PERCHÉ I GESTORI INCREMENTANO LA LIQUIDITÀ NEI LORO PORTAFOGLI
Avrete notato che, nonostante la gigantesca divergenza di performance tra le borse europee e quelle americane, molti investitori USA stanno liquidando i loro portafogli titoli per restare “liquidi”? Aveva iniziato Warren Buffett ma, dopo di lui, parecchi altri grandi gestori di patrimoni lo stanno seguendo, con il rischio di perdersi tra l’altro l’ennesimo “rally di fine d’anno” delle borse americane che non solo hanno continuato fino a ieri a inanellare nuovi record ma rischiano anche di proseguire la corsa. Per quale motivo dunque molti importanti operatori del mercato compiono una tale manovra che in apparenza sembra irrazionale?
SVILUPPO ECONOMICO E TASSI ELEVATI
La risposta non è univoca, né semplice, ma c’è: sul mercato U.S.A. una strana congiuntura economica che vede oggi una rilevante crescita economica e, contemporaneamente, un elevato livello dei tassi d’interesse, costituisce il primo indizio. La situazione è “strana” non soltanto perché occorre notare che tra le prime motivazioni che hanno spinto le classi meno agiate a votare Donald Trump c’è stata quella della rilevante inflazione “reale” in contrapposizione con quella rilevata dai vari istituti di statistica: il popolo cioè ha fatto i conti in tasca propria e ha incolpato Biden e la sua amministrazione di aver sostanzialmente mentito circa i veri numeri dell’inflazione. Nel grafico qui sotto si può vedere che la componente del P.I.L. “consumi” si è mediamente ridotta negli ultimi trimestri:
QUAL’È STATA LA “VERA” INFLAZIONE ?
E poiché la crescita del prodotto interno lordo (PIL) si misura dopo aver deflazionato i redditi complessivamente rilevati, è chiaro che qualora il tasso di inflazione rilevato, con il quale viene deflazionato il PIL, fosse stato insufficiente (rispetto alla realtà) allora il dato reale del PIL stesso (e quindi anche la sua crescita) risulterebbero “gonfiati” rispetto alla realtà. Mi rendo conto del fatto che questa possa risultare come una lettura assai “estrema” della straordinaria crescita del PIL americano ma, d’altronde, non è successo nulla di diverso a casa nostra, dove il carrello della spesa al supermercato è cresciuto in due anni di circa il 30% mentre le statistiche sull’inflazione ne segnalano all’incirca la metà nello stesso periodo.
LE ATTESE SUI TAGLI AI TASSI D’INTERESSE SONO SOVRASTIMATE
Ma senza dubbio la cosa più strana nei mercati finanziari americani è la crescita dei rendimenti USA a lungo termine (10 anni e oltre) proprio mentre la Federal Reserve (FED) tagliava con decisione il livello dei tassi federali. Oggi, come si può leggere dal grafico pubblicato da JP Morgan di recente, le attese per i prossimi ”tagli” dei tassi da parte della FED si sono ridotte:
Perché i tassi d’interesse sono stati mantenuti alti dalla FED ma addirittura da metà Settembre sono addirittura cresciuti per le durate più lunghe sul mercato dei titoli a reddito fisso? (si veda il grafico qui sotto). Forse perché l’allarme inflazione non è rientrato del tutto. E poi sicuramente per l’enorme offerta di titoli di stato che deve trovare nuova domanda nei sottoscrittori incentivandoli con rendimenti assai elevati.
IL PREMIO PER LA LIQUIDITÀ È SCARSO
Ecco dunque che prende forma il primo indizio per riuscire a comprendere perché mai molti grandi investitori preferiscono restare “liquidi”: se restare liquidi significa ottenere un rendimento di oltre il 4% in titoli di stato (anche a breve termine), l’eventuale investimento in titoli azionari (che a differenza del mercato monetario incorporano un qualche rischio) deve fornire ai medesimi investitori delle aspettative di rendimento molto più elevate!
E qui casca l’asino: quanto rende in media il mercato azionario americano? Un facile calcolo deriva dall’aspettativa di profitti aziendali che viene condivisa (cosiddetto “consensus”) dagli analisti relativamente al paniere dei principali 500 titoli azionari compresi nell’indice SP500: in media 270 dollari per azione. Poiché con l’indice SP500 che si trova a circa 6.000 punti questa attesa corrisponde all’incirca a 22 volte gli utili (cioè a un rapporto Prezzo / Rendimento -P/E- pari a circa 22 volte), ne possiamo dedurre che i profitti netti per azione in media attesi sul paniere di titoli azionari compresi nell’indice SP500 è pari al 4 e 1/2 %. Come si può constatare questo rendimento è all’incirca identico a quello offerto dai titoli a reddito fisso privi di rischio a breve termine americani nonché sostanzialmente pari a quelli a lungo termine (come si può leggere dalla tabella qui sotto riportata):
Dunque detenere un paniere di titoli azionari corrispondenti a quelli dell’indice SP500 della borsa di Wall Street in questo momento significa prendersi dei rischi aggiuntivi rispetto all’acquisto di titoli di stato americani ma non potersi attendere dei rendimenti aggiuntivi. Senza contare il fatto che, con le borse ai loro record storici, detenere titoli assimilabili a liquidità può costituire un vantaggio per poter prendere profitto da particolari opportunità (ad esempio un calo significativo del lisitino) che dovessero profilarsi nel prossimo futuro.
LE IMPRESE D’EUROPA FANNO MENO PROFITTI
Ma esistono anche altre spiegazioni: le borse americane si trovano oggi in una situazione di estrema sopravvalutazione rispetto alle altre borse valori del pianeta. Ciò a causa di tutta una serie di circostanze positive che però non è detto possano restare tali anche nel prossimo futuro. Per non parlare delle altre principali borse valori, le quali scontano tutte una minor profittabilità delle imprese (in particolare quelle europee) i cui titoli azionari quotati sono però cresciuti meno, come si può leggere dal grafico qui sotto riportato:
E’ altresì vero -anche a causa dell’incremento per la liquidità attesa per il prossimo anno soprattutto negli Stati Uniti d’America (ma anche per diverse borse asiatiche tra le quali quella di Tokio)- che numerose banche d’affari hanno elevato le proprie stime relative al livello dell’indice SP500 nel corso del 2025 a circa 6.500 punti (ad esempio Goldman Sachs). Qui sotto un grafico che ci mostra l’andamento ciclico della liquidità che da questo momento in poi sembra poter aggiungere carburante ai listini azionari per tutto il 2025:
Ma è altrettanto vero che, dopo oltre un decennio di crescita ininterrotta dell’economia globale, una fase di consolidamento o di declino dello sviluppo economico è sempre più probabile all’orizzonte. E quando questa arriverà i profitti delle imprese che sono oggi sugli scudi non potranno che risentirne negativamente.
Senza considerare poi il fatto che restano tutte da verificare le ottimistiche attese di profitti futuri derivanti dalle applicazioni pratiche dell’Intelligenza Artificiale, che evidentemente sono alla base di numerose stime relative ai profitti attesi dalla “corporate America” mentre toccano assai poco i listini europei.
L’EUROPA NON PUÒ COMPETERE PERCHÉ PAGA MOLTO CARA L’ENERGIA
Per le borse d’Europa (che hanno performato molto meno di quelle degli USA) occorre inoltre tenere conto anche di altri fattori, primo tra i quali il rischio di estensione della guerra con la Russia alle proprie porte, nonché l’incredibile ascesa (di nuovo) del prezzo dell’energia per le imprese (si veda qui sopra il grafico che evidenza un sostanziale raddoppio del prezzo del gas naturale alla borsa di Amsterdam in meno di un anno) anche perchè la disponibilità di gas in Europa (senza quello russo) appare inevitabilmente destinata a ridursi.
I RISCHI DI UN DOLLARO TROPPO FORTE
Occorre poi fattorizzare il rischio di risalita dell’inflazione al di fuori degli U.S.A. derivante dalla forte ascesa del Dollaro dopo l’elezione di Donald Trump (qui sotto riportato) dal momento che i prezzi del Petrolio, del Gas e di buona parte delle materie prime sono quasi sempre denominati in Dollari americani:
Dunque, se vogliamo, la tenuta dei profitti delle imprese europee quotate nelle principali borse continentali è da considerare ancora più a rischio di quella delle imprese americane, nonostante i livelli record cui sono giunti gli utili di queste ultime! Non per niente la performance delle borse ne risente (come si può leggere dal grafico qui sotto).
Infine una nota (per ora) di colore: in Giappone sono cresciute tanto le stime sull’inflazione dei prezzi (risalite nell’ultima rilevazione al 2,3% anno su anno) quanto le attese su un possibile rialzo dei tassi d’interesse fissati dalla banca centrale (BOJ). Le aspettative sono ulteriormente peggiorate negli ultimi giorni a causa della decisa riduzione del cambio dello Yen rispetto al Dollaro, che rischia di incrementare l’inflazione ”importata” dal resto del mondo. La notizia non sarebbe così rilevante se non fosse che -statisticamente- ciò che succede in Giappone non fa che anticipare quanto avviene nel resto delle economie occidentali all’incirca nel giro di un anno.
E qualora l’inflazione tornasse a mordere anche nel resto dei Paesi OCSE la circostanza sarebbe particolarmente negativa per l’area Euro (a rischio dunque di stagflazione) più che per gli USA, i quali possono vantare un cambio in crescita e uno sviluppo economico decisamente migliore.
Stefano di Tommaso