PROTEZIONISMO E MEDIOCRAZIA

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L’economia di guerra ha alcune caratteristiche peculiari. Tipici delle guerre sono infatti i fenomeni deflattivi, l’incremento della disoccupazione, la crescita del numero di sfiduciati che non cercano nemmeno più un lavoro, l’aumento delle tasse, eccetera.

L’insieme di questi fenomeni arriva a generare il c.d. “crowding out” dell’economia privata da parte di quella pubblica (spiazzamento), per cui ad esempio all’aumento delle aliquote fiscali diminuisce il gettito perché, dato uno stock di reddito, se si devono pagare più tasse si comprimono altri flussi. I consumi per esempio, se cresce l’aliquota IVA.

Tipico delle economie di guerra è anche il ritorno al protezionismo. Diversamente da quanto molto stampa ci racconta, chi ha determinato questo ritorno ad altri tempi, non è il Trump, miliardario generato dal capitalismo maturo della fine del secolo scorso, bensì i burocrati dell’Unione Europea, che trincerandosi dietro regole per la tutela della salute, hanno cercato di imporre misure protezionistiche agli Stati Uniti, impedendo l’importazione della carne nel vecchio continente. E non si tratta solo delle carni trattate con estrogeni, ma anche di numerose sostanze medicinali, il cui uso in Europa è vietato, salvo quando il veterinario deve curare un animale malato. Sulla base del fatto che  gli americani utilizzano anabolizzanti e ormoni con regolarità, è quasi  tutta la carne proveniente dagli Usa ad essere vietata in Europa.


IL CONCETTO DI “MEDIOCRAZIA”

La stampa nostrana, più che essere di “regime” è forse più semplicemente stata sapientemente orientata alla “mediocrazia” e, quindi, alla necessità di persuaderci di talune versioni della realtà appiattendo e ripetendo all’infinito degli slogan “discreti”, non dicendoci cioè mai cose troppo al di fuori del comune.

La verità è che il ceto “mediocratico” europeo occidentale (gli organi di informazione cioè nonché i loro manovratori, burattinai anche della politica) esce vittorioso da un decennio difficile (ha monopolizzato quasi tutte le leve del potere, mediatico e politico) ma anche cinicamente disilluso e, per cercare di contrastare il malcontento popolare che monta a causa dei fenomeni di impoverimento sopra descritti, si concentra sui rimedi tipici dell’economia di guerra.

La guerra però, accanto alle misure economiche sopra descritte prevedrebbe anche una riqualificazione industriale, legata alla produzione di armamenti e alla necessità di ricostruzione. Cose che, a differenza di un economia aperta al sistema globalizzato, possono essere talvolta favorite dall’isolazionismo per limitare la spesa per consumi e massimizzare la produzione industriale.


L’ECONOMIA DI GUERRA AL DI FUORI DELLA GUERRA

L’economia di guerra al di fuori della guerra invece, in assenza di una polarizzazione della spesa pubblica verso investimenti infrastrutturali, determina solo la fuga dei capitali, che in effetti migrano verso oriente, dove ci sono aree non a caso in continua evoluzione e in crescita esponenziale. Non stupisca quindi che sia  oggi il leader politico cinese Xi Jinping, ad elogiare pubblicamente la globalizzazione.

Il modello Europeo, per cui alcuni paesi hanno speculato sugli altri utilizzando la differenza tra i tassi di rischio e rendimento dei sistemi paese (i cosiddetti spread), hanno determinato  il trasferimento dei capitali dall’economia industriale (sottoposta a tasse e vessazioni) a quella speculativa, e quindi dall’industria europea alle attività finanziarie.

I burocrati dell’Unione Europea speravano che questo disegno strategico volto ad attirare ricchezze verso il centro dell’Unione e, di conseguenza, ad alimentare il suo potere, passasse sotto silenzio, coperti da una stampa accondiscendente, ma si sono trovati di fronte a crescenti dissensi popolari (o populisti, come spesso etichettati con disprezzo) e, per mostrare di voler recuperare un modello di sviluppo comune, oggi firmano nuovi trattati lasciando che un italiano, Mario Draghi, resti alla guida della Banca Centrale Europea. Ma gli hanno limitato i poteri, molto diversi da quelli dei governatori delle altre banche centrali.

E, al di là di qualche operazione di facciata, restano nell’Unione tutti i difetti genetici di un sistema creato per essere più favorevole ad alcuni paesi cha ad altri. La banca Centrale non ha come scopo il finanziamento dello sviluppo dell’economia (salvaguardandola da eccessi di inflazione), bensì semplicemente compiti di sostegno alla moneta unica e ai suoi più sviscerati fautori: le banche del sistema europeo. Come se il corso della  moneta, potesse essere un valore assoluto, proprio nel senso latino del termine: ab solutum, cioè sciolto dal sistema economico.

Così la funzione monetaria, privata del suo obiettivo di regolazione della velocità degli scambi, è relegata, ad obiettivi invece funzionali a quel disegno strategico di silenzioso accentramento di ricchezza e potere sopra descritto.


LA GRAN BRETAGNA E L’AMERICA GUASTANO I GIOCHI

Ma non solo la manovra a tenaglia degli euroburocrati non è riuscita a passare sotto silenzio, bensì è successo che i foschi scenari di crollo economico derivante dalla Brexit sono stati ripetutamente smentiti da una Gran Bretagna che ha persino visto la propria divisa rivalutarsi e , con l’avvento dell’era di Trump, il ciclo economico mondiale che sembrava volgere verso una nuova recessione, si è improvvisamente invertito, riportando il barometro economico verso il bello.

Non solo il Regno Unito e l’America, ma anche buona parte dei paese emergenti ne ha beneficiato e, ciliegina sulla torta, i maggiori segnali di recupero sono giunti miracolosamente proprio dall’Unione Europea, che si è ritrovata ad esportare molte più merci e ad attrarre molti più capitali, anche nella sua periferia mediterranea.

Intendiamoci, non si sa quanto la bonanza in corso potrà durare. Sicuramente però si è percepita la necessità, per i paesi come il nostro, di lavorare di più sulle esportazioni e sugli investimenti produttivi per poter cogliere il momento positivo.
Fino a ieri che l’impostazione dei principi di Basilea aveva danneggiato fortemente la redditività delle banche europee. La cosa era funzionale a impedire alle imprese periferiche e minori di finanziarsi per investire e moltiplicare i propri rendimenti ma il sistema europeo è dovuto anche correre in riparo del proprio sistema bancario -finanziandolo- per non mettere a rischio anche la moneta unica. Il nuovo respiro del sistema finanziario dà fiato oggi anche all’industria, tanto attraverso la grande liquidità che ha investito il mercato dei capitali, quanto con una rinnovata disponibilità di credito.

Oggi l’Europarlamento prova a correre ai “ripari” proprio con inutili misure protezionistiche, provando a convincere il sistema di essere vittima degli americani protezionisti. La manovra è volta a generare consenso politico e convinzione di essere vittima degli americani ma non riesce ad aumentare sufficientemente la velocità di circolazione monetaria. Gli attuali governanti perdono consenso interno a vantaggio di gruppi più o meno orientati a spinte secessionistiche che vorrebbero ispirarsi a Trump, ma che hanno in comune con lui solo la volontà di scardinare un sistema consolidato di controllo delle informazioni e dello sviluppo economico.


ALLA RICERCA DI NUOVI PARADIGMI

Ma non c’è ancora una  proposta politica davvero alternativa, non si intravedono la lucidità e la volontà di nuovi leaders determinati a ristrutturare il sistema europeo, e in questo modo è difficile fare ogni previsione economica a medio termine per il vecchio continente perché senza un cambio di programma generalizzato l’unica risposta dei “divergenti” dal pensiero unico può essere il desiderio di uscita dall’Unione.

Però sono pochi i Paesi che possono permettersi di stare a galla singolarmente sul mercato globale. Solo attraverso una presenza simultanea su vari mercati delle proprie imprese e una integrazione internazionale attuata sulla diversificazione globale della propria presenza economica sarà possibile per un singolo paese sopravvivere al cambiamento nel medio lungo periodo.

Si tratta dunque di impostare una nuova visione, non solo del proprio Paese, ma anche delle imprese, scoprendo nuove chiavi interpretative del sistema economico globalizzato e talvolta egemonizzato. Se è vero che non esiste epistemologia al di fuori dell’azione non può esistere azione profittevole  senza una minima comprensione epistemologica del contesto in cui si svolge il proprio agire.

Alessandro Arrighi
http://www.alessandroarrighi.com/