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Apocalisse

Unicredit è la seconda banca italiana ed è sull’orlo del disastro. Per rimettere in sesto Unicredit servirebbero almeno 9 miliardi di euro. Il problema è che nessuno li ha, e non sarebbero nemmeno sufficienti a mettere in salvo la banca in maniera definitiva.

Procediamo con ordine, e proviamo a raccontare la storia, tutta italiana, di questo istituto di credito, che potrebbe avere un finale drammatico per tutto il Paese, ed esporre ad un salvataggio bancario milioni di italiani.

Si può asserire che Unicredit ha imboccato la strada dell’apocalisse fin da quando l’allora CEO, Profumo, forgiò la Banca aggregando realtà italiane, a partire dal Credito Italiano e da Banca di Roma, e tedesche. La banca crebbe velocemente, è inutile ricordare tutte le aggregazioni e le acquisizioni, e Profumo divenne l’alfiere della finanza Ulivista, politicamente schierata senza pudori.
Il gigante, però, aveva i piedi di argilla.

I dipendenti erano (e sono) troppi, mal organizzati, pagati in maniera eccessiva e con una bizzarra organizzazione del lavoro. In questo contesto, il management spinse in modo forsennato per aumentare la redditività della Banca con metodi che possiamo definire al limite della legalità e che, in alcuni casi sanzionati dalla magistratura, questo limite lo hanno più che abbondantemente superato.

In ogni caso la gestione Profumo terminò non tanto per la sua cattiva gestione ma perché si trasformò in una specie di lacchè dell’allora dittatore libico Gheddafi che entrò in forza nel capitale della banca.

Dopo la defenestrazione di Profumo la situazione non migliorò di molto: non si è mai avuto il coraggio di incidere in una situazione di sprechi faraonici, sovrapposizioni di filiali frutto delle aggregazioni, dipendenti costosi e poco efficienti.
Una banca ben gestita, avrebbe potuto superare la crisi con qualche doloretto ma senza danni. Unicredit non era in queste condizioni.
I clienti fallivano (alcuni come nel caso di Divania, vennero fatti fallire per derivati capestro proprio dalla stessa Unicredit) o iniziavano a non restituire i prestiti.
Le sofferenze quindi, salivano in maniera esponenziale e oggi siamo arrivati alla somma mostruosa di oltre 80 miliardi di crediti in sofferenza.
Anche a voler immaginare che si riesca a recuperarne il 20%, significa per Unicredit una perdita secca di più di 65 miliardi. E’ vero che ci sono stati accantonamenti e che gli utili generati dall’attività bancaria sono stati utilizzati in parte per coprire questi crediti. Ma è come voler svuotare l’oceano utilizzando un cucchiaino, bucato per di più.

Gli utili delle banche italiane sono in picchiata. La colpa è di Draghi che ha abbassato fino ad annullarli i tassi di interesse ma questo ha distrutto anche il margine di intermediazione delle banche.
A questo punto Unicredit ha dovuto fare i conti con la realtà. Il management ha deciso di provare a cambiare rotta scaricando l’Ad Ghizzoni.
Quello che servirebbe subito sono almeno 10 miliardi di euro. Tale aumento, avrebbe però un effetto devastante: diluirebbe il peso delle Fondazioni Bancarie.

Ma nel caso di Unicredit, l’aumento di capitale avrebbe l’effetto di diluire la quota azionaria delle fondazioni per rafforzare il primo azionista, il fondo Aabar degli Emirati Arabi Uniti. O il quarto azionista, il fondo sovrano libico che malgrado la guerra civile che infuria in Libia ha trasferito la sede a Malta e continua i suoi oscuri traffici sui mercati finanziari oltre che a finanziare milizie di ogni tipo in patria. Insomma, non proprio una bella situazione. Le fondazioni si oppongono, dunque all’aumento, forse potrebbero essere disposte a sottoscrivere pro quota un aumento di capitale da appena 5 miliardi.

Ma le sofferenze sono mostruose, un aumento da 5 miliardi non servirebbe a molto, al massimo permetterebbe alla banca di continuare a galleggiare per qualche mese. Poi saremmo punto e a capo. Loro non hanno soldi, i fondi libico o degli Emirati Arabi sì e si prenderebbero la banca per meno, molto meno di un piatto di lenticchie. Cosa ne farebbero poi questi moderni predoni non è dato sapere.

La soluzione che qualcuno ha proposto e la vendita di una serie di banche ad alta redditività che operano in centro e est Europa. Un’idea che ha una serie di controindicazioni. In primo luogo, non si tratterebbe di una vendita ma di una svendita a prezzi così bassi da non risolvere assolutamente il problema.
Unicredit in effetti ci ha provato, cedendo la sua controllata Ucraina. Risultato? Ha dovuto mettere nel bilancio 600 milioni di euro di perdite dovute anche al crollo della valuta locale. Conti alla mano, la cessione delle controllate europee di Unicredit potrebbe, se le cose vanno bene, lasciare invariata la situazione patrimoniale.
Ma siccome siamo realistici, diciamo che molto probabilmente se Unicredit si mette a vendere per un piatto di lenticchie o meno queste banche, la situazione peggiorerebbe.

E se intervenisse Atlante? Ormai è una figura quasi mitologica del panorama bancario italiano.
In effetti, diciamo subito che Atlante ha già salvato Unicredit. Lo ha fatto quando ha sottoscritto interamente il capitale della Banca Popolare di Vicenza, evitando quindi che a farlo fosse Unicredit che aveva garantito l’aumento stesso. E se Unicredit avesse dovuto sborsare più di un miliardo di euro, avrebbe dovuto deliberare il giorno dopo a sua volta un aumento di capitale. Perché Atlante non può sottoscrivere l’aumento di capitale di Unicredit? Semplicemente perché non ha i soldi.

Se Atlante volesse sottoscrivere l’aumento, dovrebbe andare prima sul mercato a cercare altri soldi. Ci sono banche piene di liquidità che potrebbero sottoscrivere altre quote di Atlante? No, al massimo potrebbe essere la famigerata Cassa Depositi e Prestiti, cioè il custode del risparmio postale degli italiani. Insomma, se alla fine la soluzione sarà quella di Atlante, a tenere aperto per qualche altro mese la seconda banca italiana saranno i risparmi delle vecchiette (e meno male che sono un sacco di soldi grazie al generosissimo sistema pensionistico retributivo). Una forma mascherata all’italiana, di nazionalizzazione, che servirebbe a tenere aperto il carrozzone.

La soluzione vera, l’unica definitiva e sostenibile, sarebbe l’acquisto dell’intera banca da parte di un cavaliere bianco con un patrimonio solido e capacità gestionali, oltre che dotato del pugno di ferro necessario per riformare la banca e ridurre i costi tagliando filiali e personale.
Questo cavaliere bianco oggi in Italia non esiste. Un’alba rossa si sta per alzare su Unicredit, un’alba tinta dal sangue dei risparmiatori colpiti ferocemente da quello che potrebbe essere il più grande bail in della storia europea.

Chi può, si salvi, anche perché il Fondo di garanzia Interbancario ha le casse vuote e non potrebbe intervenire per coprire i depositi, non solo sopra i 100 mila euro, ma neanche al di sotto.

Guido Gorla