soprattutto si tratta della cosiddetta “media del pollo” di Trilussa: oggi quasi il 30% del valore dell’indice SP500 è rappresentato dalla capitalizzazione di borsa dei titoli tecnologici, contro l’11% di dieci anni fa.

Elevati multipli di borsa comportano peraltro limitati flussi di cassa rispetto ai valori di capitalizzazione e, in assenza di elevate prospettive di accelerazione dei profitti per gli anni successivi, la liquidità di mercato (Ivi compresi i cospicui programmi di buy-back visti finora) tende inevitabilmente a ridursi. Anche l’eventuale calo delle quotazioni medie azionarie può drenare la liquidità dei mercati, la quale è stata tra i principali responsabili della crescita di valore delle cripto valute sino ad oggi.


IL CROLLO DEL MERCATO GIAPPONESE HA CONTRIBUITO

Qualcuno però insinua che più che la paura dello scoppio di una bolla speculativa fortemente basata sull’intelligenza artificiale sia la crisi finanziaria del Giappone a far temere per una contrazione della liquidità dei mercati Il disavanzo del Sol Levante sta marciando verso il nuovo record del 250% del Pil. La premier Takaichi ha perciò varato una manovra da 135 miliardi di dollari. Al tempo stesso l’inflazione è arrivata al 3% facendo ipotizzare un nuovo rialzo dei tassi nella prossima riunione della Bank of Japan e, soprattutto, una stretta monetaria volta alla rivalutazione dello Yen. Il rapido aumento dei rendimenti ha perciò spinto gli operatori a chiudere posizioni in leva, generando vendite forzate in una catena che ha raggiunto mercati ben lontani da Tokyo. Tra questi il comparto tecnologico e, soprattutto, le criptovalute.


IL RIMBALZO DEL MERCATO

Come in ogni “sell-off” che si rispetti a fine giornata dello scorso Venerdì si sono visti poi dei rimbalzi, dovuti anche alla percezione del fatto che le autorità monetarie sosterranno la massa monetaria in circolazione per timore che la sua riduzione vada a determinare un rialzo dei tassi delle nuove emissioni di titoli pubblici, soprattutto in presenza di un’inflazione strisciante che potrebbe tornare a rialzare la testa.


LA FIDUCIA È COMPROMESSA ?

Sebbene dunque ci si possa attendere a breve termine un rimbalzo delle quotazioni e una serie di prese di posizione delle autorità monetarie, senza dubbio la progressione della crisi di fiducia che questo ennesimo scrollone ha provocato sui risparmiatori potrebbe non aver finito di fare danni in giro per il mondo.

Stefano di Tommaso




UN MERAVIGLIOSO EQUILIBRIO

La settimana scorsa è stata caratterizzata da qualche scossone sui mercati a causa di una serie di allarmi lanciati da numerosi esperti. Il dubbio principale che sta emergendo riguarda i “veri” profitti che possono derivare dagli ingenti investimenti in Intelligenza Artificiale, cosa che ha determinato una relativa discesa dei corsi azionari delle “Magnifiche Sette” multinazionali tecnologiche, dopo che peraltro avevano continuato a correre molto a lungo. Non è chiaro pertanto quanto i mercati abbiano recepito quei dubbi e quanto invece non abbiano semplicemente deciso di portare a casa i profitti derivanti dalle plusvalenze.

L’ANDAMENTO DEL MAGGIOR INDICE DI WALL STREET: LO STANDARD & POOR’S 500

La situazione dei mercati tuttavia, sebbene perturbata da una rinnovata volatilità, non sembra compromessa e ci sono ancora numerosi (e bravissimi) analisti che continuano a giurare che le borse continueranno a salire, almeno fino a fine anno. Anche dal punto di vista macroeconomico la situazione non sembra fornire immediati mal di testa. Diverso è invece lo scenario se proviamo a guardare un po’ più in là.

L’economia americana ad esempio pare stia correndo ancora più velocemente che in passato e ci sono realistiche aspettative del fatto che la crescita annualizzata del prodotto interno lordo d’oltre oceano possa aver toccato, nel terzo trimestre scorso, la soglia del 4% (come noto il blocco dell’amministrazione federale americana ha impedito la diffusione di numerose statistiche e ci sono solo stime al riguardo).


Questa volta indubbiamente appare più difficile sperare che la crescita economica degli U.S.A. faccia da traino a quella del resto dell’Occidente a causa delle elevate barriere doganali che nel corso dell’anno sono state erette dalla nuova amministrazione presidenziale. Tuttavia non è impossibile ritenere che -sebbene molto indirettamente- quello sviluppo economico alla fine possa comunque arrivare a contribuire ad un moderato sviluppo economico anche del continente europeo.

L’Europa d’altro canto sta mettendo in campo uno sforzo collettivo nella direzione del riarmo bellico da parte di tutti i propri governi nazionali. Uno di quelli con pochi precedenti nella storia, che indubbiamente costituisce un importante contributo allo sviluppo (o quantomeno al contenimento della caduta) del prodotto interno lordo. Nel breve termine inoltre poco importa che tale sforzo avvenga attraverso l’espansione dell’indebitamento pubblico. Oltre il breve termine invece le cose potrebbero essere diverse.


Sarebbe piacevole poter scrivere senza problemi che i mercati finanziari si muovono in accordo con uno scenario economico positivo e che i profitti aziendali attesi dalle borse sono tutto sommato ampiamente giustificati non soltanto dagli stimoli all’industria occidentale derivanti dalla maggior spesa militare, ma anche dagli indubbi incrementi di produttività che proverranno dal progressivo utilizzo delle nuove tecnologie. E tutto ciò, sebbene con modalità e misure molto diverse da nazione a nazione, probabilmente riguarderà tutto l’Occidente.

Sarebbe altrettanto piacevole poter affermare con tranquillità che le borse restano impostate su un percorso di crescita di valore anche in funzione dell’attesa di tassi d’interesse in discesa (ancora oggi il 51% degli osservatori resta convinto che la Federal Reserve Bank of America taglierà ancora una volta i tassi d’interesse a breve termine nella prima decade di Dicembre) nonchè di una nuova fase del Quantitative Easing (politiche monetarie espansive) il quale a sua volta costituirà la primissima ragione per la quale i mercati finanziari potrebbero ancora registrare nuovi massimi. Tra l’altro se ciò avverrà sarà piuttosto probabile che le altre banche centrali occidentali si accoderanno.


Il bello è che, se da un lato pare assolutamente realistico convenire circa la speranza che l’Intelligenza Artificiale potrà contribuire positivamente allo sviluppo economico globale, se al tempo stesso appare altrettanto realistico prevedere che -per molti motivi- alla fine la banca centrale americana probabilmente si orienterà su politiche monetarie discretamente espansive, dall’altro lato la perplessità di fondo di molti osservatori deriva dalla consapevolezza del fatto che tutto ciò non accadrà senza scatenare nel tempo altre conseguenze negative, forse già poco oltre il brevissimo termine.

Le principali conseguenze negative che possono derivare dalla congiuntura attuale, nutrita dagli importanti stimoli fiscali derivanti dalla maggior spesa pubblica e dagli altrettanto potenti stimoli monetari derivanti dall’immissione di nuova liquidità da parte delle banche centrali, possono tutte sintetizzarsi in una sola parola: inflazione. Un’inflazione che potrebbe riproporre esattamente la stessa dinamica di cinquant’anni fa (vedi grafico):


E ciò non soltanto perché la grande liquidità continua a trainare verso l’alto il prezzo dell’oro il quale resta -nel lungo termine- la misura più esatta della svalutazione monetaria, cioè del “de-basing” delle principali valute di conto. Ma anche perché occorre tenere conto del fatto che c’è un motivo per il quale la crescita economica globale registrata negli ultimi mesi non ha riportato verso l’alto il prezzo dell’energia e delle materie prime e questo motivo risiede nella straordinaria congiuntura positiva che ha permesso all’offerta di petrolio, gas e di molte altre “commodities” di eccedere la relativa domanda, contenendone i prezzi.

Il mondo intero ha dunque potuto godere di un 2025 nel quale la crescita economica (che si è tradotta in una maggior domanda di beni e servizi), non ha trainato al rialzo i prezzi delle materie prime e dei principali prodotti industriali dal momento che la loro offerta ha superato la domanda. Anche (e soprattutto) per questo motivo non abbiamo assistito ad una ripresa consistente dell’inflazione. Diverso è invece per il costo dell’energia elettrica dal momento che la domanda di energia dovuta alla moltiplicazione dei Data Center supera costantemente l’offerta che discende dall’attuale potenza installata di generazione elettrica.

Ovviamente, man mano che la crescita economica prosegue indisturbata (anzi stimolata da un meraviglioso concerto di politiche fiscali e monetarie) è sempre più lecito chiedersi quanto a lungo potrà durare questa situazione di eccesso di offerta di petrolio, gas, materie prime e semilavorati industriali. E la risposta rischia di essere deludente: piuttosto poco tempo, prima che la situazione rischi di arrivare a ribaltarsi.


Ma occorre aggiungere che nel frattempo l’inflazione dei prezzi registrata dalle statistiche ufficiali occidentali non è mai scesa sotto una certa soglia. E che questa non corrisponde a quel famoso livello del 2% indicato dagli economisti come “ottimale” per l’economia, bensì è più vicina al 3%, soprattutto in America dove i redditi (e i consumi) appaiono sicuramente meno influenzati da altri fattori come accade in Europa. E bisogna ricordare che quel numero è comunque nel migliore dei casi una buona media delle variazioni di numerosi prezzi che si sono mossi in modo molto variegato. Nel peggiore dei casi invece quel numero è dipende da studi statistici decisamente “ammaestrati” dalla politica.

Anche senza voler in questa sede proseguire con l’indagine macro-economica che necessiterebbe la strana congiuntura astrale che stiamo vivendo, appare probabile che a un possibile incremento dell’inflazione corrisponda, presto o tardi, un incremento dei tassi d’interesse. Soprattutto di quelli a medio e lungo termine, che sono meno facilmente “gestibili” dalle banche centrali e che contano molto di più nell’influenzare tanto le valutazioni d’azienda quanto il costo del denaro preso a prestito. Si veda in proposito A quali eccessivi livelli è giunto l’indicatore di “sopravalutazione” delle aziende caro a Warren Buffett:


Ecco: il nervosismo che stiamo registrando negli ultimi tempi sui mercati finanziari può essere innanzitutto essere spiegato soprattutto dai (fondati) timori che alla fine i tassi d’interesse invece di scendere possano finire col crescere. Ma questa è soltanto la punta dell’iceberg contro il quale l’economia mondiale rischia di andare a cozzare. Sotto la superficie dell’oceano infatti il grosso del problema consisterebbe nelle conseguenze che un rialzo di tassi potrebbe avere in termini di sostenibilità dei debiti pubblici occidentali. Un problema amplificato dal fatto che, fuori dagli Stati Uniti d’America e dai Paesi Emergenti (cioè principalmente l’Europa), la crescita economica restante appare quasi nulla.

La situazione attuale dell’economia globale insomma appare rosea soltanto tenendo conto dell’incremento di liquidità costantemente operato dalle banche centrali di tutto il mondo e altresì tenendo conto dello stimolo fiscale generato dall’incremento costante della spesa pubblica, cosa che genera però una crescita smisurata dei debiti pubblici complessivi. Due fattori circa la cui sostenibilità nel lungo termine è lecito nutrire dei dubbi.

Se teniamo poi conto del fatto che ci troviamo molto vicini ai massimi storici di sempre delle borse di buona parte del pianeta, ecco spiegata la crescente prudenza degli investitori e dei risparmiatori circa il come potrebbe evolvere la situazione nel prossimo futuro. Se i profitti aziendali delle principali imprese quotate in borsa nel mondo non proseguiranno la straordinaria crescita registrata negli ultimi tempi, se i tassi d’interesse saliranno e se la crescita economica globale non proseguirà come oggi, allora sarà necessario abbassare i moltiplicatori delle valutazioni aziendali, cioè osservare una riduzione dei valori delle aziende quotate.


Ecco però anche spiegato il motivo del ricorso generalizzato a beni rifugio alternativi ai valori azionari come l’oro e gli altri metalli preziosi, per proteggersi dalla svalutazione monetaria o da possibili scrolloni dei mercati finanziari. La svalutazione monetaria tuttavia può contribuire non poco a spiegare la crescita dei prezzi dei listini delle bose: in termini di valore aureo infatti quest’ultima è stata addirittura negativa. Ed ecco spiegata la prudenza degli investitori nei confronti dei titoli a reddito fisso: se le aspettative sono quelle di una prosecuzione della svalutazione monetaria allora il rendimento dei titoli obbligazionari non potrà che salire.


In conclusione di questa lunga carrellata di considerazioni non appare così singolare l’atteggiamento sempre più prudente degli investitori nei confronti dei mercati finanziari: da un lato il mondo appare vicino a un punto di svolta, che potrebbe anche essere doloroso. Dall’altro lato la svalutazione monetaria spinge a comperare azioni e non obbligazioni, dal momento che sono quote parte di attività reali che possono rivalutarsi nel tempo. E al tempo stesso non si può non tenere conto del fatto che la crescente liquidità in circolazione alimenta anche il mercato obbligazionario, che dunque non scende di prezzo (cioè non sale di rendimenti) sintantoché la domanda supera l’offerta. Un meraviglioso equilibrio dunque, che però non sembra molto probabile possa durare a lungo.

Stefano di Tommaso