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LA DERIVA DELL’AUTOMOTIVE

Se c’è un settore industriale che va veramente male nel mondo è quello dell’industria automobilistica. A scriverlo non è soltanto il sottoscritto ma anche l’intero mainstream globale (la “cupola” delle testate giornalistiche e televisive che prevale nella pubblica informazione). Non soltanto perché il settore è rimasto troppo a lungo ancorato alle tecnologie tradizionali e oggi deve recuperare più velocemente possibile il divario accumulato, ma anche e soprattutto perché -nel frattempo- le vendite ristagnano e le manutenzioni programmate non sempre vengono effettuate, anche a causa di un eccesso di regolamentazione stradale e cittadina (in tutto il mondo) che di fatto ne scoraggia l’utilizzo.

 

NON È PIÙ TEMPO DI NICCHIE

La certificazione della disfatta l’ha firmata negli ultimi mesi la Germania, capace di realizzare ottime vetture e di organizzarsi egregiamente di conseguenza, ma impossibilitata ad arginare la deriva in corso. Ovviamente esistono importanti eccezioni a tale deriva, a partire dai segmenti del lusso e della tradizione (come ad esempio la Ferrari, i cui conti non sono mai stati così buoni), ma per gli osservatori è solo questione di tempo e poi anche le nicchie più profittevoli e prestigiose del mercato dovranno confrontarsi con il mondo che cambia. È noto a tutti che persino la Ferrari sta sfornando le prime auto elettriche.

Le magre aspettative dell’industria automobilistica tradizionale inoltre si confrontano con più di un dilemma pratico: “conviene” buttarsi pesantemente nelle innovazioni tecnologiche ai colossi del settore che rischiano di non recuperare mai gli investimenti necessari (a causa della penuria di vendite), oppure conviene prima concentrare il settore in poche, fortissime mani, per poi trovare (nel tempo) una vera convenienza nell’investirci sopra pesantemente? Ma anche così facendo, chi garantirà i colossi del settore del fatto che essi non saranno minacciati da nuovi entranti sul mercato, privi dei costi e dei pesi occupazionali degli operatori “incumbent” (già esistenti)?

IL DOMINIO DELLE “INCUMBENT”

Si potrebbe rispondere “è il capitalismo, bello mio”, ma in questo caso è un po’ come per il settore bancario: le normative riguardanti la sicurezza, le conseguenti certificazioni e le tematiche politiche e sindacali che vi sono dietro appaiono così complesse che -di fatto- ci sono molti modi per scoraggiare l’ingresso sul mercato dei nuovi entranti, sebbene il loro arrivo non farebbe che l’interesse dei consumatori. E così fino ad oggi è successo, con il risultato però di danneggiare fortemente l’intero settore industriale, oggi incapace di trovare al suo interno nuovo dinamismo se non guardandosi addosso e cercando di tessere alleanze e matrimoni per razionalizzare i costi, chiudendo uno stabilimento dopo l’altro nel mondo (molti dei quali nei paesi emergenti), per accorciare la filiera.

Ma i recenti sviluppi del mercato hanno dimostrato che è soprattutto alle innovazioni che la clientela guarda, privilegiando nuove tipologie di trasporto, nuove tecnologie di guida e nuove modalità di possesso degli autoveicoli, ben al di là della tematica dei costi, che si confrontano soprattutto con l’orizzonte di ammortamento dei veicoli (e che perciò divengono meno rilevanti quando tale orizzonte si allontana nel tempo).

IL DILEMMA EUROPEO

È questa una deriva dove divengono assoluti protagonisti gli operatori dove i mercati di sbocco ristagnano meno e dove l’innovazione è stata perseguita con maggiore assiduità: quelli asiatici ovviamente, Cina e Giappone in testa. Ai colossi euro-americani (come Fiat-Chrysler, Daimler Benz, General Motors eccetera) non resta che cercare di “tenere botta” sui mercati domestici, anche con un più attento controllo della filiera distributiva, ma la demografia gioca chiaramente a loro sfavore: i grandi numeri sono altrove.

Ecco allora che, soprattutto in Europa, culla natale dell’industria automobilistica e oggi quella con i più seri problemi di sovraproduzione di vetture tradizionali, ma anche sede delle più importanti società che producono componentistica di alta qualità per tutto il mondo, il settore si frammenta verticalmente (la Fiat vende Magneti Marelli, a un gruppo giapponese peraltro) e i ”brand” tradizionali cercano alleanze di ogni genere per uscire dalla trappola mortale.

PERCHÉ IL MATRIMONIO FCA-PSA S’AVREBBE DA FARE

E’ in questo contesto che apparebbe una facile previsione il possibile matrimonio tra FCA e PSA (Peugeot Citroen) che porterebbe più forza in Europa ad un operatore che oramai non riesce più a fare grandi numeri in Africa e Medio Oriente come faceva in passato e la forte presenza americana del gruppo Chrysler-Jeep che oramai per FCA conta per oltre il 90% dei profitti. La previsione sarebbe facile se non fosse altrettanto chiaro a tutti che non basta più il limitarsi unire le forze per riuscire ad essere competitivi se il prodotto sfornato è obsoleto. Ed è proprio per questo che i due grandi ci stanno riflettendo a lungo. Forse anche troppo a lungo…

Stefano di Tommaso