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VALE ANCORA LA PENA DI INVESTIRE IN BORSA?

Dopo anni che le borse restano sui massimi di sempre, l’investimento in titoli azionari è ancora consigliabile? Se lo chiedono in molti, sia perché gli indici azionari delle borse valori hanno toccato livelli storicamente insuperati che saranno difficili da superare ulteriormente, ma anche perché adesso il rendimento annuo atteso (l’utile per azione) diviene particolarmente basso e il confronto con altre rendite (ad esempio quelle da investimenti immobiliari e quelle da titoli a reddito fisso) risulta obbligato. Ma nonostante i molti dubbi la risposta di questo articolo è prevalentemente positiva: ancora oggi può convenire. Ovviamente dipende molto dal “timing” e dunque il “fai-da-te” è decisamente sconsigliabile.

 

Ebbene sul fronte del rendimento implicito di ciascuna tipologia di investimenti si sono viste nel recente passato importanti novità, a partire dalla crescita oltre ogni ragionevole attesa dei profitti aziendali che hanno fatto dell’investimento azionario il migliore di tutti. Ciò nonostante la progressiva razionalizzazione degli investimenti immobiliari abbia reso più efficienti questi ultimi (e dunque capaci di essere più remunerativi), e nonostante la rivalutazione dell’oro abbia restituito luce ad una categoria (quella dei beni-rifugio) che con la bassa inflazione sembrava destinata all’oblio.

Certo non si può negare che le borse sono tornate “di moda” anche a motivo della caduta fino al di sotto dello zero dei rendimenti obbligazionari (partire da quelli dei titoli di stato tedeschi), che ha acuito l’interesse degli operatori per classi di investimento piu rischiose!

MA I CRITERI SONO CAMBIATI

Molte recenti convinzioni degli economisti sono svanite quando, nonostante la crescita impetuosa dei prodotti interno lordi di molte nazioni, il costo della vita è cresciuto molto meno delle attese e l’inflazione comunemente rilevata dai “panieri di beni e servizi” selezionati dalle statistiche ufficiali è rimasta praticamente al palo. Ovviamente l’inflazione dei prezzi è diversa per ciascuna tipologia di beni e servizi e ce ne sono alcuni i cui prezzi sono praticamente raddoppiati in pochi anni ma, indubbiamente, quelli di prima necessità sono rimasti relativamente tranquilli mentre l’economia cresceva, e questo mentre le occasioni di accrescimento delle entrate personali si sono moltiplicate con la crescita del P.I.L.

Così con l’inflazione che viaggia intorno all’1% nel mondo mentre il ciclo economico prosegue la sua corsa al rialzo da più o meno un decennio (da molto meno qui in Italia ma -si sa- le province dell’impero sono sempre penalizzate) ovviamente numerosi luoghi comuni dell’economia iniziano a venire meno, a partire dalla famosa “Curva di Phillips” che postulava una relazione diretta tra inflazione e occupazione. Oggi persino le banche centrali evitano di farne menzione.

BENI RIFUGIO SI O NO ?

Ovviamente con l’inflazione che resta sotto controllo gli investimenti in valori immobiliari ovvero in “beni-rifugio” comporta qualche perplessità, perché si tratta di categorie di attività basate su una relativamente scarsa liquidabilità e su rendimenti netti che spesso sono bassi (quelli degli immobili, se si tiene conto di tasse, manutenzioni e oneri straordinari) o addirittura sono nulli (i beni rifugio).

Ma se i rendimenti nominali dei titoli a reddito fisso picchiano verso il basso e l’inflazione (quella statisticamente rilevata) non si ravviva allora quale rendimento dobbiamo attenderci dalle altre tipologie di investimento? Probabilmente uno più basso di quello che eravamo stati pronti ad accettare quando ne formulavamo i prezzi, che sono evidentemente inversamente proporzionali.

 

I RENDIMENTI ATTESI SONO SEMPRE PIÙ BASSI

Dunque se oggi l’investimento in un paniere di titoli azionari che rispecchiano lo Standard&Poor’s 500

(l’indice più diffuso relativo a Wall Street, la più importante borsa valori del mondo) rende in media l’1,9% non c’è troppo da scandalizzarsi. È quasi normale.

Ma quel numero non è statico come quello di un titolo obbligazionario (soprattutto se me lo compro e lo tengo fino alla scadenza). La valutazione dei titoli azionari dipende dalle prospettive di crescita delle aziende di cui rappresentano il capitale, nonché dalla rischiosità e dalla liquidità del titolo. Ebbene qui entriamo in in un mondo molto più esoterico e i cui significati non sono mai delle certezze assolute, dal momento che non io posso comperare un titolo azionario e tenerlo fino alla scadenza, perchè che quest’ultima non esiste, né è costante il rendimento che acquisto.

NEW ECONOMY O OLD ECONOMY ?

Innanzitutto circa metà della capitalizzazione di borsa di Wall Street è costituita da titoli della “new economy”, cioè caratterizzati da aspettative di forte crescita ma anche dalla scarsissima redditività e dalla quasi assenza dello stacco di dividendi. Dunque la media della principale borsa d’oltreoceano è quella “del pollo”: una metà del listino non rende nulla ma ha importanti aspettative di crescita di valore mentre l’altra metà rende quasi il doppio (in media) e dunque più dei titoli di Stato americani e non è detto che -viceversa- sia destinata al crollo. Esiste però una relativa buona redditività espressa da quella metà del listino che non afferisce all’era digitale sulla quale si possono costruire interessanti strategie di investimento.

LA “BONDIFICATION” DEI MIGLIORI DIVIDENDI

Negli anni precedenti si è diffusa per esempio una teoria -quella della “bondification” che resta valida anche oggi e che ho suggerito in passato a qualche amico che mi chiedeva consiglio. Vale a dire acquistare soltanto una volta l’anno titoli azionari selezionati sulla base di A) una cedola in arrivo particolarmente ricca e B) di prospettive decenti per il futuro dell’azienda cui si riferiscono. Molto meglio se: C) si tratta di titoli a limitata volatilità. Poco dopo incassare la cedola e attendere che il prezzo del medesimo titolo azionario che ha pagato la cedola recuperi almeno il valore d’acquisto (cosa che a volte è immediata). A quel punto vendere il titolo azionario e non pensarci più fino all’anno successivo, rimanendo con ciò al sicuro da eventuali scossoni dei mercati e con la liquidità in mano (teoricamente pronta per nuove avventure). Dal momento che la cedola in taluni casi supera di molto il rendimento dei titoli obbligazionari o dei titoli di Stato (quelli americani), l’operazione è lucrosa e a bassa rischiosità (almeno quest’anno lo è stata).

MA ESISTONO ANCORA TITOLI CHE VAL LA PENA DI COMPERARE

Ma tutti gli altri (nonché i gestori di patrimoni) movimentano molto di più le risorse investite e continuano a chiedersi oggi se alle attuali quotazioni è ancora consigliabile in generale restare sui titoli azionari.

E la risposta, in molti casi, è ancora positiva, soprattutto se teniamo conto di quella parte di titoli azionari della “old economy” che offrono prospettive comunque interessanti e ottima redditività: per esempio i grandi gruppi bancari e assicurativi (a dire il vero soprattutto quelli d’oltreoceano) che spesso quotano in borsa una capitalizzazione inferiore ai mezzi propri contabili e che, per vari motivi, offrono dividendi molto elevati. Se dunque associamo la prospettiva di buoni rendimenti, possibili rivalutazioni e bassa rischiosità ecco che, con un’economia (in generale nel mondo ma in particolare in America) che non accenna ancora a flettere, restano investimenti decisamente migliori della media.

Nel grafico qui sotto riportato ad esempio si può leggere qual è stato il calo dei prezzi delle quotazioni delle principali banche europee dal 2009 ad oggi:


Ovviamente questo vale quasi soltanto per i titoli più liquidi, quelli quotati nelle principali borse del mondo e quelli relativi alle imprese, banche, assicurazioni o gruppi finanziari più grandi di tutti. Tutti gli altri potrebbero risultare appetibili prede di future concentrazioni di settore oppure semplici vittime della globalizzazione. Meglio starne alla larga, dunque, quando il contesto generale appare più incerto.

ATTENTI ALLE IMPRESE INNOVATIVE

Un capitolo a parte è costituito invece dai titoli azionari cosiddetti “digitali” cioè che devono il loro “appeal” all’economia digitale, alle nuove tecnologie o a forme intelligenti di “sharing economy” (a partire da Google e Facebook, che offrono buona parte dei loro servizi gratuitamente ma che in realtà offrono un’ottima redditività). Le loro quotazioni (intese come multipli dei rendimenti offerti) sono indubbiamente più elevate della media e la scommessa è basata sulla validità delle aspettative di loro ulteriore espansione: se le aspettative di espansione del business eccedono la realtà risulteranno in una perdita del valore di borsa e viceversa. E poiché le borse riflettono oggi valutazioni in media decisamente elevate, non è così agevole riuscire a selezionare un pacchetto di titoli di questo genere evitando il rischio di incorrere in pesanti perdite.

Dall’altro lato però se guardiamo alle macro-tendenze della storia economica, non possiamo non prendere atto del fatto che buona parte delle imprese che cinquant’anni fa costituivano il maggior valore del listino di borsa oggi non esistono più o sono fallite o sono molto state ridimensionate. Questo ci insegna che è sempre corretto guardare al futuro, sebbene esistano persino casi illustri come quello della IBM, che fino a pochi anni fa era la regina di Wall Street e al tempo stesso sinonimo di tecnologia. Oggi è anch’essa fortemente ridimensionata. Dunque l’appartenenza alla categoria dei titoli tecnologici non assicura di per sé una garanzia di sopravvivenza alle fluttuazioni dell’economia.

MEGLIO AFFIDARSI AI PROFESSIONISTI DEGLI INVESTIMENTI

Queste considerazioni portano all’ovvia conclusione che, almeno per quella parte degli investimenti azionari in cui si scommette sulla crescita (che oggi si tende a ridurre rispetto a qualche anno fa) occorrono grandi diversificazioni e analisi professionali delle prospettive, dunque occorre l’expertise di grandi investitori superspecializzati e non si può pensare di muoversi da soli.

E poi tutte le imprese che si quotano in borsa perché propongono forti innovazioni rappresentano un investimento storicamente soggetto a volatilità decisamente più elevate che non quelle attive nei settori più maturi, dove la concorrenza è più prevedibile, i “cigni neri” sono meno probabili ed è meno accentuata la dipendenza dalla normativa, dall’evoluzione delle grandi infrastrutture e dal cambiamento delle abitudini della gente.

Questo purtroppo non significa necessariamente che sarebbe meglio investire nelle borse europee, dove è più probabile che il nuovo Quantitative Easing si materializzi e dov’è è prevalente la categoria delle imprese tradizionali rispetto alle borse asiatiche e americana. Anzi: il mondo continua a cambiare e l’investimento in azioni non può non seguire le tendenze globali e la miglior liquidità dei mercati dove possono essere scambiate. Dunque promuoviamo a pieni voti ancora una volta l’investimento azionario, ma non alla vecchia maniera. E sono proprio le modalità e la selezione dei target a fare oggigiorno la differenza.

MA ANCHE IL “TIMING” È IMPORTANTE

Ma forse l’argomento più importante per l’investimento azionario risulta nella tempistica di “entrata” e “uscita” per ciascun titolo. Ogni investimento è teoricamente valido se si riesce a liquidarlo ad un prezzo migliore di quello di ingresso e, viceversa, persino un orologio rotto segna l’ora giusta due volte al giorno. Così persino il peggior investimento potrebbe essere disinvestito in un momento particolarmente favorevole e risultare in un buon affare. La selezione del momento migliore per farlo è oggigiorno divenuta perciò la cosa più difficile da indovinare e questo è anche il miglior motivo per muoversi sempre e soltanto attraverso operatori superspecializzati. Senza i quali gli strumenti per indovinare la tempistica rischiano di essere inadeguati!

Stefano di Tommaso