ATLANTISMO E GAS AFRICANO

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Vista la crescente contrapposizione del nostro premier con la Russia, riuscirà l’Italia a fare a meno del gas di Putin? Draghi sembra molto impegnato e sta partendo per un lungo giro dell’Africa con l’obiettivo dichiarato di ottenere forniture alternative. Ma è oggettivamente molto difficile sostituire le forniture russe, per l’intera Europa. Che infatti si chiede se vale la pena sostenere le posizioni oltranziste di Draghi. Nel frattempo la bolletta energetica sale e le nostre riserve rischiano di terminare a Luglio…

 

L’Italia come sappiamo tutti è forse il paese europeo più esposto nel sostenere il governo ucraino contro la Federazione Russa. Il nostro presidente del consiglio ha addirittura rivendicato come sua l’idea di congelare le riserve russe di dollari e oro in America (che ovviamente non se l’è fatto ripetere due volte) ed è arrivato a suggellare con il segreto di stato il valore, l’entità e l’assortimento di armamenti inviati in dono dall’Italia a Kiev per contrastare l’armata rossa.

Tutti ricordano poi i discutibili sequestri ai cittadini russi in Italia di ville, auto, barche e disponibilità finanziarie. Sequestri discutibili per il semplice motivo che non esistono leggi del nostro stato che possano autorizzarli sulla sola base dell’appartenenza etnica! Si può dunque immaginare che non avranno lunga vita (e nel frattempo qualche danno al nostro turismo ovviamente l’hanno procurato ugualmente).

L’Italia insomma, grazie ad un governo che più atlantista non si può immaginare, è in prima linea contro gli “invasori” russi. E’ un dato di fatto, non un’opinione. Ma ovviamente c’è un prezzo pesante da sostenere su questa linea, soprattutto adesso che nessun paese occidentale sembra più volere un compromesso e la pace ma anzi, si rischia una decisa escalation militare.

Se vogliamo seriamente schierarci contro la Russia infatti, non abbiamo soltanto il problema dell’imporre un doloroso stop alle numerose nostre imprese che vivevano delle loro esportazioni verso Mosca, bensì c’è un altro piccolissimo problema da risolvere quando si vuole avere una politica estera così aggressiva nei confronti del maggior fornitore di risorse energetiche del nostro paese: quello di smarcare l’attuale dipendenza dalle sue forniture, che peraltro alcuni altri membri dell’Unione Europea (come l’Austria ad esempio, ma anche come l’Ungheria e sinanco la Germania) oggi appaiono molto più “laici” nell’andare ad accaparrarsi, guerra o non guerra.

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E qui alcuni nodi vengono al pettine: ci sarebbero grandi giacimenti in territorio italiano, oggi sfruttati soltanto per il 6%. Ma i nostri governi hanno più volte deciso di non voler fare di più. Dai tempi della benzina nazionale “Supercortemaggiore” che oramai nessuno ricorda nemmeno. Addirittura il referendum “no trivelle” (che si riferiva principalmente all’estrazione di gas metano) risale soltanto a 6 anni fa: troppo presto per fare un deciso dietrofront che assomiglierebbe ad uno smacco per i vari ambientalisti e intellettuali di certo ambiente.

Ci sarebbe poi l’energia elettrica prodotta con le centrali nucleari, alcune delle quali devono ancora iniziare ad essere smantellate. Ma di nuovo sarebbe uno smacco per quella politica, non importa il fatto che la maggior parte delle centrali dei nostri confinanti siano state posizionate proprio vicino ai confini. Dunque non possiamo contare nemmeno sul nucleare italiano, anzi! (nell’immagine qui sotto le centrali nucleari presenti in Europa)

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E poi il problema indubbiamente l’abbiamo con il gas, sia perché il petrolio con le navi arriverà sempre (magari il medesimo estratto in Siberia ma fatto prima passare dai porti asiatici offshore), che perché gran parte degli stabilimenti industriali e delle civili abitazioni sono collegate a reti di distribuzione del gas che non sono agevolmente sostituibili con altri combustibili. E quando anche l’intero “bel paese” fosse unitariamente allineato nella ferrea volontà di estrarre tutto il gas possibile dal nostro sottosuolo, passerebbero comunque anni prima di poterne ottenere quantità adeguate al nostro fabbisogno.

Ma sappiamo che la politica de’noantri non ha alcuna lungimiranza in quanto alle scelte strategiche del paese, semplicemente perché le subisce dall’estero. Ci rimangono dunque le navi gasiere americane a caro prezzo (ma prima dovremmo avere almeno i rigassificatori, e anche quelli erano oggetto di ludibrio da parte degli ambientalisti al governo, fino all’altro ieri). Oppure gli altri “vicini di casa”, cioè i paesi africani, che indubbiamente hanno grandi riserve energetiche non sfruttate da andare a prendere.

Cosa che non si può dire che Draghi non stia tentando. La settimana prossima infatti partirà per un vero e proprio tour africano: Congo, Angola e Mozambico. Motivo del viaggio, stringere accordi per la fornitura di altro gas, dopo il mezzo fiasco algerino e l’autogol politico con l’Egitto. Ma è saggio ed è sicuro puntare su Paesi africani dove è notorio il rischio di instabilità interna e con forti legami storici con Mosca? Ai tempi della guerra fredda al fianco dell’Unione Sovietica infatti erano proprio Algeria, Angola e Etiopia. E ancora oggi molti paesi africani dipendono dal grano russo per sfamare la popolazione. E che siano ancora legati e riconoscenti nei confronti della Russia lo si è visto con la loro assenza al voto delle Nazioni Unite per la condanna dell’invasione Ucraina.

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Ma se anche Draghi dovesse trovare i tappeti rossi al suo arrivo e dovesse ricevere la più grande apertura di questi paese a sostenerci con forniture mai viste in precedenza, resterebbero ancora un bel grattacapo: le reti fisiche per fare arrivare il gas dalle nostre parti appaiono decisamente insufficienti. Cioè mancano le infrastrutture per trasportarlo. Ad esempio la Nigeria, di recente, ha siglato un protocollo d’intesa con l’Algeria per la costruzione del gasdotto transahariano, un’opera lunga 614 chilometri che dovrebbe essere collegata all’Europa. Ma la prima volta che si è parlato del metanodotto in questione è stata negli anni ’70. E i lavori non sono ancora iniziati.

E poi per il trasporto del gas africano sono necessari investimenti significativi. Il che, come ha giustamente scritto Al Jazeera, equivale a una pioggia di capitali che al momento non si capisce da dove potrebbero arrivare. Così come ha riportato la Rystad energy (società di ricerca con sede a Oslo, in Norvegia) in un suo recente studio: «i progetti deepwater nell’Africa subsahariana sono rischiosi e possono essere oggetto di ritardi o mancate autorizzazioni a causa degli elevati costi di sviluppo, delle difficoltà di accesso ai finanziamenti, dei problemi con i regimi fiscali e di altri rischi». Tradotto: il gas africano, per ora, resterà a lungo sotto terra. Peccato inoltre che le quantità potenzialmente dispacciabili dall’Africa non potranno mai soddisfare la fornitura di 150 – 190 miliardi di metri cubi l’anno che Mosca usava inviare all’Europa. Non è un dettaglio da poco. Nell’immagine qui sotto le infrastrutture di trasporto africane attualmente esistenti.

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Dunque nemmeno con il gas africano ce la caveremmo nel sostituire l’oro “azzurro” che oggi arriva ancora dalla Russia. Alla luce di queste considerazioni allora viene da chiedersi: Draghi sta facendo una politica di lunghissimo o di brevissimo periodo? Se Draghi stesse lavorando per il benessere energetico italiano dei prossimi cinque o dieci anni potremmo ben comprendere la necessità di diversificare le fonti e le provenienze geografiche e, per ciascuna di esse, quella di progettare nuove grandi infrastrutture di trasporto.

Ma la sensazione è tutt’altra. E’ quella che Draghi stia sì facendo questo “tour” soltanto per mostrare a tutti la sua determinazione, in realtà ben sapendo che a pochi mesi dalle sue -ampiamente annunciate- dimissioni da premier, egli stia cercando di mantenere la propria ferrea linea atlantista proprio quando una serie di altri governi europei, con ben più realismo del nostro, iniziano a dichiarare dei distinguo nel proseguire verso la drastica riduzione delle forniture russe. Tra pochi giorni è in arrivo l’ennesimo pacchetto di sanzioni deciso da Washington, le quali sanciranno l’abbandono di qualsiasi posizione di dialogo con Mosca.

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E’ chiaro ed evidente infatti che la ”linea dura” nei confronti della Russia la stanno pagando praticamente soltanto gli stati europei. E che questo alimenta non pochi malumori. Ulteriori restrizioni nelle forniture non porterebbero soltanto un impoverimento delle tasche dei consumatori italiani, bensì anche dei probabili arresti di talune produzioni eccessivamente energivore.

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Uno scenario da “stagflazione” conclamata (cioè stagnazione economica e inflazione dei prezzi al tempo stesso), insomma, che molti paesi nord-europei vorrebbero evitare, cercando di non accentuare lo scontro. Draghi dal canto suo invece tira dritto e, nella posizione di premier, temiamo pensi soltanto a fare le valigie. Si mormora un suo nuovo ruolo a capo dell’alleanza militare atlantica. E sostanzialmente di un addio alla politica italiana. Altro allora che visione di lungo termine! Di brevissimo, casomai.

Stefano di Tommaso