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QUANDO SCENDERANNO I TASSI ?

L’appuntamento estivo dei banchieri centrali a Jackson Hole è stato spesso in passato l’occasione per affermare le indicazioni di fondo e coordinarsi tra loro in tutto il mondo. E stavolta l’incontro non ha deluso le attese: Jerome Powell, governatore della maggiore banca centrale, la Federal Reserve Bank of America (FED), sembra aver parlato con sufficiente determinazione: ”è giunto il momento di riaggiustare la politica monetaria“ nel senso di un allentamento della stretta operata due anni fa. Ma quanto manca perché si passi dalle dichiarazioni ai fatti? I tassi scenderanno anche a casa nostra?

 

INFLAZIONE E TASSI DI SCONTO DI FED E BCE

ALLA RICERCA DELL’AUTOREVOLEZZA

A dire il vero negli ultimi anni le banche centrali di autorevolezza ne hanno persa parecchia. E infatti il tema del simposio non poteva parlare più chiaro: “Riaffermare l’efficacia delle politiche monetarie”. Viviamo in un’epoca in cui le principali divise monetarie sono dette “fiat currencies”, perché non risultano legate a particolari riserve di valore e dunque battono una moneta che prescinde dal cosiddetto “valore intrinseco” originario. Pertanto le politiche monetarie, per risultare efficaci, debbono riuscire ad avere un impatto sull’economia reale. E di norma una buona maniera per farcela è quella di anticipare gli eventi, piuttosto che reagire pedissequamente di conseguenza.

BCE, BOJ e FED a Jackson Hole

LA STORIA RECENTE

Due estati fa i banchieri centrali erano rimasti beffati dagli eventi e a Jackson Hole commentarono assai poco il rapidissimo aumento dei tassi d’interesse cui furono costretti per via dell’inflazione, inizialmente da essi giudicata con troppa superficialità “temporanea”, chiudendo però di fatto il recinto dopo che i buoi erano fuggiti. L’anno scorso questi tassi sembravano aver raggiunto la vetta. Ma poi ci sono rimasti un anno intero, senza scendere mai, dal momento che l’obiettivo al 2% dell’inflazione continuava a venire mancato.


Nemmeno l’anno scorso pertanto a Jackson Hole ci si è detto granché, segnalando semplicemente la volontà delle banche centrali di adeguare le politiche monetarie ai dati statistici quando questi avessero segnalato il calo dell’inflazione (la c.d. “data dependency”). Rinunciando in tal modo di fatto a quel ruolo che le banche centrali dovrebbero normalmente avere, anticipando e “guidando”l’andamento dell’economia reale. Non soltanto: spesso le politiche monetarie “data dependent” di fatto assecondano i movimenti del mercato finanziario, più che quelli dell’economia reale, amplificandone le oscillazioni invece di contrastarle.

Non solo dunque negli ultimi tempi FED & compagni hanno letteralmente “perso la faccia”, ma occorre notare che in tutto questo periodo sono lievitati decisamente anche i tassi d’interesse a lungo termine, cioè quelli pagati per interessi dai governi di tutti i Paesi occidentali, notoriamente stra-indebitati, con effetti ovviamente avversi sui bilanci pubblici. Senza contare il fatto che i tassi d’interesse elevati sui finanziamenti ad aziende e privati prelevano ricchezza dall’industria e dal commercio per ingrossare i redditi della finanza, frenando in tal modo lo sviluppo economico.


COME CAMBIERANNO LE VALUTAZIONI D’AZIENDA

I tassi a lungo termine poi risultano cruciali per le valutazioni d’azienda, soprattutto per quelle piccole e indebitate. Non per nulla le quotazioni delle imprese quotate al segmento Growth delle Borse Euronext sono scese moltissimo negli ultimi anni, talvolta sotto al patrimonio netto. Lo stesso vale per l’indice americano Russell 2000, che solo recentemente ha ripreso un po’ di fiato. In America anche a buona ragione, visto che ancora il 40% dei titoli di questo indice stenta a produrre profitti!


Dunque stavolta l’indicazione fornita dal banchiere dei banchieri appare inequivocabile. Potrebbe inaugurare una stagione di ribassi dei tassi e di rialzo dei titoli azionari “sottili”, soprattutto se in autunno sarà seguita da un comportamento coerente, conseguente (e auspicabilmente graduale) all’annuncio dato. La FED potrebbe anzi essere finalmente tornata ad anticipare i mercati, di fatto realizzando una “guidance” che non può che risultare benefica e stabilizzatrice, soprattutto se il “taglio” dei tassi interverrà prima (o in assenza) di una recessione economica americana, sebbene le parole di Powell siano rimaste vaghe relativamente alla tempistica e all’ampiezza della manovra.

LA DEBOLEZZA DEL DOLLARO

I contratti derivati sui mercati finanziari internazionali infatti scontano già una discesa entro la fine dell’anno dei tassi a breve termine (quelli governati dalla FED) di almeno un punto percentuale pieno (vale a dire dal 5,25% al 4,25%), che poi è esattamente il differenziale attuale con il tasso di sconto praticato dalla Banca Centrale Europea. E i mercati sembrano avere preso molto sul serio questa indicazione, tanto che il Dollaro americano si è immediatamente deprezzato, cosa entro certi limiti positiva un po’ per tutti, dal momento che in passato la sua forza aveva creato importanti e inutili squilibri nel commercio globale. Ovviamente rimane da tenere in conto la possibile evoluzione delle tensioni geopolitiche oggi in atto, prima di poter affermare che il biglietto verde continuerà la discesa.


La Banca Centrale Europea (BCE) ad esempio, la cui euro-zona a differenza dell’economia americana già da un paio d’anni non cresce, non può quindi permettersi una Divisa Unica troppo forte ed è piuttosto probabile che calerà di conseguenza ulteriormente il suo tasso di sconto.

LA ZONA EURO

Nel recinto della zona Euro tuttavia ci vorrà ancora parecchio prima di poter tornare a parlare di efficacia delle politiche monetarie della BCE. E’ dai tempi di Mario Draghi infatti che la banca centrale non mostra alcun segno di autonomia rispetto a quella degli Stati Uniti d’America. Non per niente le uniche economie che danno segni di risveglio nel vecchio continente sono quelle che non hanno adottato l’Euro, come la Svizzera, la Norvegia, i paesi dell’Est Europa e -ultimamente- il Regno Unito.

Eppure la BCE ha un ruolo fondamentale per assicurare la stabilità dei debiti pubblici delle diverse nazioni che vi aderiscono. Dunque avrà molta più necessità della FED di tentare di guidare al ribasso i tassi d’interesse pagati sul debito pubblico. E anche la struttura industriale del vecchio continente ha un deciso bisogno di ridurre la spesa per interessi, dal momento che la produzione arranca e i consumi ristagnano.

Ma soprattutto l’Euro-zona deve riprendere pesantemente a investire nelle nuove tecnologie, essendone rimasta fortemente arretrata. E oggi con i tassi d’interesse attuali e con la scarsa liquidità in circolazione, né le imprese né i governi possono permetterselo. Ecco in breve per quali ragioni i tassi d’interesse, a prescindere dal fatto che in America si materializzi o meno una recessione (che di fatto in Europa c’è da un bel po’ di tempo), dovranno necessariamente scendere parecchio.


QUANTO DURERÀ LA DISCESA ?

Quando ciò potrebbe accadere tuttavia non è così chiaro, dal momento che l’inflazione dei prezzi è rimasta strisciante e dal momento che il suo calo appare soprattutto dovuto al ribasso dei prezzi delle materie prime, più che ai consumi (che erano già risicati In Europa e che non sono calati invece negli USA). Le guerre potrebbero spingere nuovamente al rialzo il prezzo del petrolio, cioè quello dell’energia, che in Europa risulta un nervo scoperto, dopo il taglio del gas importato dalla Russia. Dunque è possibile che, dopo le elezioni americane, questi prezzi riprendano a correre, con il rischio che riparta l’inflazione, tagliando forse le gambe alle volontà dei banchieri centrali. Ma non alle loro necessità. Almeno per un po’ i tassi dovranno scendere ugualmente, per riportare in equilibrio la spesa pubblica per interessi.

E’ quindi possibile che presto i tassi d’interesse vengano guidati al ribasso dalle banche centrali “a prescindere” dalle notizie statistiche sull’inflazione, ma sul lungo termine non è detto che potranno restare bassi. Non importa: oggi i mercati finanziari ne hanno comunque già ricevuto un sollievo: i titoli di stato si sono rivalutati (anche per la diminuita allerta sulla capacità dei governi di remunerare il servizio del debito) e si sono visti recuperi delle quotazioni dei titoli azionari di minor dimensione ovvero di quelli alle prese con maggiori oneri finanziari.

E I TASSI PRATICATI ALLE IMPRESE SCENDERANNO ?

Anche gli interessi sul debito (e i relativi “spread” praticati sul tasso interbancario) potrebbero manifestare una riduzione con i prossimi “tagli”, dal momento che la fine delle politiche monetarie restrittive dovrebbe anche consentire maggior liquidità al sistema bancario e provocare dunque maggior disponibilità di credito. Questo però potrebbe valere per i finanziamenti erogati sul mercato dei capitali dagli intermediari finanziari non bancari, i quali in tal modo potrebbero riallinearsi alle condizioni praticate dal sistema bancario.


Le banche invece non ci stupirebbe che mostrino -anche in fase di allentamento delle politiche monetarie- una qual certa rigidità al ribasso dei tassi praticati al pubblico, per due grandi motivi:

  • il primo è che non esiste praticamente più la concorrenza in ambito creditizio, e
  • il secondo motivo sono le innumerevoli “regolamentazioni” del capitale proprio come calcolato ai fini di vigilanza, che impongono agli istituti politiche del credito sempre più severe e dunque sempre minor disponibilità per i soggetti più deboli.

Come dire peraltro che, anche qualora tutto andasse nel migliore dei modi, i tassi scenderanno per tutti, tranne che per buona parte delle piccole imprese italiane! Sic transit pecunia mundi…

Stefano di Tommaso