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RIPARTE IL RISIKO BANCARIO EUROPEO

La notizia della possibile acquisizione di Commerzbank da parte di UniCredit ha rilanciato le attese del mercato finanziario per una ripartenza complessiva delle fusioni e acquisizioni in tutta Europa, non soltanto perché è quanto invoca la Banca Centrale Europea, bensì anche per una serie di motivi strutturali qui esaminati, i quali fanno sì che -a nostro avviso- la giostra delle compravendite di banche -sonnecchiante fino alla prima metà dell’anno- non possa che riprendere invece a correre.

 

IL CALO DEI TASSI D’INTERESSE FARÀ SCENDERE GLI UTILI DELLE BANCHE?

Dopo una lunghissima attesa per la discesa dell’inflazione che tardava ad arrivare è finalmente stata inaugurata l’era dei “tagli” dei tassi d’interesse da parte delle principali banche centrali, anche perché oggi sono più diffusi che in passato i timori (o i dolori, dove è già successo) dei danni che possono derivare dalla recessione economica. Ma mentre è probabile che la recessione non colpirà tutti i territori e tutti i settori industriali allo stesso momento e nello stesso modo (gli Stati Uniti d’America ad esempio sembrano particolarmente resilienti alla prospettiva di una recessione, quelli dell’Unione Europea sembrano invece esserci già dentro da tempo), è già molto chiaro che l’ondata di riduzione dei tassi d’interesse sembra oggi propagarsi in giro per il mondo in modo molto più veloce e uniforme.

Ora dunque tutti si chiedono se -insieme ai tassi d’interesse- scenderanno parimenti anche i profitti degli istituti di credito, i quali hanno molto beneficiato del paio d’anni di inflazione e tassi elevati. E adesso che le banche centrali hanno iniziato a muoversi davvero i grandi investitori hanno avviato la cessione di buona parte dei titoli azionari di banche e finanziarie da loro posseduti, anche per prendere beneficio delle supervalutazioni raggiunte.

I GRANDI INVESTITORI VENDONO I TITOLI BANCARI

E’ ad esempio cronaca di questi giorni la cessione di una quota importante di Bank of America da parte della Berkshire Hathaway di Warren Buffett per circa 7 miliardi di dollari. Così come sono balzate alla ribalta della cronaca le decisioni di vari governi europei di cedere le loro partecipazioni in grandi istituti di credito nazionali: quello olandese di in Abn Amro, quello italiano in Monte Paschi, quello inglese in NatWest e quello federale tedesco in Commerzbank.

LA RICERCA DI MAGGIORI DIMENSIONI

Non è poi così scontato prevedere di quanto scenderanno i profitti delle banche, dal momento che molte di esse godono di posizioni oligopolistiche e che la contrazione del loro margine d’interesse potrebbe essere compensata dalle plusvalenze sul portafoglio titoli, dall’efficientamento della gestione che potrebbe derivare dall’intelligenza artificiale e dalla specializzazione in particolari comparti.

Ma è anche sempre più chiaro che -nel nuovo scenario- a mantenere elevati profitti saranno quasi soltanto gli istituti di credito di maggiori dimensioni, che potranno compensare il calo dei margini con le economie di scala dei costi e la più elevata stabilità degli utili che può provenire dalla diversificazione territoriale.

LE ECONOMIE DI SCALA E LE NECESSITÀ EUROPEE

Questo sembra essere il motivo principale per il quale potrebbe essere tornato il momento della ripresa della giostra di fusioni e acquisizioni tra banche e istituti finanziari/assicurativi, Ivi comprese le cosiddette ”fabbriche di prodotto” che afferiscono loro, ciascuna delle quali necessita di poter raggiungere una notevole massa critica per raggiungere un elevato grado di efficienza. Molti istituti di credito insomma stanno prendendo atto del fatto che, senza incrementare le loro dimensioni aziendali, non potranno restare competitivi e reggere le sfide che si profilano.

Così come il rapporto Draghi, venuto alla luce nei giorni scorsi, sembra andare nella medesima direzione: saranno necessari istituti di credito di grandi dimensioni per supportare l’ingente mole di investimenti da lui sollecitata al fine di permettere all’Euro-zona di riprendere un cammino di sviluppo economico. E poi chi, come UniCredit, ha guadagnato una super-valutazione dei propri corsi azionari, oggi cerca di sfruttare la propria ingente capitalizzazione per tentare una fusione importante, conscio del rischio che di qui a poco tempo essa possa ridursi.

LA NECESSITÀ DI AGIRE “CROSS-BORDER”

Anche la diversificazione territoriale potrebbe risultare premiante in vista di una maggior integrazione bancaria europea, dal momento che le migliori opportunità di aggregazione per le banche dell’Unione potranno risultare al di fuori dei propri confini nazionali. Il Caso Commerzbank sembra rispondere appieno a questa logica: sembra infatti che il governo federale tedesco prima che all’Unicredit abbia offerto il proprio pacchetto di azioni alla Deutsche Bank, tra l’altro uno dei maggiori istituti di credito d’Europa, ma questi abbia rifiutato anche per la scarsa prospettiva di sinergie di costo che poteva emergere dall’unione di due istituti che primeggiano nel medesimo territorio.

ANDREA ORCEL
UniCredit tra l’altro aveva già superato i confini territoriali della Germania da diversi anni e ha mostrato di saper fare anche su quel territorio ottimi profitti. Dal punto di vista del suo leader, Andrea Orcel, non è stato dunque mal investito il miliardo e mezzo di euro che è costata la partecipazione del 9% raggiunta nell’istituto di Francoforte sul Meno, di cui una metà acquisita dal governo e l’altra in borsa.

L’ESCA DELLA BASSA VALUTAZIONE DI COMMERZBANK

Perciò la valutazione del 100% alla quale è stata acquisita la quota di Commerzbank è all’incirca 16 miliardi di Euro. Anche ipotizzando un premio del 20% per riuscire ad acquisirne il restante 16% (prima della soglia dell’OPA e, verosimilmente, della proposta di OPS da parte di UniCredit) parliamo di una valutazione di Commerzbank nell’ordine di 19-20 miliardi di euro, contro un patrimonio netto di quest’ultima di circa 25 miliardi di euro. Un buon affare dunque, a partire dal valore degli asset in palio.

UNICREDIT È GIÀ FORTE IN GERMANIA

In realtà poi UniCredi non ha soltanto beneficiato della sua mossa a sorpresa per il balzo del 15% che le azioni Commerzbank hanno fatto subito dopo l’annuncio, e nemmeno soltanto per la possibilità di esprimere immediatamente un nuovo management in Germania, già attivo nella gestione della divisione tedesca di UniCredit, quello di HypoVereinsBank (HVB), dopo che il vertice di Commerzbank aveva annunciato il suo prossimo ritiro. In realtà il ramo tedesco di UniCredit, la HVB (che conta per circa il 20% degli asset di UniCredit) mostra una redditività sul capitale investito del 20% contro quella del 7% di Commerzbank: dunque è verosimile pensare che il management tedesco della HVB, una volta al comando di Commerzbank possa raggiungere risultati decisamente migliori del pregresso nel gestirla.

LA POSSIBILITÀ DI UN’OFFERTA PUBBLICA DI ACQUISTO

Il vero asso nella manica di UniCredit consiste tuttavia nella possibilità di risultare credibile nel proporre, dopo che fosse riuscito ad acquisire altre azioni Commerzbank sino alla soglia dell’Offerta Pubblica di Acquisto (OPA), una fusione tra i due istituti, beneficiando dell’ottimo livello di capitalizzazione che ha accumulato, a fronte di multipli decisamente inferiori di capitalizzazione della Commerzbank, dovuti alla minor capacità di esprimere crescita e profitti (oggi UniCredit può contare su una redditività sostenibile dell’ordine di 10 miliardi l’anno).

LE ALTRE CANDIDATE DEL RISIKO BANCARIO

Il punto che risulta più interessante però non è sapere se una banca italiana riuscirà a vincere le resistenze sindacali tedesche nei confronti dell’acquirente o se riuscirà a mettere insieme in tempo un pacchetto di azioni che gli possa permettere di proporre la fusione, bensì il fatto che a livello più generale altri istituti non potranno che muoversi parimenti, a pena di non poter mantenere gli attuali livelli di capitalizzazione di borsa.

Parliamo ad esempio di una delle principali banche europee – il Credit Agricole– che già possiede una quota del 10% nel capitale del Banco BPM, piuttosto che del gruppo Unipol-BPE, che sembra candidato all’integrazione con il Monte dei Paschi di Siena. Così come la spagnola Santander che sembra pronta a digerire il boccone della francese Société Génerale.

Al momento le più grandi banche europee sono le seguenti:

  1. ING Bank
  2. Lloyds Banking Group
  3. Barclays Plc
  4. Groupe BPCE
  5. Societé Générale SA
  6. Deutsche Bank AG
  7. Banco Santander SA
  8. Crédit Agricole Group
  9. BNP Paribas SA
  10. HSBC Holdings PLC
  11. UBS Group
  12. UniCredit SpA
  13. Crédit Mutuel Group
  14. Intesa SanPaolo SpA
  15. Royal Bank of Scotland Group PLC
  16. Credit Suisse Group
  17. Banco Bilbao Vizcaya Argentaria
  18. Standard Chartered PLC
  19. Rabobank
  20. Nordea Bank.

GLI INGENTI INVESTIMENTI NECESSARI IN INTELLIGENZA ARTIFICIALE

La ragione della possibile corsa che potrebbe scatenarsi in Europa non sta peraltro soltanto nella ricerca di motivi per poter sostenere gli ingenti incrementi nella capitalizzazione di borsa degli istituti di maggiori dimensioni, bensì principalmente nella necessità di poter sostenere e “giustificare” gli ingenti investimenti nell’iper-digitalizzazione richiesti dall’introduzione delle nuove tecnologie legate all’intelligenza artificiale, essenziali per poter esprimere il massimo livello di competitività.

IL VALORE IN MLD DI $ DEGLI INVESTIMENTI IN ARTIFICIAL INTELLIGENCE DELLE BANCHE
A livello dimensionale infatti i maggiori istituti bancari del mondo (JPM, ICBC, BOFA, CCB, ABC, BOFC, HSBC, WELLS F., GOLDMAN S., MORGAN S.) non si trovano nell’Eurozona bensì in America e in Asia. Ed è evidente che costoro avranno, a bocce ferme, molto maggiori possibilità di evolvere nelle tecnologie innovative rispetto alle loro concorrenti europee.

Stefano di Tommaso