L’INFLAZIONE PERSISTE (E I TASSI ALLA FINE RISALIRANNO)

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La ripresa post-pandemica sta assumendo un sapore amaro per i cittadini di tutto il mondo, a partire da quelli americani: la rapida risalita dei prezzi di praticamente qualsiasi cosa fa ancora fatica ad essere incorporata dalle statistiche ma appare persistere ed estendersi a tutti i settori dell’economia.

IL PREZZO DELL’ENERGIA È L’ASSE DI TRASMISSIONE

Tra le motivazioni possiamo immaginare che un ruolo importante l’abbia avuto la rapida risalita dei prezzi dell’energia, ma anche la relativa rigidità dell’offerta di beni e servizi rispetto alla crescita della domanda e forse anche le aspettative di ulteriore domanda generate dai programmi di supporto sociale e di incremento della spesa e degli investimenti pubblici stanno letteralmente mandando a ferro e fuoco i mercati di sbocco di buona parte di ciò che non è prodotto in Asia.

Il ruolo delle aspettative tende sempre ad essere sottostimato perché difficilmente misurabile on parametri ufficiali e incontrovertibili, ma quel ruolo nel determinare l’andamento dei mercati è del pari incontrovertibile e, stavolta, quelle aspettative di ripresa e di ritorno alla crescita rischiano di creare molti più problemi di quanti ne possano risolvere configurando la possibilità di un’inflazione che prescinde quasi completamente dall’effettiva crescita dell’economia.

IL COSTO DEL LAVORO SALE PER MOTIVI TECNICI

La spirale potrebbe iniziare ad avvolgersi con la brusca risalita del costo del lavoro, soprattutto in quei comparti (come le tecnologie e in generale la manodopera digitalizzata e qualificata) la cui domanda rischia di superare di molte volte l’offerta. Il meccanismo è alimentato anche dal fatto che una parte della popolazione attiva risulta poco idonea per motivi di età, o poco qualificata o infine anche poco motivata, anche a causa dei sussidi alla disoccupazione e della necessità di maggiori cure mediche.

Il mondo anglosassone insomma sta vivendo un’inflazione (anche salariale) che rischia di riverberarsi globalmente sulla crescita complessiva dei prezzi dei fattori di produzione, persino in campi storicamente poco toccati dal fenomeno come l’agricoltura o le costruzioni.

Se è difficile sperare che tali tendenze non si estenderanno anche al continente europeo, possiamo iniziare a notare una significativa deriva in tal senso anche in Cina e in India, che da sole costituiscono più di metà della popolazione mondiale industrializzata. Anche perché il costo del petrolio e quello delle derrate alimentari cresce anche lì.

LA PAROLA ALLA FED

La parola però qualche giorno fa l’ha ripresa il governatore della Federal Reserve americana: l’inflazione è transitoria! Non preoccupatevi. Ovviamente dunque la FED non alzerà i tassi, né vorrà cambiare atteggiamento, almeno sino a quando la disoccupazione si sarà ristretta un altro po’, oppure sino a quando altri fatti (dopo i numerosi mesi in cui si registra un’inflazione media che in America ha superato il 5%) le avranno dato nuovamente torto. E scommesse contro la Banca Centrale più potente del mondo -si sa- sono una bella sfida. La FED vuole compiacere un’amministrazione Biden che deve finanziare ancora le grandi opere che ha promesso e che vuole risparmiare suo costo del denaro del maggior indebitamento che necessariamente andrà a fare per riuscirvi.

Ciò detto però i tassi praticati alle imprese stanno andando su ugualmente, almeno in Europa. Alla chetichella, quantomeno quelli praticati dalle banche e dai fondi che investono in obbligazioni. Mentre quelli dei titoli di stato a lungo termine restano ancora bassi.

Ma è più probabile che la ripresa tenga duro oltre il mero rimbalzo post-restrizioni pandemiche (in un mio precedente articolo c’è una disamina più puntuale al riguardo) che non che l’inflazione torni a languire intorno allo zero, come dovrebbe essere con gli attuali tassi d’interesse. Perciò la FED sbaglia, probabilmente sapendo di sbagliare. E chi deve fare i conti con i programmi d’investimento è meglio che si affretti!

Stefano di Tommaso