SI RIVEDE L’INFLAZIONE?

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La decisione della nuova amministrazione Biden negli Stati Uniti d’America di sparare immediatamente quasi tutte le proprie munizioni in termini di stimolo ai consumi: 750 miliardi di dollari erogati non a rate bensì tutti insieme alla popolazione dovrebbe, nell’intenzione di chi guida Biden sul fronte dell’economia, rilanciare il prodotto interno lordo e la fiducia dei cittadini. Il punto però è che adesso i mercati finanziari temono un’inflazione al 3% entro la fine dell’anno e, di conseguenza, i tassi d’interesse stanno tornando a salire. E se con i tassi salirà anche il costo del debito pubblico, la frittata sarà servita.

 

I MERCATI INIZIANO A TEMERE IL PEGGIO

Nel grafico di copertina si vede infatti la decisa correlazione, nei decenni, tra l’offerta di moneta (linea più scura) in America e l’andamento conseguente dell’inflazione, che ha seguito sempre di qualche tempo la prima, salvo che nell’ultimo quadriennio, anche grazie ad un limitato dosaggio degli stimoli monetari e al coordinamento di questi ultimi con le altre politiche economiche.

L’amministrazione di matrice repubblicana era insomma riuscita a limitare l’impatto in termini di inflazione degli stimoli fiscali all’economia, abbassando la tassazione più che incrementando la spesa pubblica. Il programma del nuovo titolare della Casa Bianca tende a rovesciare tale equazione, incrementando fortemente (e molto improvvisamente) tanto la spesa pubblica quanto l’offerta di moneta.

Ma la manovra rischia di essere maldestra -soprattutto per l’avventatezza- non soltanto poiché di norma, se i tassi salgono, i corsi dei titoli scendono, dal momento che si suppone che il loro rendimento diventi inadeguato all’accresciuta esigenza del mercato di remunerare il denaro (le quotazioni Wall Street nelle ultime sedute sono scese e gli uffici studi sono adesso all’opera per riuscire a prefigurare come cambieranno di conseguenza gli scenari economici), ma anche perché la misura di tale intervento è stata giudicata eccessiva dagli analisti.

IL CONTRASTO CON LE POLITICHE MONETARIE

Per di più la banca centrale americana aveva appena ripetuto fino alla noia la sua volontà di non far crescere la parte dei tassi d’interesse che essa può controllare meglio (cioè quelli a breve termine) ottenendo come risultato una forte crescita delle quotazioni di borsa. Ora farà molta fatica a fare marcia indietro generando un’aspettativa diffusa di tassi d’interesse reali (cioè al netto dell’inflazione) negativi: un elemento assai poco attraente per gli investitori.

Ma soprattutto si è generata una circostanza in grado di far crescere il costo del denaro per il tesoro americano, dal momento che le emissioni programmate di titoli di quest’ultimo erano in prevalenza a lungo termine. Per tenere fede alla propria “forward guidance” la Federal Reserve sperava di centellinare l’immissione di nuova liquidità scaglionandola nel tempo senza risvegliare l’inflazione. Adesso, per assecondare le esigenze dell’amministrazione Biden, dovrà rivedere la sua posizione.

Insomma se l’idillio tra il nuovo presidente degli Stati Uniti d’america e i mercati si vede dai suoi primi passi, allora non ci siamo proprio! E non è detto che la minore attrattiva degli investimenti in Dollari comporti necessariamente una discesa del cambio del biglietto verde (cosa che farebbe comodo alle esportazioni americane).

LA CATENA DI TRASMISSIONE ALL’ESTERO

Perchè non è detto che il Dollaro si svaluti? Intanto i tassi americani -seppur nominali- sono cresciuti più rapidamente di quelli asiatici ed europei e questo ha temporaneamente rafforzato le quotazioni del biglietto verde. Poi non è escluso che il movimento al rialzo dei tassi d’interesse non riguardi anche gli altri mercati finanziari, con il risultato che -almeno l’Europa- potrebbe cadere in una trappola perfetta chiamata “stagflazione”: si troverebbe cioè con un’economia ancora in recessione e al contempo con il problema di una fiammata inflazionistica che nasce oltreoceano ma che può propagarsi molto in fretta a causa del fatto che i prezzi di buona parte di commodities, materie prime, derrate alimentari e idrocarburi sono denominati sempre in dollari.

Se ci aggiungiamo che anche altrove nel mondo le banche centrali stanno programmando nuovi e più corposi interventi monetari, quantomeno per supportare le emissioni dei debiti pubblici dei rispettivi governi, ecco che lo sgradevole olezzo della svalutazione monetaria prende sempre più corpo nell’intero pianeta e che -del pari- tornano a volare le quotazioni dei beni rifugio, a partire da quelle monete elettroniche che non è possibile inflazionare, come il Bitcoin.

E DI WELFARE CI SARÀ ANCORA BISOGNO

La forte crescita dei debiti pubblici e il conseguente rialzo del costo del denaro rischia di essere un bel problema da gestire, tenendo conto del fatto che i nuovi lockdown provocati in giro per il pianeta dalla terza ondata pandemica stanno lasciando sul tappeto molti milioni di posti di lavoro e che dunque c’è una rinnovata esigenza di politiche di “welfare” (sussidi pubblici) per le vittime. Se (come è probabile) i consumi non torneranno a correre, dovranno essere effettuati forti investimenti pubblici per poter evitare una nuova e più pesante recessione. I nuovi interventi pubblici saranno peraltro tutti rigorosamente in deficit, e per alimentare il debito che li finanzia la giostra delle banche centrali non potrà certo fermarsi.

Ecco che la rosea prospettiva di “monetizzare” i debiti pubblici con un lungo periodo di tassi bassi e inflazione sotto controllo rischia oggi di svanire così rapidamente che nessuno, al momento, è in grado di individuare efficaci correttivi che non passino da importantissimi interventi pubblici e investimenti infrastrutturali. Una leva quest’ultima che sino ad oggi, e per motivi incomprensibili ai più, i governi occidentali si sono rifiutati di azionare. Una leva che non è così importante nemmeno nel programma economico dei democratici americani.

LE BORSE POTREBBERO TEMERE IL PEGGIO

La nuova amministrazione americana a trazione democratica sperava quindi sì in una ripresa dei consumi, ma non si era preoccupata troppo del possibile caos che deriverebbe dal dover tenere a bada i nuovi focolai d’inflazione attraverso la forzosa riduzione degli interventi monetari e fiscali. Se tale scenario dovesse materializzarsi le borse andrebbero a picco e sarebbe difficile dare la colpa a qualcun altro.

Negli USA (ma in misura crescente anche altrove nel mondo oramai) i risparmi della gente -anche quando sono poca cosa- sono investiti prevalentemente in azioni e obbligazioni quotate in borsa e dunque il tenore di vita di chi li detiene o di chi ha programmato su quella base il proprio ritiro dalla vita lavorativa, risente delle loro oscillazioni di prezzo. Una feroce decurtazione dei valori dei titoli non verrebbe vissuta affatto bene da buona parte del ceto medio, che ha aiutato non poco a far eleggere il presidente in carica ma ne sarebbe la prima vittima.

LE POSSIBILI CONSEGUENZE A CASA NOSTRA

Per assurdo chi potrebbe sortire dalla svalutazione monetaria meno danni potrebbero essere proprio quelle economie meno forti e meno sviluppate finanziariamente come la nostra, dal momento che potrebbero cogliere l’occasione per recuperare competitività nelle esportazioni. Per un ventennio sino ad oggi l’Italia ha sofferto ferocemente dell’austerità monetaria di fatto imposta dall’Unione Europea. Se dunque l’inflazione arrivasse a lambire anche le nostre sponde teoricamente l’Italia ne sarebbe anche l’economia meno danneggiata.

Ma ricordiamoci anche che abbiamo giurato fedeltà alla moneta unica. Dunque la conseguenza per noi di uno scenario inflattivo rischia di essere quella di una nuova fuga dei capitali verso l’estero, e l’effetto netto di impoverimento del Paese con ulteriori tagli agli investimenti sarebbe di fatto devastante. La morale è purtroppo sempre la stessa: quando gli elefanti litigano sono le formiche quelle che rischiano di dolersene!

Stefano di Tommaso