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LA DISCIPLINA DELLA CRISI D’IMPRESA IN ITALIA È LONTANA DA UNA VERA SVOLTA

Ho provato a analizzare le modifiche apportate alla disciplina della crisi d’impresa, ma ne sono rimasto profondamente deluso. Tutte le novità sono indubbiamente (e finalmente) onorevoli tentativi di orientare le procedure verso il salvataggio delle aziende e dei posti di lavoro che esse rappresentano (più che verso la punizione dell’insolvenza), ma mentre le leggevo un quesito è avanzato sopra ogni mia altra considerazione: ma è mai possibile che nessuna delle normative adottate con successo in tutto il resto del mondo si possano importare nel nostro ordinamento?

 

Siamo forse noi Italiani più bravi e più precisi degli altri da non essere interessati a ciò che è già stato testato, lubrificato e verificato altrove?

Abbiamo bisogno di sì tanta “hubris” (tracotanza) da arrivare a giudicare inutili, arretrate o inefficaci le norme meglio testate nei paesi più sviluppati dove un’impresa che resta viva o un imprenditore che ci riprova (perché non è perseguitato dalla giustizia e dalle parcelle degli avvocati) contribuiscono già in maniera decisa a ridurre il bisogno di intervento a sostegno dei salari da parte dei fondi di previdenza pubblica?

Dobbiamo davvero affidare all’attenta lettura del giudice la valutazione della bontà dei piani industriali presentati a supporto del salvataggio? Hanno forse studiato tutti alla Bocconi economia e management? O invece per la maggior parte i giudici della sezione fallimentare (si, questa non ha cambiato nome) sono ex Pubblici Ministeri, perdipiú spesso con decise convinzioni e aderenze politiche (quantomeno nell’ambito del partito prevalente della magistratura: “Magistratura Democratica”)?

E già, tocca far notare che le riforme che si susseguono nella disciplina in questione riguardano la norma, le modalità di approccio alla giustizia, i diritti dei creditori, la forma della presentazione dell’istanza tutelare, la possibilità di accorpare diverse iniziative (eccetera) ma non riguardano mai la magistratura, le carriere di chi è chiamato a giudicare, la loro preparazione, la tempistica che dovrebbero rispettare nell’esaminare le vicende. Mai. La Magistratura non si tocca! E ci mancherebbe! Cosa c’entrano i giudici con le procedure concorsuali?

Nemmeno in ambito europeo, che di solito impone una certa armonizzazione delle norme, si è pensato di imporre sistemi come quello germanico, nel quale l’impresa viene affidata a terzi imprenditori per tutta la durata del procedimento giudiziale. Nessuno ha pensato di far rassomigliare di più il nostro articolo 182bis al Chapter 11 dell’ordinamento americano. Nessuno si è posto il problema di come assicurare (davvero) all’impresa le risorse finanziarie essenziali per sopravvivere nel momento della crisi. Nessuno ha chiarito come risparmiare i manager del salvataggio dalla gogna mediatica e dai rischi penali.

In Italia non esiste soltanto la Casta dei politici, non solo quella dei Magistrati, dei Notai o della Guardia di Finanza. No. Tra le mille corporazioni medioevali ne esiste una informale e potentissima che riguarda i professionisti dei fallimenti. Spesso abili e ben introdotti nelle Cancellerie tribunalizie, sono individui che ne fanno una missione di vita (e una fonte lucrosa di reddito), inscalfibili persino in sede legislativa, che non ha alcuna intenzione di veder superati i propri privilegi attraverso una semplificazione e un’armonizzazione della normativa già solo a quella d’oltralpe.

Chi ci rimette come sempre sono i più deboli, quelli che restano nella precarietà e nell’emarginazione, specie se hanno cinquant’anni o più e sono ancora lontani quasi un paio di decenni dal privilegio della pensione (che invece i parlamentari guadagnano in un paio di annetti di servizio al partito).

Chi ci rimette sono anche i risparmiatori, che vedono fuggire all’estero le menti migliori, i capitali per gli investimenti, le competenze finanziarie e i mercati di sbocco di merci e servizi (a causa del fatto che la gente in precarietà spende meno).

Chi ci rimette sono anche le imprese, che devono riempire faldoni infiniti di firme nei moduli che le banche sottopongono loro per prevenire ogni guaio. Che vedono sempre meno credito e sempre più problemi fiscali a causa della vorace idrovora pubblica. Chi ci rimette sono le pensioni future perché con i blocchi e i licenziamenti collettivi esse si riducono. Chi ci rimette sono i giovani, che piuttosto che andare a lavorare in un carrozzone in crisi scelgono la via dell’estero e lo stimolo di qualche startup innovativa. Magari finanziata con i risparmi in fuga degli Italiani !

Stefano di Tommaso