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ECONOMIA REALE

Com’è andato per il nostro Paese l’anno appena concluso? Probabilmente la risposta dipende molto dai punti di vista. Però se guardiamo all’economia reale del nostro Paese, allora occorre ammettere che sia andata piuttosto male, soprattutto per le fasce di popolazione con i redditi più bassi, i quali sono in buona parte rimasti fermi ai livelli pre-inflazione, pur dovendosi confrontare con importanti rincari per la maggior parte dei consumi (a partire dal 20-30% medio del carrello della spesa al supermercato). Non c’è dunque da stupirsi del fatto che i consumi nazionali risultino quest’anno particolarmente depressi e che ciò abbia implicazioni negative tanto per il commercio (spiazzato inoltre dalla mancata tassazione delle multinazionali che vendono “online”) quanto per i valori immobiliari del nostro Paese. E non c’è da stupirsi della crescente richiesta di sussidi pubblici, sempre meno gestibile dal governo in carica.

 


L’INDICE DELLA PRODUZIONE INDUSTRIALE

Se poi guardiamo alla produzione industriale è andata forse ancora peggio, dal momento che l’industria nazionale si deve confrontare con un calo medio dell’ordine del 3-4% annuo che oramai va avanti da prima dell’era “covid” (cioè da 3-4 anni) e che solo una piccola parte delle produzioni nazionali può godere di una miglior situazione delle esportazioni verso Asia e Medio Oriente. L’export inoltre non sembra orientato a “tenere” dal momento che l’elevatissimo costo nazionale dell’energia e gli altrettanto elevati “oneri sociali” legati al costo del lavoro tendono a comprimere ulteriormente la competitività delle nostre fabbriche.


CRESCITA ECONOMICA & “VERA” INFLAZIONE

La propaganda mediatica governativa continua invece a dichiarare per l’Italia una crescita del prodotto interno lordo, ma è oramai chiaro a tutti che quel +0,5% del PIL che registra l’Istituto di Statistica deriva quasi soltanto da una distorta contabilizzazione dell’inflazione dei prezzi, rimasta a livelli relativamente limitati (3-4% annuo) per taluni beni considerati nel “paniere” dell’inflazione ufficiale (quali ad esempio i derivati del petrolio e taluni prodotti di largo consumo) e schizzata letteralmente alle stelle (+30-40%) se consideriamo invece il costo dei beni più cospicui, dei servizi, delle costruzioni, dei viaggi e dei beni di lusso. Occorre poi ricordare che ben oltre la metà del prodotto interno lordo è “consumato” dalla pubblica amministrazione, che è arrivata a imporre livelli record (tanto storici quanto geografici) di tassazione e sembra orientata ad inasprirli ulteriormente!


Anche il dato sull’occupazione italiana sembra di non facile interpretazione: apparentemente in crescita, ma in realtà ciò che cresce davvero è soltanto il numero di posti precari e sottopagati, mentre decrescono tanto le pensioni quanto i redditi (da lavoro dipendente) più elevati. Si badi peraltro che la suddetta considerazione prescinde da qualsiasi opinione politica sull’operato del nostro governo, quantomeno fortemente zavorrato tanto da problemi sempre crescenti di deficit fiscale (durante la pandemia siamo arrivati a ridosso del 10% del PIL per poi ridurre a poco meno del 4%, cioè ancora oggi l’8% del bilancio pubblico è senza copertura) quanto dalla giungla normativa, tanto nazionale quanto comunitaria.


Ed è una magra consolazione sapere che -dal punto di vista strettamente industriale- sia andata ancora peggio per le economie europee più vicine a noi come la Francia e la Germania. Dal momento che entrambe le loro economie hanno potuto sostenere una miglior dinamica salariale rispetto a quella italiana (e di conseguenza consumi complessivamente meno depressi), anche per il fatto che tanto le imprese quanto le unità familiari hanno potuto beneficiare di minor tassazione e minor costo dell’energia (la prima per le proprie centrali nucleari e la seconda anche per le proprie centrali a carbone). Dunque per l’uomo della strada dell’Europa continentale la congiuntura sembra invece migliore della nostra.


L’AMERICA VA MOLTO MEGLIO

E’ andata invece parecchio meglio per gli Stati Uniti d’America dove non soltanto il PIL ha registrato una crescita media del 3%, ma anche l’ottima dinamica salariale ha potuto ampiamente sopravanzare il calo iniziale dei redditi dovuto alla svalutazione monetaria e di conseguenza i consumi hanno registrato in media delle ottime performances. Gli USA possono inoltre contare su una tassazione molto ridotta dei redditi (tanto personali quanto di impresa) rispetto agli standard europei e su una spesa pubblica in grande crescita che costituisce un formidabile stimolo alle attività economiche interne senza che ciò costituisca (almeno per il momento) un problema. In America infatti il deficit di bilancio viene puntualmente controbilanciato dal forte afflusso di capitali provenienti dal resto del mondo, grazie ai quali non è mai stato un problema il finanziamento del debito pubblico, arrivato oramai al 120% del PIL e orientato ad ulteriori impennate.


LE DISUGUAGLIANZE CONTINUANO A CRESCERE

Ovviamente anche in America la crescente “polarizzazione” dei redditi (sempre migliore per quelli da capitale e non ottimale per quelli da lavoro dipendente) ha creato una spaccatura profonda, che si è riflessa nel risultato delle ultime elezioni politiche. Ma l’economia appare solida -anche in prospettiva- non soltanto perché gli USA sono grandi esportatori di tecnologia, armamenti ed energia. Anche la crescente incidenza degli investimenti sul prodotto interno lordo sembra destinata a far proseguire lo sviluppo, tanto per il fatto che -grazie all’automazione industriale- molte produzioni stanno tornando negli USA dopo che in passato erano state delocalizzate, quanto per la crescente influenza degli investimenti informatici nei sistemi di nuova generazione collegati allo sviluppo dell’intelligenza artificiale.


Investimenti per il momento realizzati quasi solo dalle grandi multinazionali tecnologiche e ben poco dalle piccole e medie imprese americane. Che tuttavia non solo trainano il PIL degli Stati Uniti, ma sembrano anche destinati a dare ulteriori frutti negli anni a venire. L’ottima dinamica dei mercati dei capitali in America infatti permette di destinare quote crescenti di risorse finanziarie agli investimenti delle grandi imprese a stelle e strisce e consente dunque uno stimolo ulteriore allo sviluppo economico di quel Paese.

LA FORZA DEL DOLLARO

Non c’è dunque da meravigliarsi della forza crescente del Dollaro americano rispetto a quasi tutte le altre divise valutarie, sospinta non soltanto da buone prospettive economiche, ma anche dalla crescente attrazione dei capitali da parte dei mercati finanziari a stelle e strisce e dai rendimenti elevati offerti dal biglietto verde. La Cina ad esempio sembra aver goduto anche quest’anno di una congiuntura economica persino migliore dell’America (nonostante ciò che raccontano i “media” il PIL del paese pare essere cresciuto di quasi il 5% anche nel 2024), ma i propri mercati finanziari non destano molta attrattiva per i capitali stranieri e il cambio dello Yuan resta ai minimi storici contro il Dollaro (probabilmente anche per motivi strategici di sostegno alle esportazioni e di contrasto alla minaccia dei dazi alle importazioni americane).

IL “DOLLAR INDEX”

Dal punto di vista globale poi il 2024 sembra poter consolidare una crescita economica molto simile a quella del 2023, anche grazie alla crescita demografica di buona parte delle economie emergenti, in particolare quelle asiatiche. Dunque il fanalino di coda dell’economia mondiale possiamo con pochi dubbi affermare che sia stata l’Europa.

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IL COSTO DELL’ENERGIA

Le cause sono da ricercarsi in varie direzioni, molte delle quali sono ben note: una forte rigidità del mercato del lavoro, orientata al ribasso anche a causa di un modello industriale obsoleto, la forte dipendenza dalle risorse energetiche importate, un sistema politico oneroso, macchinoso e corrotto che ha generato un debito pubblico in buona parte fuori controllo e, al tempo stesso, il crescente onere degli armamenti, buona parte dei quali importati dal resto del mondo.


Tendenze che potrebbero produrre -a partire dal prossimo anno- anche una riduzione dell’occupazione, con possibili conseguenze in termini di crescenti tensioni sociali, mentre cresce anche il rischio di ulteriore coinvolgimento dei Paesi dell’Eurozona nei conflitti mediorientali, est europei e addirittura africani (con il conseguente onere che ne può derivare). Senza contare il rischio di ulteriori divergenze politiche all’interno della macchina comunitaria, divenuta elefantiaca in termini di costi e vincoli, ma che è risultata decisamente incapace di produrre, in contropartita, un vero ”mercato unico“ né crescita economica o stabilità finanziaria.

LA DEBOLEZZA DELLA DIVISA UNICA EUROPEA CONTINUERÀ

In queste condizioni appare difficile prevedere buone prospettive per la divisa unica europea, i cui rendimenti finanziari non potranno che restare limitati a causa della pessima performance dell’economia reale, e il cui cambio contro Dollaro non potrà che accusare il colpo di conseguenti probabili ulteriori deflussi di capitali dal vecchio al nuovo continente, nel prossimo futuro. Almeno sin tanto che le attuali (forti) contrapposizioni geopolitiche limiteranno gli investimenti asiatici nel vecchio continente e sinanco gli scambi commerciali con i Paesi aderenti ai BRICS.


CIGNI BIANCHI E NERI

Da tutti i punti di vista sino qui passati in rassegna peraltro appare difficile poter scorgere per il nuovo anno significative variazioni delle attuali tendenze. Un possibile “cigno bianco” (cioè una buona notizia) potrebbe provenire dall’eventuale riduzione dell’intensità dei conflitti oggi in corso tra i Paesi membri della NATO e la Federazione Russa, nonché tra Israele e praticamente tutti gli altri Paesi del Medio Oriente. Ma anche se ciò accadesse appare difficile immaginare la fine dell’emorragia finanziaria che tali conflitti oggi procurano ai Paesi Occidentali. Così come sarebbe improbabile che l’instabilità politica dell’intero continente africano possa portare qualche futuro beneficio ai paesi europei nel prossimo anno (anzi!). Dunque nel migliore dei casi la congiuntura attuale sembra destinata a variare piuttosto poco nel primo scorcio del nuovo anno.

Un vero e proprio “cigno nero” per l’economia europea invece si materializzerebbe se le tensioni geopolitiche continentali dovessero addirittura peggiorare, dal momento che il primo rischio di un’escalation militare nel 2025 sarebbe quello di una seconda ondata di inflazione dei prezzi, tanto energetici quanto industriali. Un rischio assai poco gestibile dal momento che appare già in atto un deciso “debasing” (cioè in soldoni: svalutazione) del valore intrinseco delle cosiddette “fiat currencies” dei principali paesi occidentali, misurato principalmente dal crescente prezzo dell’oro e degli altri metalli preziosi e in parte anche dal rialzo dei prezzi di quasi tutti i prezzi dei beni reali.

LO “SVUOTAMENTO” DEL VALORE INTRINSECO DELLA MONETA

Anzi: il contrasto tra la dinamica dell’inflazione dei prezzi dei beni di prima necessità e quella dei prezzi dei beni-rifugio (come l’oro e gli altri preziosi appunto) appare sempre più marcato, delineando di fatto una svalutazione ”reale” delle principali divise di conto valutario, che corre molto più velocemente di quanto le statistiche ufficiali lascino credere e che investe sinanco il valore delle imprese, quantomeno di quelle che sembrano poter esibire modelli di business adeguati al mondo che cambia. Addirittura si potrebbe affermare che la salita generalizzata delle quotazioni di borsa come pure dei beni reali cospicui sia sostanzialmente dovuta non tanto all’apprezzamento intrinseco quanto alla svalutazione della moneta in cui il loro valore è misurato.


D’altra parte non è mai stata una vera novità la profonda divaricazione tra l’andamento dell’economia reale e quello dei mercati finanziari. Ma negli ultimi anni più che un divario sembra si sia creato un vero e proprio abisso, che poi si riflette nelle crescenti disuguaglianze tra percettori di salari e percettori di redditi da capitale.

 

Stefano di Tommaso