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CAMPAGNA DI FRANCIA

LE MOSSE FRANCESI SU TELECOM-MEDIASET DIMOSTRANO CHE QUELLA DEL GOVERNO GENTILONI SULLA VICENDA FINCANTIERI È SOLO UNA BATTAGLIA DI RETROGUARDIA PER NON PERDERE LA FACCIA

Che la risposta francese alla possibile acquisizione da parte dell’italiana Fincantieri dei cantieri navali STX France di Saint Nazaire possa risultare nella nazionalizzazione di quest’ultima la dice lunga sulla percezione strettamente utilitarista del governo d’oltralpe al riguardo della sua partecipazione all’Unione Europea e ai principi che ne sarebbero ispiratori.

Noi italiani dobbiamo ammettere che non siamo culturalmente preparati al genere di battaglie che si profilano al riguardo, perché la nostra percezione della necessità che le imprese sul territorio siano controllate da imprenditori ivi residenti è infinitamente inferiore a quella dei battaglieri cugini d’oltralpe.

Ma la vera portata della questione “comunitaria” non risiede tanto nell’infrazione del principio della libera circolazione, bensì nella questione speculare e contemporanea, ma assai meno sbandierata dai giornali e dalle televisioni italiane, dell’invece incontrastata presa di controllo francese (e per di più con un minimo investimento di capitale) sulla Telecom Italia, del conseguente controllo dell’infrastruttura da questa detenuta che costituisce la principale dorsale nazionale delle telecomunicazioni e ora, dulcis in fundo, sulla possibile abbinata di tale operazione a quella di controllo di Mediaset, l’altro grande operatore di informazione nazionale dopo la Rai.

L’imbarazzante sensazione di chi scrive è che non solo siano stati ben pochi gli Italiani che si sono indignati relativamente al blitz da maestro del finanziere francese Bollorè quando è riuscito a mettere le mani sul controllo di Telecom Italia detenendone soltanto il 24%, ma che nessuno stia parlando delle possibili conseguenze del secondo blitz di quest’ultimo quando è riuscito ad accaparrarsi il 29% di Mediaset e, con sapiente pazienza, stia cercando di utilizzare la propria influenza di controllo sulla Telecom Italia per aggregarla.

Per non parlare dell’attuale manovra in corso del medesimo Bollorè: quella di scorporare da Telecom la sua rete infrastrutturale di telecomunicazioni (apparentemente rispondente alla logica di non lasciare sotto il controllo di un privato straniero un tale asset strategico) per poi andare a “ridefinire” la TIM che rimarrebbe come una “media company”. La manovra permetterebbe di trovare il cavillo giuridico per svincolare quest’ultima dalle restrizioni imposte dalla Legge Gasparri alle società di informazione nazionale, spianando la strada ad una successiva unificazione con Mediaset.

Lo scorporo della rete infrastrutturale consentirebbe a Bollorè di liberarsi inoltre del grave peso degli investimenti che essa richiede, la cui assenza getta un’ombra di arretratezza misurabile in termini di decenni del nostro Paese rispetto a buona parte del resto del mondo sviluppato. Se la manovra riuscisse a Bollorè, il peso di quegli investimenti oramai necessari e caratterizzati da un lento ritorno finanziario, ricadrebbe prevalentemente tra le braccia di quei soggetti che ne risulterebbero quali azionisti “di riferimento “, prima fra tutte la Cassa Depositi e Prestiti, cioè lo Stato. Niente male!

Non ci vuole uno stratega per comprendere che invece lo Stato dovrebbe costringere chi ottiene dal controllo di Telecom i benefici che ne conseguono anche a sostenere gli investimenti che essa richiede. Cosa che chiaramente non succederà (e i più maliziosi sono dunque quantomai autorizzati a chiedersene il ricco perché…).

È solo in questa luce che si può riuscire a comprendere per quale diavolo di motivo Gentiloni e Poletti mostrano (praticamente per la prima volta nella storia economica nazionale) la loro profonda indignazione per la “grave lesione degli interessi nazionali” a proposito della difficoltà che sta incontrando un’operatore non certo strategico o tecnologico quale Fincantieri nell’andarsi a prendere il suo diretto (e quantomai innocuo) concorrente francese.

La sceneggiata che sta svolgendosi al riguardo paventa un’insperata -e improbabile- richiesta di reciprocità tra due firmatari di un altrettanto improbabile trattato europeo per la libera circolazione delle imprese i cui boiardi di Stato non possono ostentare troppa indifferenza quando viene richiesto di farla rispettare per uno spillo da una parte e per un elefante dall’altra.

Non solo non è così che si esercita la “bilateralità” ma non si capisce nemmeno perché quest’ultima dovrebbe esistere dato che essa risulta nella più totale contrapposizione con i principi ispiratori dell’Unione Europea. Quella parola è esecrata soltanto se a pronunciarla è Donald Trump, visto dai nostri “maître á penser” come politicamente scorretto. A casa nostra la si vuole far passare come legittima senza che nessuno se ne abbia a male.

Ma, si sa, noi Italiani siamo bravissimi a indignarci sulla carta, e totalmente incapaci a trarne le dovute conseguenze. Almeno non prima che il “sacco di Milano” sia completato, come uso chiamare scherzosamente -e amaramente- l’invasione dei lanzichenecchi d’oggidì (che sono molto più francesi che tedeschi) nella loro corsa a prendersi il controllo delle principali imprese italiane, con un penoso e silenzioso consenso della classe politica italiana, che probabilmente è stata lautamente remunerata per non porre ostacoli di fatto.

In altri tempi si sarebbe parlato di reato di “alto tradimento” nei confronti degli interessi strategici di un Paese che si ritrova a sperare soltanto che un domani anche qualcuno dei suoi giovani possa emigrare e -improbabilmente- riuscire anche ad approdare ai posti di comando (perlopiù oltre confine) di quasi tutto il business che si svolge sul suo territorio nazionale.

Oggi la materia del contendere non si riuscirebbe nemmeno a portarla all’attenzione dei media. Che per l’appunto sono controllati da chi non lo gradirebbe!

Stefano di Tommaso