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LA FESTA E’ DAVVERO FINITA?

L’America sembra aver dismesso l’entusiasmo dilagante per le nuove tecnologie legate all’intelligenza artificiale che prospettavano una seconda rivoluzione digitale, così come sembra che dopo il “lunedì nero” sia aumentato il numero di scettici sul “soft landing” e, in teoria, molti speculatori sono stati costretti ad abbandonare la giostra del “carry trades” sullo Yen giapponese che li spingeva a gonfiare i portafogli di titoli azionari con “denaro facile”. Anche la liquidità del mercato azionario sembra essersi improvvisamente ridotta a causa del grande travaso di denaro, fuggito verso il mercato dei titoli a reddito fisso dopo l’impressionante altalena delle quotazioni della scorsa settimana. Per non parlare della probabile “fine di un’epoca” di calma piatta sul fronte della volatilità delle borse, adesso ritornata a livelli elevati che non si vedevano da mesi.

 

”HARD LANDING” O ”SOFT LANDING”?

D’altra parte gli ultimi dati macroeconomici pubblicati lasciano presagire una prospettiva di rallentamento dello sviluppo economico, una disoccupazione in ulteriore crescita (dunque un possibile calo dei consumi all’orizzonte) e poi gli investitori professionali non dormono tranquilli di fronte all’ulteriore pericolo di una nuova grande guerra tra Oriente e Occidente che, ovviamente, scombussolerebbe non poco la sua stabilità finanziaria. Qualcuno addirittura torna a parlare di “hard landing” (alla lettera: atterraggio duro, cioè passaggio brusco dall’espansione alla recessione) mentre fino a un paio di settimane fa c’erano analisti che prospettavano addirittura un “no landing” (vale a dire nessun rallentamento dell’economia).


DEBITI PUBBLICI FUORI CONTROLLO

Se poi vogliamo completare il quadro degli elementi congiunturali che preoccupano occorre ricordare il fatto che i bilanci pubblici di tutte le principali economie del pianeta sono appaiono non solo costantemente in deficit, ma addirittura i debiti pubblici che ne conseguono stanno addirittura accelerando la loro crescita e che, ovviamente, questo determina la difficoltà dei tassi d’interesse a scendere in modo più deciso e l’improbabilità di una riduzione più marcata dell’inflazione dei prezzi, a causa della svalutazione monetaria che rappresenta l’ovvia conseguenza della monetizzazione progressiva operata dalle banche centrali su una almeno una parte dell’enorme massa di debito pubblico.

ADDIO ALL’ERA DI “GOLDILOCKS”?

Come si può constatare dai fatti appena citati insomma, nelle scorse settimane gli operatori economici sembrano essersi improvvisamente risvegliati dal letargo in cui erano caduti per mesi, coccolati dalle ottime prospettive dipinte dagli economisti ispirati dalla filosofia di “Goldilocks” (la bambola dai riccioli d’oro). E quel risveglio li ha costretti a prendere atto di tutti i rischi appena indicati. Che sembrano averli convinti del fatto che, almeno per le borse, ”l’aria che tira” sembra essere definitivamente cambiata.

Ma sarà davvero così oppure si tratta di un giudizio che rischia di risultare quantomeno affrettato? È vero che grande è stato lo spavento appena vissuto con il “lunedì nero” dei mercati finanziari. Ed è altrettanto vero che quei rischi testé citati , occorre fare chiarezza, esistono eccome! C’è anche tuttavia -incredibilmente- sull’altro piatto della bilancia una lunga serie di ulteriori indicazioni economiche e finanziarie le quali potrebbero spingerci invece a rivedere all’insù le prospettive macroeconomiche.

MOLTI DATI MACRO SONO POSITIVI

Neanche a citare insomma Mark Twain, quando spiegava che tracciare previsioni è sempre molto difficile, specialmente se riguardano il futuro! Non soltanto infatti sono ancora ottime le attese di crescita per il terzo trimestre (quello in corso) del prodotto interno lordo americano, il quale di solito anticipa quello di buona parte del resto dell’Occidente. Non soltanto la corsa globale all’acquisto di armamenti procura un indubitabile stimolo alla crescita economica


Wall Street ora si aspetta numerosi “tagli” dei tassi d’interesse dalla banca centrale, i quali potrebbero avere un ulteriore effetto di stimolo per l’economia. E, soprattutto, è rimasta l’aspettativa di una copiosa crescita dei profitti delle società quotate, misurabile indirettamente dalle condizioni implicite dei mercati finanziari in una crescita media -per le imprese americane- del 12% da qui a fine anno. Ben oltre dunque le attese sulla crescita del prodotto interno lordo (circa il 2,5%) e di quelle sulla produzione industriale, che viene addirittura prevista sotto zero anche quest’anno.

LE BANCHE CENTRALI

C’è inoltre da tenere conto del fatto che la possibile inversione di rotta delle banche centrali, sebbene già considerata tardiva dalla maggior parte degli osservatori, comporterà non soltanto la riduzione dei tassi d’interesse a breve termine (quelli a lungo termine sono appena calati vistosamente quando i disinvestimenti dalle borse hanno fatto crescere le quotazioni dei titoli a reddito fisso riducendone la redditività implicita) bensì anche l’allentamento della politica monetaria, cosa che potrebbe rilanciare la liquidità.


E quest’ultima può risultare forse il primo e più importante fattore a favore della ripresa della corsa dei listini azionari. Dopo una pausa estiva che per fattori stagionali è quasi sempre ballerina e dopo un inizio d’autunno che potrebbe addirittura risultare riflessivo, molti analisti sono pronti a scommettere che le borse nell’ultima parte dell’anno potrebbero addirittura segnare nuovi record!

MY TAKE

Non ne sarei però così sicuro, per un numero infinito di ragioni pratiche che riguardano innanzitutto la psicologia prevalente sui mercati nonché le caratteristiche implicite dell’industria del risparmio gestito, che a un certo punto ha bisogno di fare cassa per soddisfare le richieste di recesso da parte dei sottoscrittori e che per farlo sarà costretta ad abbandonare altre posizioni azionarie. Non soltanto: il possibile calo dei tassi d’interesse potrebbe affliggere le prospettive di guadagno delle principali istituzioni finanziarie e rilanciare gli investimenti in immobili, che fino ad oggi risultano depresse. Due elementi che, inevitabilmente, possono ridurre almeno in parte la corsa gli investimenti in titoli azionari. Ma il ragionamento sopra riportato, espresso da chi si aspetta altri avanzamenti del listino di borsa, non fa una piega. Spesso le borse salgono quando l’economia rallenta e viceversa.


“MAGNIFICENT SEVEN” VS. “RUSSELL 2000”

Così come occorre tener conto della caratteristica principale dell’ultimo clamoroso movimento prima al rialzo e poi al ribasso dei principali indici di borsa: questi ultimi erano mossi quasi esclusivamente da pochissime grandi multinazionali tecnologiche e, dopo lo sgonfiamento dell’ultima bolla speculativa e le prese di profitto di chi ci aveva costruito grandi plusvalenze, era abbastanza normale attendersi un brusco ribasso di quegli stessi indici. Queste imprese tuttavia continuano a macinare grandi profitti e a investire pesantemente sul futuro: due fattori che molto probabilmente impediranno loro di cadere in disgrazia, nonostante la rotazione dei portafogli.


Nel medesimo ultimo anno tuttavia erano rimaste al palo le quotazioni di un notevole numero di titoli azionari emessi da società quotate di minori dimensionI: quelle rappresentate dall’indice “Russell 2000” a Wall Street. Anche a causa del fatto che la categoria di queste ultime è rimasta segnata più delle altre dal rialzo dei tassi d’interesse, ora essa potrebbe beneficiare più delle altre di un loro eventuale ribasso, e non soltanto in America. Casomai il punto è -in questo caso- lo “stock picking”: ci sarà un’ovvia selezione delle imprese più promettenti e dei settori considerati più “sexy”, dal momento che lo scenario di fondo dell’economia non è tale da consentire facili entusiasmi.


Ma basteranno quei -pochi- titoli più proiettati verso il futuro a trascinare al rialzo indici borsistici come lo “Standard & Poor 500”? Probabilmente no. Non basteranno. Occorre tenere conto del peso specifico di giganti come Apple, Google, Microsoft o Tesla per riuscire a orientarsi sul listino di New York. E questi ultimi sono tutti fortemente dipendenti dall’andamento futuro dei consumi per poter continuare a macinare grandi profitti. Il ragionamento dunque torna in maniera circolare alle attese relative allo sviluppo economico, ai salari, alla disoccupazione e al conseguente potere d’acquisto dei consumatori, che anche per le borse valori risultano fondamentali.


OLTRE LA “SAHM RULE”

Per riuscire a pronosticare la recessione è interessante un nuovo indicatore simile alla “Sahm Rule” che però combina i dati sui posti di lavoro vacanti e quelli sulla disoccupazione. Si basa sulla differenza tra la media finale a 3 mesi del tasso di disoccupazione e il suo minimo negli ultimi 12 mesi -da un lato- e la differenza tra la media finale a 3 mesi del tasso di posti di lavoro vacanti e il suo massimo negli ultimi 12 mesi, dall’altro. Quando l’indicatore raggiunge il livello di 0.3 una recessione potrebbe essere in arrivo; quando arriva a 0.8 la recessione è iniziata di sicuro.

Questo indicatore rileva la recessione prima della Sahm Rule cioè 1/2 mesi dopo il suo inizio, mentre la Sahm Rule la rileva almeno un mese dopo. Tracciando con questo indicatore i dati storici si esso identifica perfettamente tutte le recessioni dal 1930, mentre la Sahm Rule non funziona prima del 1960. Con i dati di luglio 2024. Oggi l’indicatore è a 0,5, quindi la probabilità che l’economia statunitense sia già in recessione è del 40%. In effetti, la recessione potrebbe essere iniziata già nel marzo 2024.

 

Stefano di Tommaso